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Francia: facciamo chiarezza sulla protesta dei “gilets jaunes”

Analisi – Le violente proteste andate in scena in Francia nelle ultime settimane rivelano un malessere della popolazione che il Governo Macron non sembra finora in grado di intercettare. Facciamo chiarezza sulle reali motivazioni alla base di questa protesta e vediamo quali potrebbero essere le conseguenze per il resto dell’Unione Europea.

COSA È SUCCESSO?

Il 17 novembre, il 24 novembre e il 2 dicembre la Francia è stata scossa dalle manifestazioni del movimento dei così detti “gilet gialli” (in francese “gilets jaunes”), che sono degenerate in violenze diffuse. Le violenze sono state particolarmente gravi il 2 dicembre, quando un’importante parte del centro di Parigi è stata messa a ferro e fuoco: decine di auto sono state incendiate, oltre 130 tra manifestanti e poliziotti sono rimasti feriti, quasi 400 persone sono state arrestate e diversi esercizi commerciali sono stati saccheggiati. Il 24 novembre gli scontri e le distruzioni erano state circoscritti alla zona degli Champs-Élysées. Gli episodi del 2 dicembre (in aumento rispetto alla settimana precedente) e il clima insurrezionale nel quale si sono verificati hanno precipitato il Governo francese in una vera e propria crisi e messo Emmanuel Macron, il Presidente della Repubblica, sulla graticola.

COME SI È ARRIVATI A QUESTO PUNTO?

Le proteste sono iniziate il 17 novembre, quando circa 300mila “gilet gialli” (dai gilet catarifrangenti che sono diventati la “divisa” dei manifestanti) si sono mobilitati in tutta la Francia, organizzando soprattutto blocchi stradali. Il fattore scatenante delle dimostrazioni è stato l’annuncio, da parte del Governo francese, di un rincaro di 7 centesimi delle accise sul gasolio e di 4 centesimi di quelle sulla benzina. I motivi della protesta si sono poi ampliati e hanno finito per diventare sempre meno specifici (cosa che rende, tra l’altro, estremamente complicato il lavoro dell’Eliseo e del Governo per sgonfiare il movimento). Ormai i gilet gialli sono soprattutto guidati dalla rabbia della Francia profonda nei confronti del “sistema”, della tassazione eccessiva, delle disuguaglianze e, unico vero collante di un movimento che unisce frange (e temi) di destra e di sinistra, dall’ostilità profonda a Emmanuel Macron, di cui si chiedono le dimissioni. L’apparente contraddittorietà delle richieste evidenzia come il movimento dei gilet gialli sia diventato il veicolo per sfogare una rabbia diffusa piuttosto che un mezzo per ottenere concessioni specifiche. Insomma, si tratta di un fenomeno che a molti italiani può ricordare l’esperienza dei “Forconi”. La partecipazione alle manifestazioni è progressivamente calata, ma i numeri restano ancora importanti. Soprattutto, l’opinione pubblica sembra continuare a sostenere massicciamente le ragioni del movimento, nonostante le violenze. La causa dei gilet gialli è sentita soprattutto al di fuori della capitale, nella Francia rurale (dove, peraltro, il tema delle accise sulla benzina è ben più sentito che a Parigi e la situazione economica tende a essere più negativa). Un caso più unico che raro nella turbolenta storia francese.

Fig. 1 – Mentre Macron era in Argentina per il G20 in Francia andavano in scena le proteste dei gilet gialli | Foto: G20 Argentina

PERCHÉ EMMANUEL MACRON È COSÌ CONTESTATO?

L’accusa più comune rivolta a Emmanuel Macron è di essere il “Presidente dei ricchi” e non avere a cuore le classi sociali meno abbienti. La misura più sgradita ai gilets jaunes è l’abolizione dell’ISF (Impôt de Solidarité sur la Fortune), ovvero la tassa sulla “fortuna” inserita da Hollande. Questa tassa è costata al bilancio pubblico tra i 3,2 e i 5 miliardi di mancati introiti, secondo le stime. Secondo i gilets jaunes questa imposta rappresenterebbe uno schiaffo alla povertà, in quanto il Governo si occuperebbe di favorire le classi più agiate a scapito dei “poveri”. Nello stesso periodo, tuttavia, il Governo ha varato un provvedimento da 16 miliardi per l’abolizione della tassa sugli immobili (l’equivalente dell’IMU) per oltre i due terzi dei contribuenti e un pacchetto da 40 miliardi in credito d’imposta per artigiani e piccole e medie imprese (i cui titolari si annoverano sovente tra i gilet gialli). Da questo punto di vista, non è vero che il Governo ha “dimenticato” le classi meno abbienti in favore delle più abbienti.

