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Gibuti, piccolo crocevia di grandi giochi

Miscela Strategica – L’area mediorientale e i passaggi marittimi obbligati della sponda est africana si ripropongono con la loro valenza strategica. Fabbisogno energetico, economia e proiezione di potenza ritornano, con altri attori, su palcoscenici già visti.

TRA RICCHEZZE E PROBLEMI

Gibuti rappresenta uno di quei casi geopolitici in cui l’esigua estensione territoriale è inversamente proporzionale alla rilevanza strategica. La posizione geografica rende lo Stato gibutiano un punto nodale operativo e di interessi di rilevanza globale, dati gli attori interessati che già insistono sul suo territorio e quelli che desiderano accedervi. Aspirazioni egemoniche regionali e planetarie passano dunque per la cruna di un ago piccolo, ma pungente, inospitale, ma ambito. L’11 settembre 2001 ha sancito la trasformazione di Gibuti da scalo marittimo secondario all’imboccatura del Mar Rosso a sede di una base USA avanzata (Camp Lemonnier), resa via via più strategica da Primavere arabe, crisi d’area, Daesh e recrudescenza degli episodi di pirateria. Solo Yankees in Dancalia? No. La presenza internazionale in uno spazio così ridotto è impressionante: francesi, tedeschi, olandesi, spagnoli, russi, italiani, cinesi, giapponesi e sauditi stanno contribuendo ad arricchire la piccola Repubblica con una pioggia di valuta pregiata. Che fra tutte le nazioni presenti si trovino anche competitors emergenti sia a livello globale che regionale è indicativo dell’importanza dello scalo: individuarne poi altri che, in termini di investimenti e attività, puntino a sorpassare chi già detiene posizioni egemoniche globali è ancora più significativo. Basti pensare al Giappone, che ha istituito la sua prima base oltremare dopo la Seconda guerra mondiale, e alla stessa Italia, che ha inteso dare reale profondità a un’azione volta a tutelare fattivamente i suoi interessi commerciali e strategici (per una volta!). Quello che però sta effettivamente diventando un caso di “scuola geopolitica” riguarda la Cina, che sta impiantando nel Golfo di Tadjoura una base aeronavale, l’unica al momento extra limites, che accoglierà più di 5mila soldati, con infrastrutture portuali capaci di garantire l’attracco di navi militari di grossa stazza.

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Fig. 1 – Il segretario alla Difesa James Mattis in visita a Gibuti

