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Terrorismo o emulazione? Il confine può essere sottile

Miscela Dark È possibile riconoscere un attacco terroristico solo dal tipo di violenza adoperata? Quando il terrorismo è questione di rivendicazioni e definizioni, un atto criminale qualsiasi può far ripartire la riflessione su cosa vuol dire combattere il fenomeno.

EMULAZIONI, MITOMANIA E OPPORTUNITA DI RIFLESSIONE

Il 7 aprile scorso, come ampiamente riportato dalla stampa europea, un uomo di 48 anni con problemi psichici si è scagliato contro i tavoli all’aperto di un ristorante nel vivace centro storico di Munster, nel Nord Reno-Westphalia, uccidendo due persone e ferendone una ventina. Una volta compiuto l’atto, l’uomo si sarebbe suicidato con un colpo di pistola. Il gesto, anche secondo le prime informazioni rilasciate dagli inquirenti tedeschi, non sembra indicare motivazioni ideologiche di stampo jihadista anche se alcune indiscrezioni che puntano ad ambienti di estrema destra non permettono di escludere definitivamente una matrice ideologica. Se l’intenzione terroristica è ancora tutta da confermare, i fatti di Munster, apparentati con altri episodi di insensata furia omicida, permettono di interrogarsi e azzardare qualche riflessione sugli schemi della violenza. In particolare, in questa rubrica che il Caffè Geopolitico dedica alla decodificazione dei fenomeni terroristici, è rilevante chiedersi quanto la ripetizione di determinati modelli e comportamenti violenti e la loro emulazione possano essere un criterio sufficiente per riconoscere “la firma” di determinate ideologie radicali. Tale riflessione è opportuna, ancora una volta, per capire la legittimità e proporzionalità delle contromisure che gli stati colpiti dal terrorismo adottano per garantire la sicurezza. È sicuramente ingenuo pensare di tracciare parallelismi tra i fini delle azioni violente partendo dalla somiglianza dei mezzi usati per condurle. Tuttavia, è ugualmente ingenuo pensare che determinate tattiche di conflitto asimmetrico non si prestino all’emulazione da parte di altri soggetti, siano essi mossi da ragioni politiche, sociali, dalle vocine nella loro testa o da un mix letale di queste variabili.

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Fig. 1 – Il giorno dopo i fatti di Munster

BRANDING: IL CASO DELLA VETTURA-ARIETE

Nel concreto, l’uso di vetture-ariete è stato negli anni scorsi un leitmotif riconoscibile dei lupi solitari dell’ISIS in Europa a partire dalla Promenade des Anglais di Nizza, passando per Berlino, Londra e Stoccolma. Una tattica di conflitto a bassa intensità, questa, che arriva dritta dalle linee guida dello jihad internazionale e che, insieme agli attacchi con armi da fuoco leggere e con il coltello, rappresenta uno schema efficace di massimizzazione dei risultati in termini di paura e di insicurezza al costo irrisorio dei mezzi dispiegati. A titolo d’esempio, il leader di Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI), Abdel Malek Drukdel, intervistato dalla rivista di propaganda jihadista, Inspire, indica nelle azioni dei lupi solitari il più grande vantaggio strategico dell’internazionale jihadista nella lotta contro gli empi e plaude all’azione dei martiri solitari che terrorizzano l’Europa. Proprio in Europa e in occidente in generale -come ormai 17 anni di guerra al terrore dimostrano- l’efficacia di queste azioni è almeno in parte attribuibile a come il panico viene alimentato dalle retoriche degli attori politici e mediatici, in modo variabile secondo la loro autorità, credibilità ed influenza. I casi degli Stati Uniti, del Regno Unito e della Francia, che avevamo precedentemente analizzato, testimoniano come l’insistenza sul sentimento di insicurezza può portare all’adozione di sproporzionate misure di emergenza che minacciano lo Stato di Diritto e le cui derive possono seriamente minare la stabilità democratica dei paesi che intraprendono questa strada. I fatti di Munster però consentono anche di ricordare che, ad onor del vero, la Germania si è distinta in passato per il sangue freddo con cui i decisori politici hanno reagito ad attacchi di comprovata matrice terrorista. Infatti, l’attacco del mercatino di Natale del 2016 a Berlino non ebbe alcun impatto sulle istituzioni federali. Un discorso diverso andrebbe fatto per l’opinione pubblica in generale, l’exploit elettorale delle destre xenofobe, da sempre inclini a sovrapporre la presenza di stranieri alla crescita dell’insicurezza, potrebbe suggerire uno scenario diverso, arginato solo momentaneamente.

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Fig. 3 – La polizia a Munster 

IL TERRORISMO IN PROSPETTIVA

Tuttavia, partendo dal tristemente celebre speronamento dei manifestanti a Charlottesville (USA) nel 2017 per arrivare all’ancora poco chiaro incidente di Munster, sembra affermarsi uno schema di emulazione, una diffusione, un “mainstreaming” delle tattiche che fino a poco tempo fa sembravano il marchio di fabbrica dello jihad. Speculando, una banalizzazione di queste metodologie potrebbe generare un antiterrorismo ancora più muscolare e miope da parte dei governi; o, come sarebbe più probabile oltre che auspicabile, potrebbe generare una riflessione approfondita su come viene applicata l’etichetta del terrorismo agli episodi di violenza. Questa seconda ipotesi per quanto basata su fatti tragici, fornisce una piattaforma per riflettere su come e quanto gli stati siano effettivamente capaci di garantire la sicurezza dei propri cittadini, senza agitare lo spettro del terrorismo.

In conclusione, se un attentato realizzato con una vettura-ariete e rivendicato dall’ISIS può giustificare contromisure straordinarie, si fatica a implementare queste stesse contromisure in risposta allo stesso episodio di violenza quando è compiuto da un militante di una frangia estremista politica o da un disturbato qualsiasi. Alla stessa stregua, il discorso si può riprodurre per qualsiasi atto politicamente motivato che usa i mezzi della delinquenza comune: basti pensare agli assalti all’arma bianca da parte dei lupi solitari del Califfato riportandoli nel contesto della diffusione degli accoltellamenti in città come Londra. La banalizzazione di questa fattispecie di furia omicida non è minimamente una ragione per rallegrarsi, ma sottrae ai gruppi terroristi la loro esclusiva su questa metodologia e al contempo rende evidente la pericolosità e i limiti dell’antiterrorismo emergenziale -o preventivo- con il suo corredo di derive liberticide. È proprio sullo sfondo di questa evidente banalizzazione che è possibile rendersi conto di quanto il mantra del “rischio 0” o della “sicurezza totale” siano irrealistici. Tuttavia, su una nota più positiva è possibile accorgersi di come gli stati siano già equipaggiati per far fronte a questo tipo di violenza. Ancora una volta diviene chiaro come la scelta di usare il termine “terrorismo”, con tutte le sue inquietanti sfumature, sia un atto di natura politica che nulla ha a che vedere con i mezzi utilizzati.

Mario Casonato

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

Nell’impossibilità di eliminare la violenza, sia essa occasionale o ripetuta, casuale o politicamente motivata, il modo di reagirvi aiuta a mettere in prospettiva e giudicare criticamente l’uso politico e strategico che si fa di definizioni [/box]

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