Hotspot – Le grandi manifestazioni dell’ultimo mese in Sudan stanno mettendo in seria difficoltĂ al-Bashir per la diversitĂ rispetto al passato, a cominciare dal coinvolgimento delle periferie e dalla mobilitazione di giovani e lavoratori
LE RIVOLTE IN SUDAN
Dal 19 dicembre il Sudan è attraversato da vaste proteste contro il Governo di al-Bashir, durante le quali sarebbero morte fra le 37 e le 45 persone, mentre gli arresti sarebbero circa 2mila. Le manifestazioni, partite dalla città nordorientale di Atbara, sono state scatenate dall’aumento del prezzo del pane, la scintilla che rappresenta in realtà un malessere ben più profondo e radicato. L’eterogeneo fronte in rivolta chiede che al-Bashir rassegni le dimissioni e acconsenta alla creazione di un esecutivo provvisorio in attesa delle elezioni del 2020, un’eventualità che condivide anche un numero sempre maggiore di esponenti della forza al Governo, il Partito del Congresso Nazionale (NCP). Il Presidente, però, mantiene la propria linea, da un lato procedendo con una dura repressione – anche tramite l’impiego di compagnie militari private russe e di milizie janjaweed, – dall’altro promettendo decise riforme economiche. In ogni caso, a differenza delle proteste del 2013 e del gennaio 2018, le rivolte di queste settimane stanno facendo davvero tremare al-Bashir.
LA CRISI ECONOMICA
L’aumento del prezzo del pane è l’ultimo atto della lunga crisi politico-economica del Sudan, aggravatasi dal 2011 con la secessione del Sudan del Sud e la perdita per Khartoum di tre quarti della produzione petrolifera. La combinazione tra contrazione della crescita, inflazione elevata, effetti delle ventennali sanzioni statunitensi (cancellate nel 2017) e debito pubblico ha spinto il Governo a proporre a più riprese misure drastiche, che vanno dalla limitazione dei prelievi al bancomat alla razionalizzazione della spesa pubblica – anche in accordo con il FMI, – con una forte riduzione dei servizi e dei sussidi.
I RISCHI PER AL-BASHIR
Le proteste in corso hanno alcune caratteristiche che le rendono particolarmente complesse per al-Bashir rispetto al passato. Un aspetto interessante, per esempio, è che le manifestazioni siano partite dalle periferie e non da Khartoum, che invece era stato il fulcro di altri sommovimenti. Questa dinamica è il risultato inatteso della precisa scelta del Governo di penalizzare soprattutto le città minori per evitare la reazione dei grandi centri urbani, una decisione che ha interessato in parte persino l’esercito, molto sensibile ad alcune rivendicazioni popolari – anche in questi giorni si segnalano episodi di solidarietà con i manifestanti. Temendo che in caso di nuove sollevazioni sullo stile del 2013 i soldati potessero mantenere un’attitudine ambigua, al-Bashir ha limitato la presenza dei militari a Khartoum, potenziando invece i reparti di polizia, che infatti adesso sono i protagonisti della repressione.
Altro fattore da tenere ben presente è il quadro politico. Per quanto i partiti di opposizione stiano cercando di coalizzarsi per avere un ruolo attivo nelle proteste, la loro presenza non è sempre gradita, né dalle associazioni di lavoratori, né dai gruppi di giovani. Quanto allo schieramento di Governo, nel NCP è ben presente l’ipotesi delle dimissioni di al-Bashir, ma a mancare è l’indicazione di un chiaro successore che guidi la transizione. Nelle mani del Presidente, tuttavia, ci sono ancora delle carte che, per quanto rischiose, possono essere giocate, dall’inasprimento della reazione alla richiesta di aiuto sotto varie forme agli alleati del Golfo – Khartoum partecipa alla guerra in Yemen dal 2015, – alla Russia o alla Cina. A essere certo è che la pressione accumulata in Sudan sia difficilmente imbrigliabile ancora a lungo.
Beniamino Franceschini
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