LA POLITICA DELLA FORMA DELL’ACQUA

La economic suasion cinese non poteva lasciare indifferente la burocrazia gibutiana, in cerca di liquidità e investimenti infrastrutturali altrimenti impossibili. La mossa di Xi Jinping, ispirata a un disegno strategico globale, ha tuttavia inasprito la competizione con la talassocrazia americana che, già impegnata nel Mar Cinese Meridionale, ha visto aprirsi un nuovo fronte che permetterà ai cinesi, con i loro distaccamenti imprevedibilmente così vicini a Camp Lemonnier, di osservare da molto vicino le attività statunitensi in Nord Africa e nella Penisola Arabica. La profondità strategica del Dragone, unitamente a una politica di potenza dosata con la sapiente capacità orientale di utilizzare pazienza e apparente mancanza di aggressività, sta dando una forma compiuta all’acqua contenuta nel vaso dei progetti geopolitici cinesi. Gibuti è dunque la testa di ponte dell’Impero di Mezzo in Africa, dove si sta imponendo come primo partner commerciale: Gibuti, un avamposto che si sta trasformando in una delle tessere più importanti di un immenso mosaico che, sia pur lentamente, sta delineando la Cina quale potenza d’oltremare in fieri. Per Bab el Mandeb, la Porta delle Lacrime, transita il 40% dei traffici marittimi mondiali, e soprattutto la metà dell’import energetico cinese, ovvero la chiave che permette di rendere concreta la realizzazione del braccio marittimo della tenaglia della Nuova Via della Seta. Presso lo scalo commerciale di Doraleh, a non più di 5 chilometri dalla base Cinese, stanno sorgendo terminal, scali container e tutte le infrastrutture capaci di rendere il porto un hub polifunzionale. Gli USA esprimono forti timori che i gibutiani tentano di lenire, ma l’oggettività e l’entità degli investimenti sembrano tuttavia dare sostanza all’ipotesi di un’acquisizione cinese del porto pari a non meno del 25% del suo valore: il Pireo avrà pur insegnato qualcosa. Il XXI secolo a Gibuti, pur giungendo in ritardo, sembra volersi repentinamente volgere verso il futuro, proponendo opere che stanno letteralmente rivoluzionando l’area, mettendola in diretto contatto ferroviario con Addis Abeba, mentre fibre ottiche d’avanguardia la rendono il principale fulcro informatico della costa orientale africana. Ma non tutto l’oro cinese luccica. L’economia gibutiana non decolla, le maestranze al lavoro sono cinesi, e i prestiti concessi, pur se agevolati, nascondono la trappola della “benevola” concessione, qualora non onorati: l’acqua prende la forma di una forca caudina che conduce a un “silente” possesso pluridecennale. Se da un lato il Dragone sembra basarsi su principi di parità e di non interferenza, dall’altro lato i Paesi africani devono impegnarsi ad accettare il dogma del riconoscimento diplomatico di un’unica Cina, quella popolare, astenendosi da critiche inerenti sia alle politiche interne cinesi, sia alle modalità di intervento economico nelle dinamiche di investimento nei loro stessi territori. Del resto non è un mistero che la Cina intenda i diritti umani come sviluppi economici soggettivi, e che qualsiasi critica occidentale venga interpretata come un tentativo di discredito.

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Fig. 2 – Xi Jinping riceve il presidente di Gibuti, Omar Guelleh, in Cina.

PROFONDITÀ STRATEGICA E INTERESSI DIVERGENTI

Gibuti si trova pur sempre in un’area geopoliticamente complessa, e le crisi che attraversano il Golfo Persico inevitabilmente vanno ad alimentare l’instabilità del Corno d’Africa, mettendo potenzialmente a rischio gli investimenti cinesi. Due ulteriori elementi critici sono rappresentati dalla Turchia e dall’Egitto. Il permesso ottenuto dal Sudan ha concesso alla Turchia di costruire una base militare presso Suakin, aspetto che, se posto in correlazione con la già rimarchevole presenza militare turca in Qatar e in Somalia, unitamente al desiderio neo-ottomano di posizionarsi a propria volta a Gibuti, non può non far pensare alla concretizzazione della strategia della profondità strategica di Ahmet Davutoglu, e al proposito di mettere in allarme Arabia Saudita e USA a causa della contiguità turca alle cause iraniana e qatarina. L’Egitto, a sua volta, teme che l’accordo turco-sudanese possa alimentare un conflitto ai suoi confini meridionali. Se la Cina intenderà tutelare i propri investimenti, dovrà dunque necessariamente intervenire per mantenere una parvenza di stabilità nell’area, magari trovando congrue convergenze di interessi. Che la Vision 2030 saudita e la Belt and the Road Initiative (BRI) cinese siano progetti accidentalmente complementari è un fatto, che possano far confluire  interessi è evidente. L’intento saudita di diversificare la struttura delle entrate statali, non più vincolate solamente all’estrazione petrolifera, potrebbe trovare una sponda nella BRI, bisognosa delle vie marittime garantite dal controllo del Mar Rosso, punto di convergenza tra Asia, Europa e Africa. Pechino, a questo scopo, oltre che a Gibuti, ha provveduto a investire somme cospicue per lo sviluppo del porto saudita di Yanbu, vicino al polo commerciale di Jeddah. Ancora dunque geopolitica portuale e delle comunicazioni, a partire da Gwadar in Pakistan, che si oppone non solo al conflitto egemonico irano-saudita, ma anche sino-indiano. La già richiamata necessità di sicurezza richiede stabilità e controllo delle rotte che, dall’Oceano Indiano, passano dalla Porta delle Lacrime per risalire verso Suez, tenendo conto dei rischi creati dal conflitto saudo-yemenita e dal network islamista. Le strutture economiche saudite e cinesi sono speculari per quanto riguarda l’incrociarsi di domanda e offerta energetica: Riad si proietta a oriente in cerca di ulteriori investitori, mentre la Cina cerca di consolidare e rendere sicure le nuove rotte marittime.

