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Cina, UE, e accordi sul clima: una nuova leadership?

Quando nel giugno 2017 il Presidente Trump ha annunciato di voler ritirare gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi, la comunità internazionale ha iniziato a guardare alla cooperazione sino-europea come unica via per portare avanti la lotta ai cambiamenti climatici. La cooperazione tra Pechino e Bruxelles ha permesso il lancio dell’Emission Trading System cinese ed entrambe le potenze intendono ridurre progressivamente la loro dipendenza dal carbone. Tuttavia, sebbene la Cina abbia ridotto il consumo di carbone a livello domestico, gli investimenti cinesi in infrastrutture all’estero contrastano con una potenziale leadership ambientale.

CINA-UE NELL’ERA POST-KYOTO

Sebbene le relazioni tra Cina e Unione Europea siano spesso incentrate su obiettivi comuni di natura economica e commerciale, sembra che negli ultimi anni le priorità sino-europee si siano allineate riguardo gli accordi sul clima. In particolare, dopo l’annuncio del Presidente Trump nel giugno 2017 circa il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi, tanto la Cina quanto l’Unione Europea hanno espresso la volontà di continuare ad impegnarsi nella lotta contro i cambiamenti climatici. Sia Pechino sia Bruxelles hanno infatti promesso di portare avanti le misure necessarie ad implementare l’accordo che entrerà in vigore nel 2020, destinato a sostituire il Protocollo di Kyoto. Se la decisione di Trump ha lasciato un vuoto di leadership, la comunità internazionale guarda ora alla cooperazione tra Pechino e Bruxelles come l’unica via per continuare a portare avanti la lotta al riscaldamento globale. Stabilito nel 2005, il partenariato sino-europeo sul cambiamento climatico costituisce il più alto strumento politico attraverso cui le due potenze portano avanti le iniziative di cooperazione sul clima. I cosiddetti joint statement del 2010 e 2015 illustrano gli obbiettivi comuni e specificano le aree di cooperazione ambientale tra Cina e Unione Europea. Nonostante l’ultimo joint statement, previsto per la fine dell’EU-China Summit tenutosi a Bruxelles nel giugno 2017, non sia stato formalmente adottato a causa di una disputa commerciale tra le due potenze, Cina e Europa hanno successivamente organizzato altri summit sul clima, includendo anche il Canada. La cooperazione sino-europea in ambito climatico è quindi una realtà concreta, il cui più recente risultato è stato il lancio dell’Emission Trading System (ETS) di Pechino, creato grazie al capacity building dell’Unione Europea.

Sebbene gli accordi sul clima abbiano risonanza internazionale, i negoziati tra i diversi Stati circa le regole alla base di questi accordi sono il risultato del compromesso tra priorità e interessi nazionali, da un lato, e responsabilità verso la comunità internazionale dall’altro. Nel rivendicare le ‘responsabilità storiche’ dei Paesi sviluppati, il Regno di Mezzo e gli altri Paesi in via di sviluppo insistono che siano le economie più avanzate a farsi carico di maggiori responsabilità, adottando misure nazionali che determinino una riduzione delle emissioni di gas serra.

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Fig 1. – Il Commissario Europeo per il Commercio, Cecilia Malmstrom, stringe la mano al Ministro del Commercio della Repubblica Popolare Cinese, Zhong Shan, dopo aver firmato un accordo di cooperazione durante l’EU-China Summit di Bruxelles del giugno 2017

CINA-UE E I GAS SERRA – POLITICHE DOMESTICHE

Sia l’Unione Europea che la Cina hanno definito degli obiettivi domestici: nel 2007 l’UE ha dichiarato di voler ridurre le emissioni di gas serra del 20% rispetto ai livelli registrati nel 1990 entro il 2020 (insieme ad un miglioramento dell’efficienza energetica pari al 20%, e all’obiettivo di assicurare che il 20% del fabbisogno energetico europeo provenga da fonti rinnovabili – il cosiddetto 20-20-20 target). Nello stesso anno la Cina ha rilasciato il suo primo Piano Nazionale per il Cambiamento Climatico, in cui riaffermava obiettivi già dichiarati in precedenza, come il miglioramento dell’efficienza energetica pari al 20% entro il 2010, il raddoppiamento dell’uso delle rinnovabili come fonte energetica entro il 2020, l’espansione del nucleare, la chiusura di complessi industriali inefficienti e via dicendo.