EPPURE L’ABOLIZIONE DELLA TASSA ISF È UN FAVORE ALLE CLASSI PIÙ AGIATE. COME SI SPIEGA?

Innanzitutto perché la tassazione in Francia non è eccessiva come viene dipinta. Vediamo alcune cifre estratte dal sito ufficiale della Direzione Generale delle Finanze Pubbliche francese. Innanzitutto bisogna capire chi paga cosa. In Francia ci sono 37.683.595 contribuenti. Tutti pagano le cosiddette “cotisations sociales” (ovvero sanità e pensione). Il gettito fiscale propriamente detto, ovvero la tassa sul reddito, è gestita in modo diverso, per fasce contributive. Scopriamo allora che solo il 43% circa dei contribuenti è ritenuto “imposable”, e dunque, in termini pratici, le fasce più basse non contribuiscono al gettito. Guardando alla fascia medio-alta e alta, i contribuenti con reddito superiore a 50mila euro rappresentano il 10,8% dei contribuenti, ma ben il 70,4% del gettito proveniente dalle imposte sul reddito. Per fare un altro esempio, i contribuenti il cui reddito di riferimento è superiore ai 100mila euro sono circa il 2% del totale, ma contribuiscono per il 40,6% al gettito. La tassa ISF ha creato nelle classi agiate, che già subiscono un’aliquota al 45%, almeno la stessa frustrazione dei gilets jaunes. Questa rabbia non si è espressa con manifestazioni, ma con un’emorragia di persone e capitali. Dal momento che in verità queste élites – se così le possiamo chiamare – si fanno carico di una cospicua fetta dell’ingombrante stato sociale francese e per giunta vengono costantemente odiate per il fatto di essere ricche, si sono stufate e hanno cominciato a fuggire in massa. Macron ha tentato di invogliarli a restare e gratificarli.

Fig. 2 – Un veicolo bruciato a Parigi durante le proteste delle scorse settimane | Foto: NightFlightToVenus

ALLORA LA PROTESTA È INGIUSTIFICATA E SI TRATTA SOLO DI CITTADINI VIZIATI?

Niente affatto. Il problema reale esiste, ma si è creato un corto circuito comunicativo che probabilmente non porterà alla soluzione. Il Governo, dal canto suo, non ha inquadrato bene il problema e i gilet gialli ne disconoscono le cause. Proponiamo a tal proposito uno studio pubblicato dal quotidiano Le Monde sulla distribuzione del reddito e soprattutto sull’evoluzione del reddito disponibile delle famiglie al netto delle “spese non arbitrabili” (affitto, tasse, bollette, ecc.). Secondo questo studio, dal 1959 a oggi il reddito che le famiglie devono dedicare alle spese “fisse” è passato, in media, dal 12% al 30% del reddito. Tuttavia, all’interno delle diverse fasce di reddito, la differenza è abissale. Per le fasce di reddito più basse, a dispetto del fatto che non paghino la tassa sul reddito (e dunque di fatto non sono tartassati, anzi), le spese “fisse” rappresentano fino al 60% del reddito. La spesa media per il carburante rappresenta il 3% delle spese di una famiglia francese. Tuttavia, per le fasce della popolazione che già faticano a far quadrare i conti, anche l’aumento più piccolo ha un effetto visibile sulle tasche. In parole povere il problema reale è la riduzione costante del reddito disponibile e non le tasse. Un trend di lungo periodo che ha attraversato 60 anni di Governi di ogni colore politico. Pertanto i gilets jaunes hanno ragione nel dire che le condizioni dei francesi peggiorano, ma hanno identificato male le cause, che non sono le tasse. Anche l’Amministrazione Macron comunque ha le sue gravi responsabilità. L’attuale Governo non si è differenziato da quelli degli ultimi 60 anni, e molti cittadini francesi lamentano che per quanto riguarda questo tema specifico non c’è stata alcuna inversione di tendenza, a dispetto della veste di “nuova politica” che il partito La République En Marche (LREM) ha proposto.
È utile a questo punto richiamare un altro dato. A prescindere dall’eterogeneità delle rimostranze e dalla loro presentazione disordinata, il favore iniziale dei francesi nei confronti della prima protesta si attestava all’85%, poi calato al 75% dopo le prime violenze e ulteriormente sceso al 69% prima dei tafferugli di sabato 2 dicembre, in seguito ai quali è probabilmente calato più in basso (non abbiamo ancora i dati nel momento in cui scriviamo). Nonostante il calo fisiologico, però, si tratta di numeri plebiscitari, importanti. Dunque c’è un problema di tipo socio-economico che la politica non riesce a captare.
A dire il vero, sia il Front National (ora Rassemblement National) di Marine Le Pen, sia il partito La France Insoumise capeggiato da Jean Luc Melenchon hanno centrato il problema e lo hanno messo al centro delle loro campagne elettorali delle presidenziali. Entrambi gli schieramenti devono in parte a questo il consenso che hanno riscosso. Peccato che le misure che proponevano per invertire il trend fossero basate sull’aumento del deficit e del debito pubblico e dunque avrebbero risolto un problema per crearne un altro. Ricordiamo che la Francia ha un debito pubblico al 96% del PIL e anche quest’anno ha faticato a contenere il suo rapporto deficit/PIL. Difatti, la soluzione trovata quando il debito pubblico era a livelli accettabili era di farne di nuovo. Ora che questo non è più possibile perché ci si è indebitati troppo, le soluzioni reali languono.
Alle elezioni i cittadini francesi si trovano a scegliere tra due categorie: i partiti moderati come LREM, Les Républicains (LR) e il Partito socialista (PS), che propongono politiche responsabili, ma che non inquadrano il problema, e i partiti estremisti, che hanno visto bene qual è il problema, senza essere in grado di formulare soluzioni credibili. Dunque un movimento apolitico e concentrato sul tema ha riscosso successo. E sebbene Le Pen e Melenchon abbiano tentato di cavalcare la protesta, non sono riusciti del tutto trasformare il malcontento in consenso.

