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La leggenda di El Paso

Inizia oggi “È solo un gioco?”, una rubrica che racconta storie di sport. Storie vere, intense, vissute, in cui lo sport si intreccia con le storie e con la storia del mondo, e ne è protagonista. Si parte col Texas, gli anni '60, e una squadra che la storia l'ha cambiata. Quella del basket, certo. Ma non solo

Ma che succede?”

“Gli scarafaggi vogliono venire a scuola con noi…”

“Gli scarafaggi cercano sempre di entrare in casa, ma mamma li schiaccia con la scopa”

“Ma non gli scarafaggi veri, idiota, i negri”.

Queste poche battute, tratte dall’indimenticabile Forrest Gump, sono piuttosto indicative di quello che stava succedendo nel Sud degli Stati Uniti sul finire degli anni '60. Il reverendo King aveva già illustrato a tutti il suo sogno, e le minoranze etniche erano in subbuglio. Mai come allora gli estremismi avevano trovato terreno fertile, soprattutto nel più conservatore degli Stati americani: il Texas.  

Don Haskins sedeva sulla panchina di Texas Western dal 1961. Il Coach e i suoi assistenti sapevano bene che  le università appetibili per i giocatori di alto livello avevano sede altrove, ma Hasking, illuminato anni prima da un “uno-contro-uno” contro un suo compagno di college afroamericano, iniziò a reclutare giocatori di colore. Entro pochi anni sarebbe avvenuto l’impensabile: alla presentazione della squadra – evento pressochè sacro nella tradizione sportiva americana – del 1966, tra lo sconcerto generale, si presentarono in campo sette giocatori di colore.

Ancora più sconcertante, ma per motivi sportivi, fu quello che gli spettatori videro all’inizio del campionato. La pallacanestro di allora era improntata su fondamentali e difesa, un gioco molto lento – mai troppo amato, in questa forma, dal Prof. Naismith – che prevedeva azioni prolungate e molti passaggi allo scopo di liberare il tiro dalla media distanza.  Coach Hasking, con il contributo in campo di David “Big Daddy D” Lattin e Bobby Joe Hill su tutti, rivoluzionò  questa “tradizione” costruendo un gioco basato su ritmi elevati e continue penetrazioni a canestro.

Con il susseguirsi delle vittorie la squadra iniziò ad avere sempre più estimatori, anche i critici interni all’amministrazione universitaria si persuasero e si convinsero che la cosa più importante, in fondo, fosse il risultato. Oltre all’attenzione dei sostenitori però, arrivò allo stesso tempo un altro tipo di attenzione: diversi furono gli episodi di intolleranza, dal rifiuto di ospitare la squadra nelle strutture alberghiere a lanci di oggetti contro il pullman, fino ad arrivare all’aggressione fisica di un giocatore trovatosi solo nella hall di un albergo.

Questi spiacevoli eventi non fecero che motivare ulteriormente la squadra che continuò a marciare a ritmi impressionanti finendo la stagione regolare con un record di 23 vittorie a fronte di 1 sola sconfitta.

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Inevitabile a questo punto fu l’ingresso al torneo NCAA.

Durante il “March Madness”,  nonostante una maggiore difficoltà – più che ovvia dato l’elevato livello delle avversarie – ad imporre il gioco, i Miners trionfando 81-80 in una combattutissima midwest final contro Kansas, ed ebbero accesso alle Final Four.

Dopo aver superato piuttosto agilmente Utah nella semifinale, i Miners si ritrovarono in finale con i Wildcats del leggendario Adolph Rupp – quattro volte campione NCAA, dal 1930 sulla panchina di Kentuky (e ci sarebbe rimasto fino al 1972) – che poteva contare su giocatori della caratura di Louie Dempier e dell’All America Pat Riley.

Nella conferenza stampa pre-partita, Haskins (foto) fu oggetto di ironie e critiche per la scelta di avvalersi principalmente dei giocatori di colore. Qui finisce la storia e inizia la leggenda. Al momento di entrare in campo l’impensabile era sotto gli occhi di tutti: per la prima volta nella storia il quintetto base era composto da 5 giocatori di colore, e per tutta la partita la rotazione si limitò ai soli giocatori afroamericani. Sebbene Hasking abbia sempre dichiarato di aver messo in campo i migliori giocatori a sua disposizione, senza badare al colore della pelle, la scelta è stata da tutti interpretata come una precisa provocazione verso i suoi detrattori.

Per quanto riguarda l’aspetto sportivo, la partita non ebbe storia: al primo possesso Lattin schiacciò a canestro con la forza e la rabbia, come lui stesso disse, di tutte le persone costrette a sedersi in fondo al pullman. I Miners presero il controllo della partita nel primo tempo e non lo lasciarono più, vincendo la gara 72-65 sotto gli occhi di un pubblico esterrefatto, portando per la prima e unica volta il titolo a El Paso.

Intervistato anni dopo la finale del 1966, Pat Riley – che da allenatore si sarebbe tolto qualche soddisfazione inventando lo showtime – disse che in quel momento tutti erano consapevoli di essere parte di un momento storico.

Già dalla stagione successiva la presenza dei giocatori afroamericani aumentò in maniera esponenziale, rendendo meno complicato l’inserimento delle minoranze etniche nei campus universitari. Non da ultimo: la presenza sempre maggiore di questi atleti cambiò radicalmente il modo di giocare a Basket a beneficio dello spettacolo. Il Prof. Naismith ringrazia.

Simone Bellasio redazione@ilcaffegeopolitico.it

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