Ciò nonostante, la Cina continua ad essere il primo Paese al mondo per il consumo di carbone, e a produrre più di un quarto delle emissioni di gas serra a livello globale, quasi quanto Stati Uniti ed Europa messi insieme. Recentemente, diverse misure sono state adottate per ridurre le emissioni di gas serra a livello domestico: annunciato alla fine del 2017 e figlio di programmi pilota in funzione dal 2013-2014, l’Emission Trading System (ETS) di Pechino coprirà inizialmente solo il settore energetico – fonte di circa metà delle emissioni cinesi – e sarà comunque il più grande ETS al mondo. Inoltre, nell’agosto 2017 il Governo cinese ha dichiarato di voler ridurre del 15% la concentrazione di PM2.5 nelle città del nord. Per questo motivo, nel periodo tra ottobre 2017 e marzo 2018, le fabbriche che lavorano cemento, carbone, acciaio e altri metalli hanno dovuto riorganizzare la produzione in 26 città nelle province di Hebei, Shanxi, Shandong e Henan, insieme alle 2 municipalità di Pechino e Tianjin. Questa cosiddetta politica del ‘26+2’ imponeva anche la sostituzione di impianti di riscaldamento a carbone con quelli a gas, per ridurre il picco di emissioni domestiche causato dalle rigide temperature degli inverni del nord. Tuttavia, la combinazione di basse scorte di gas naturale e gasdotti non del tutto in funzione ha fatto del ‘26+2’ un disastro politico di dimensioni considerevoli, mettendo in luce la mancanza di coordinazione a livello burocratico e diventando motivo di sdegno da parte dell’opinione pubblica. Famiglie, scuole e persino ospedali sono stati lasciati senza riscaldamento durante l’inverno tanto che, a seguito delle proteste, il Governo ha dovuto rilassare il precedente divieto, permettendo di utilizzare carbone in aree in cui gli impianti a gas non erano ancora in funzione.

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Fig. 2 – Il Presidente Trump ha appena annunciato il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi nel Rose Garden della Casa Bianca, 1 giugno 2017

Ma, paradossalmente, il Paese che inquina di più al mondo è anche il Paese che investe di più in energie rinnovabili. All’inizio del 2017 la Cina ha infatti annunciato di voler investire circa 360 miliardi di dollari in energie rinnovabili entro il 2020. Inoltre, il Regno di Mezzo possiede alcune delle principali industrie produttrici di pannelli solari, turbine eoliche e batterie a ioni di litio. Le industrie cinesi rappresentano circa il 60% della produzione mondiale di pannelli solari, e gli investimenti all’estero del Regno di Mezzo nel settore idroelettrico hanno raggiunto altri Paesi asiatici, insieme a progetti in via di sviluppo in America Latina e Africa.

Un report del Global Carbon Project, annunciato durante la COP23 nel novembre 2017 a Bonn, ha riportato che Francia, Gran Bretagna e Germania sono riuscite a ridurre le emissioni di gas serra pur riuscendo a mantenere una crescita economica nell’ultimo decennio. Tuttavia, la velocità di questa riduzione sembra essere diminuita: le emissioni dell’Unione Europea sembrano essere calate solamente dello 0.2%, una percentuale ben lontana dal 2.2% del decennio precedente. Le emissioni provenienti dal settore energetico sono diminuite in maniera più rapida rispetto a quelle di altri settori negli ultimi vent’anni; tuttavia, se l’Unione Europea vuole raggiungere gli obiettivi delineati nell’Accordi di Parigi, diversi studi dimostrano che una eliminazione progressiva dell’uso del carbone entro il 2030 è necessaria. Per ora solamente Austria, Danimarca, Francia, Finlandia, Italia, Portogallo, Svezia, Paesi Bassi e Regno Unito hanno stabilito target che permettono di raggiungere questo obiettivo. Dall’altro lato, la Polonia ha recentemente annunciato la costruzione di una nuova centrale elettrica a carbone.

