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1200 giorni dopo

Un video di un minuto mostra Gilad Shalit, soldato israeliano nelle mani di Hamas, vivo e in buona salute. Il dilemma di come agire per la sua liberazione sta spaccando l'opinione pubblica dell'intero Paese

IL FATTO – Sono passati più di 1200 giorni dal 25 Giugno 2006, data in cui Gilad Shalit, soldato della divisione corazzata dell’esercito Israeliano, venne rapito da un gruppo di terroristi Palestinesi a seguito di un’imboscata tesa alla pattuglia di cui faceva parte: da quel giorno il ragazzo, allora diciannovenne, è tenuto in ostaggio da Hamas in un luogo indefinito della striscia di Gaza, lontano dalla propria famiglia, dalla propria gente, e in uno stato di prigionia nel quale gli viene anche negata la possibilità di ricevere visite dalla Croce Rossa Internazionale.Da allora poche notizie, tante parole, ma una sola certezza: Gilad è ancora vivo, e prigioniero. Nonostante le proteste, gli appelli da parte della famiglia, le richieste di numerosi uomini politici e diplomatici di tutto il mondo, e l’avvicendamento di due diversi governi in Israele, da tre anni a questa parte la situazione risulta tutt’ora quasi completamente stagnante a causa dell’alto prezzo richiesto da Hamas per la liberazione di Shalit, e del conseguente rifiuto da parte di Israele di pagare tale prezzo: la liberazione incondizionata di oltre mille detenuti Palestinesi, alcuni dei quali condannati all’ergastolo perché colpevoli di omicidio o di atti terroristici.

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PRENDERE O LASCIARE? – Ed è esattamente qui che si trova il nodo del problema: è giusto accettare uno scambio così iniquo, di mille a uno? È giusto graziare persone macchiate di diversi delitti in cambio di un solo soldato? A molti la risposta potrebbe sembrare automatica, ma nella società Israeliana questo terribile interrogativo ha messo alla luce profonde spaccature legate a questioni morali e valori comuni.In un paese come Israele dove ogni giovane, raggiunti i 18 anni, deve lasciare la propria casa per prestare servizio di leva nell’esercito, mettendo così a rischio la propria vita, uno degli elementi fondamentali che permettono a questo meccanismo di funzionare è quel ‘patto’ secondo il quale se il soldato deve essere pronto a tutto per difendere il proprio Stato, anche lo Stato deve essere pronto a tutto per proteggere i propri soldati: e se uno di essi dovesse cadere in mani nemiche, il paese è tenuto a riportare il proprio uomo a casa, vivo o morto. Questo è ciò che affermano a gran voce i sostenitori dello scambio, secondo i quali il Governo Israeliano è moralmente obbligato a far tornare Gilad Shalit a casa a qualsiasi costo.Tuttavia a questa visione se ne oppone una seconda, favorevole al ritorno di Shalit in patria ma contraria alla liberazione dei detenuti, e in particolar modo di quelli macchiati di atti terroristici: accettando questi termini di scambio infatti non solo si firmerebbe la condanna a morte di altre potenziali vittime di attacchi perpetrati dai terroristi tornati in libertà, ma si tradirebbe anche la memoria di coloro che hanno perso la vita per mano di queste persone, lasciando così i colpevoli impuniti. Inoltre se Israele si dimostrasse pronto a pagare qualunque prezzo per il ritorno di Shalit, si creerebbe un pericoloso precedente, in quanto se questa volta si dovesse accettare lo scambio di mille a uno, nel caso in cui si presentasse in futuro una situazione analoga la richiesta potrebbe aumentare e diventare di duemila o tremila detenuti a uno. 

UN FILO SOTTILE – È quindi sul filo di questo straziante dilemma che si infiamma il dibattito politico e sociale sul da farsi: un dibattito che non riguarda più solo il singolo caso del soldato Shalit, ma un sistema di valori che si trova alla base di un’intera società. Si tratta di una situazione in cui entrambe le parti hanno ragione e nessuna delle due ha torto: da una parte c’è Gilad divenuto ormai un simbolo, figlio di un paese che non può e non vuole lasciare indietro i propri ragazzi; dall’altra la possibile impunità di assassini e lo spettro, sempre incombente, di ulteriori spargimenti di sangue. A oltre tre anni dalla sua cattura, il futuro di Gilad Shalit appare quanto mai incerto: il Governo Israeliano è accusato di non provare veramente tutte le strade possibili per portarlo a casa, mentre Hamas è cristallizzato sulle proprie posizioni e non è disposto a cambiare i propri termini di trattativa. Nel frattempo i giorni passano inesorabilmente, e mentre continua il dibattito pubblico, il filo al quale è appeso il destino di questo sventurato ragazzo sembra assottigliarsi sempre di più.

David Braha redazione@ilcaffegeopolitico.it   

Nella foto: Noam e Aviva Shalit, genitori di Gilad, ricevono la solidarietà del sindaco di New York Michael Bloomberg

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