Fig. 3 – Un momento della manifestazione dei gilet gialli a Parigi del 1° dicembre | Foto: NightFlightToVenus

A COSA È DOVUTO QUESTO CALO DEL REDDITO DISPONIBILE? COME SI AFFRONTA?

Il declino del reddito disponibile delle famiglie dipende dalle dinamiche che guidano il tessuto economico, e dunque dalla distribuzione degli utili prodotti dal tessuto economico. Questa distribuzione va sempre più a favore dell’azionariato e sempre meno a favore del salariato. Tuttavia è difficile fare di questa affermazione una legge generale ed è difficile comprendere anche quale soluzione un Governo possa dare al problema, perché non riguarda direttamente le politiche economiche. Il primo passo significativo sarebbe appunto riconoscere che c’è un problema di questo genere nel tessuto economico, occuparsene e studiarlo, per capire dove intervenire. Ma finché ciò non viene fatto in modo organico e sistematico, le persone evidenzieranno problemi che da un lato finiranno nella cassa di risonanza dei partiti populisti senza ottenere soluzioni, dall’altro saranno ignorati dai partiti moderati, con effetti ancora peggiori. Inoltre, considerando la globalizzazione dell’economia, è probabile che la soluzione strutturale a un problema di questo genere non si possa trovare esclusivamente all’interno dei confini nazionali.
Purtroppo la conflittualità odierna sui temi economici tra gli attori principali a livello globale non lascia presagire alcun accordo in tal senso. L‘UE, paradossalmente odiata dai cittadini, è tra i pochi soggetti ad aver posto tra gli obiettivi della riforma del WTO anche una parte “sociale” che tenga presenti i modelli economici e di retribuzione, ma difficilmente riuscirà a far passare con Stati Uniti o Cina concetti così orientati al servizio al cittadino. Ma tornando al caso francese, sarà complicato trovare una soluzione strutturale, seppur limitata, nelle condizioni attuali. Un altro errore grossolano di Macron è stato sventolare i dati della crescita economica come soluzione. È vero che l’economia francese si è rimessa in moto, ma ci sono due grossi limiti: il primo è che la crescita è ancora troppo debole perché l’impatto sia visibile a tutti, il secondo è che, come dimostrano le serie di dati dello studio di Le Monde, la diminuzione del reddito disponibile è una costante rilevata anche nei periodi di maggior crescita dell’economia francese.
Si tratta dunque di un fattore indipendente: il miglioramento di quel dato non è legato linearmente all’andamento dell’economia. Quindi i gilets jaunes hanno torto, l’andamento del loro reddito prescinde dalla loro tassazione e dalla rimozione della tassa ISF. Ma ha torto anche il Governo affermando che con la maggiore crescita economica attesa tutto andrà a posto naturalmente. La tassa sul carburante, che diminuisce ulteriormente il reddito disponibile, ha fatto da casus belli per pressioni sociali presenti da lungo tempo, ma delle quali tutte le parti coinvolte hanno scarsa consapevolezza (individuale e collettiva) riguardo a cause e conseguenze. Senza questa consapevolezza è difficile studiare le dinamiche specifiche che alimentano il fenomeno e dunque prendere misure (nazionali, ma probabilmente quelle efficaci possono essere solo di natura internazionale) veramente appropriate.