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Fig.3 – Scorcio della centrale solare galleggiante di Huainan, nella provincia dell’Anhui. Costruita sul lago artificiale di una vecchia miniera di carbone, è la più grande al mondo

CINA-UE E I GAS SERRA – GOVERNANCE GLOBALE

Il Protocollo di Kyoto del 1997 è l’unico trattato al mondo che vincola i Paesi aderenti alla riduzione delle emissioni di gas serra. Nel primo periodo (2008-2012), i Paesi aderenti si sono impegnati a ridurre le emissioni del 5% rispetto ai livelli del 1990. Tuttavia, siccome i maggiori emettitori (Stati Uniti e Cina) non sono firmatari del trattato, il Protocollo copre solamente circa il 18% delle emissioni globali. Nel 2011, a Doha, i Paesi partecipanti alla Conferenza per il Cambiamento Climatico hanno raggiunto un accordo per estendere il Protocollo di Kyoto fino al 2020, ma tale intesa non è stata successivamente implementata per mancanza di adesioni. Il tanto atteso successore del Protocollo nell’agenda ambientale mondiale post-2020 si è materializzato in Francia solo nel 2015. L’Accordo di Parigi è un trattato internazionale, e diventa vincolante al momento della ratifica; i suoi obiettivi ambiziosi, come limitare nei prossimi anni l’aumento della temperatura mondiale a 1.5°C, sono stati già ratificati da 176 Paesi, il che segnala un ampio consenso a livello internazionale. Se l’Unione Europea si è impegnata a ridurre entro il 2030 le sue emissioni di gas serra del 40% rispetto ai livelli registrati nel 1990, la Cina ha invece, per la prima volta, promesso di raggiungere il picco di emissioni entro lo stesso anno. Diversi studiosi concordano sul fatto che l’atteggiamento collaborativo che la Cina ha dimostrato a Parigi sia conseguenza del new normal economico che il Paese sta affrontando. La mancanza di una crescita del PIL a doppia cifra ha fornito al Regno di Mezzo una libertà di manovra più ampia durante i negoziati ambientali internazionali; diminuire l’utilizzo di carbone, promessa che contrastava con il precedente modello di sviluppo economico, è diventato ora un’opportunità che consente a Pechino non solo di ridurre il suo famigerato inquinamento atmosferico, ma anche di diventare leader nel settore delle energie rinnovabili.  Sebbene si stimi che nel 2017 il livello di emissioni di diossido di carbonio sia aumentato di circa il 2%, in gran parte proprio grazie alla Cina e ad altri Paesi in via di sviluppo, il Regno di Mezzo sembra essere sulla buona strada per mantenere le promesse fatte in Francia, forse anche prima dei termini stabiliti. La comunità internazionale ha applaudito l’atteggiamento costruttivo della Cina durante i negoziati a Parigi, e in molti hanno visto le promesse cinesi come indicatrici di una volontà di leadership, tesa a riempire il vuoto lasciato dagli Stati Uniti a fronte del loro ritiro dal trattato nel giugno 2017. Come porzione del consumo energetico totale, il Regno di Mezzo ha diminuito dell’1.6% il consumo di carbone rispetto al 2016, mentre invece l’utilizzo di energie pulite è aumentato del 20.8% rispetto allo stesso anno. Nonostante questi numeri incoraggianti, e il settore delle energie rinnovabili in continua crescita, la Cina continua ad investire in centrali a carbone all’estero. Sotto l’ombrello politico della Nuova Via della Seta, Pechino spera di espandere la sua influenza attraverso investimenti in infrastrutture, includendo anche centrali elettriche, in Paesi come Egitto, Indonesia, Vietnam, Pakistan, Filippine, etc. Se da un lato Pechino si impegna a livello internazionale a portare avanti la lotta ai cambiamenti climatici, dall’altro le imprese pubbliche del Regno di Mezzo si impegnano a promuovere e realizzare progetti potenzialmente inquinanti in altri Paesi. Non è quindi ben chiaro quanto la Cina sia davvero intenzionata a occupare il vuoto lasciato dagli Stati Uniti d’America in campo climatico. Tuttavia, Pechino sarà sicuramente in grado di beneficiare dei vantaggi tanto economici quanto geopolitici che la transizione verso una low carbon economy può dare.

Ludovica Meacci

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

Per sapere qual è lo stato attuale delle emissioni di gas serra a livello mondiale, il World Resource Institute ha creato questa mappa interattiva che consente di esplorare le emissioni storiche e quelle stimate dei singoli paesi, i loro target climatici, anche in rapporto agli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG). [/box]

 

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Ludovica Meacci
Ludovica Meacci

Classe 1992, romana. Dopo varie esperienze all’estero ed una laurea in Mediazione Linguistica e Interculturale presso La Sapienza, volo a Londra per un MSc in Studi sulla Cina Contemporanea alla School of Oriental and African Studies. Tornata nella capitale italiana, inizio a scrivere per il Caffé occupandomi principalmente di Cina. Nel tempo libero leggo, nuoto e (a volte) viaggio.

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