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Fig. 3 Vista del porto. Le attività intorno al porto di Gibuti sono il cuore di giochi geopolitici di grandi dimensioni

PIÙ POTERI, PIÙ RESPONSABILITÀ

Oltre agli investimenti e agli accordi diplomatici, la Cina ha bisogno di un reale “braccio operativo” che sia davvero interprete e “concretizzazione” dell’azione politica: una Blue Navy in grado di competere con la prima talassocrazia mondiale, quella statunitense. Due aspetti vanno quindi rimarcati: il primo è che Gibuti potrebbe essere solo il primo degli scali sulla costa orientale africana, e che l’altro potrebbe ubicarsi in Tanzania; il secondo è che ora è necessario che gli ormeggi gibutiani si popolino di navi dalla prora oceanica. Xi non ha mai fatto mistero di ritenere necessaria una Marina potente, che garantisca la supremazia e la proiezione di potenza in una visione più ampia. Mentre la Portaerei Liaoning sembra essere destinata all’effettuazione di missioni in teatri regionali, nuovi sistemi propulsivi nucleari dovrebbero caratterizzare le unità di allestimento previsto dal 2025 al 2049. È ovvio che, per lungo tempo, le capacità operative cinesi su scala globale non potranno eguagliare quelle americane, ma è altrettanto vero che la cantieristica sta producendo uno sforzo notevole per realizzare unità in house, equipaggiando le UU.NN. con sistemi d’arma di integrale produzione nazionale. La Portaerei Shandong, allestita dai Cantieri di Dailian, risulta essere un’unità operativa perfezionata e soprattutto in grado di assicurare un training più che probante per il personale imbarcato. Tenuto conto che la terza portaerei sarà ancora a propulsione convenzionale, e che a partire dalla quarta (prevista in allestimento dal 2025) la Cina passerà a quella nucleare, assumerà notevole importanza la costituzione di veri gruppi navali da battaglia fondati su caccia lanciamissili Type 055 con armamento elettromagnetico affine a quello ancora in via di sviluppo sulla Classe Zumwalt americana, e sottomarini d’attacco Type 095. Laddove la Cina riuscisse a colmare il gap addestrativo ed esperienziale con gli USA, aumenterebbe drasticamente le sue capacità proiettive, riuscendo quindi a garantire una copertura sia regionale che a più lungo raggio, in grado di difendere gli interessi nazionali anche sulle rotte extra Mar Cinese e Oceano Indiano.

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Fig. 4 – La portaerei Shandong nel corso della prima uscita in mare.

CONCLUSIONI – Come già anticipato, Gibuti è un’entità geograficamente esigua, ma quel che ne può conseguire in termini di valutazioni geopolitiche e geoeconomiche trascende le sue dimensioni. Fermo restando che le intenzioni espresse da una classe politica dominante devono necessariamente poi trovare un’adeguata e concreta traduzione, non si può negare che la Cina stia mostrando una proattività degna di una grande potenza planetaria. La sua politica contempla sempre piani alternativi e funzionali agli obiettivi prefissati: l’Iran, utile per bypassare situazioni difficoltose sulla tratta terrestre della BRI in Pakistan o in Afghanistan, è già pronto a incrementare il suo indotto verso e dalla Cina. Le variazioni istituzionali recentemente intervenute, che rendono quanto mai stabile e volta al futuro la figura di Xi, uomo votato a non perdere tempo e ad affrontare i rischi, sembrano promettere la realizzazione di quanto da lui programmato. Mai come ora, parlando di Marina, un presidente Cinese ha potuto essere qualificato come “Grande Timoniere”.

      Gino Lanzara

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