Fig. 4 – I gilet gialli sotto l’Arco di Trionfo a Parigi | Foto: NightFlightToVenus

IL POTENZIALE IMPATTO IN EUROPA

Il problema della riduzione del reddito a disposizione non è un problema solo francese, ma è sentito in molti Paesi europei, compresa l’Italia. Con dinamiche diverse, anche nel resto d’Europa i cittadini lamentano la riduzione del proprio reddito, addebitandone le responsabilità ai Governi e ai livelli di tassazione elevata. In effetti, la crescita della tassazione – per esempio proprio nel caso italiano – ha aggravato queste dinamiche. Come in Francia, molti Governi non hanno ben identificato il problema, oppure non lo hanno studiato a fondo, pensando che facesse parte dell’insieme delle rimostranze popolari tipiche: meno tasse, più aiuti, più servizi. Invece si tratta di un trend macroeconomico che non riguarda un singolo Paese e la cui meccanica di lungo periodo (come abbiamo visto lo storico francese copre ben 60 anni) è poco conosciuta. I dati ci aiutano a illustrare che il problema esiste, ma né chi lo sente sulla propria pelle né chi è chiamato a porvi rimedio ha dimostrato di conoscerne a fondo le cause. Tuttavia, la sensazione di povertà e peggioramento del proprio tenore di vita è comune ad ampie fasce della popolazione dei Paesi europei, per cui il movimento francese – come già successo in qualche caso – potrebbe ispirare rivendicazioni analoghe. Queste possono avere due effetti opposti, secondo come verranno gestite: ottimisticamente potrebbero spingere i Governi a occuparsi delle cause di questo progressivo impoverimento anziché curarne solo i sintomi; pessimisticamente, se i black-out comunicativi tra attori (istituzionali e non) che partono da posizioni ideologiche o dottrinali sulla questione dovessero continuare, probabilmente si andrebbe verso ulteriori polarizzazioni delle società interessate, senza peraltro portare a benefici sul tema oggetto della rivendicazione.

E ORA?

È indubbio che la “luna di miele” tra Macron e i francesi sia terminata. Probabilmente i disordini delle ultime settimane scemeranno e potranno essere lasciati alle spalle, ma sono un indicatore di una situazione di malessere – non necessariamente reale, ma forse in molti casi solo “percepita” – che potrebbe diffondersi anche in altri Paesi europei. Su questo si innesta una dinamica di lungo periodo, quella della transizione energetica verso un utilizzo decisamente più ecologico delle fonti, che la Francia ha iniziato in maniera decisa già durante la presidenza Hollande. Si sa che tutte le transizioni radicali producono insoddisfazione e malessere in diversi settori della popolazione, e la dinamica attuale non è da meno. Dovrebbe spettare non agli stati membri dell’UE, ma alla stessa Unione prendersi la responsabilità di governarla in maniera collettiva e partecipata, elaborando strategie di lungo periodo che permettano di disinnescare le tendenze disgreganti che serpeggiano in giro per il continente.

Marco Giulio Barone – Davide Lorenzini – Davide Tentori

 

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Marco Giulio Barone
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Marco Giulio Barone è analista politico-militare. Dopo la laurea in Scienze Internazionali conseguita all’Università di Torino, completa la formazione negli Stati Uniti presso l’Hudson Institute’s Centre for Political-Military analysis. A vario titolo, ha esperienze di studio e lavoro anche in Gran Bretagna, Belgio, Norvegia e Israele. Lavora attualmente come analista per conto di aziende estere e contribuisce alle riviste specializzate del gruppo editoriale tedesco Monch Publishing. Collabora con Il Caffè Geopolitico dal 2013, principalmente in qualità di analista e coordinatore editoriale.

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