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Tra geopolitica e solidarietĂ : il viaggio di Papa Francesco in Myanmar

In 3 sorsi – Tra il 26 novembre e il 2 dicembre Papa Francesco ha visitato Myanmar e Bangladesh, uno dei viaggi più delicati del suo pontificato. Bergoglio si è ritrovato a scegliere se sostenere apertamente i diritti della minoranza Rohingya perseguitata dal Governo birmano oppure mantenere un atteggiamento moderato per preservare gli interessi della Chiesa in Asia

1. SCEGLIERE DA CHE PARTE STARE

Il viaggio di Francesco in Asia è stato uno dei più complicati del suo pontificato. Tra il 26 novembre e il 2 dicembre il Papa ha visitato Myanmar e Bangladesh, due Paesi confinanti la cui vicinanza si limita però alla sola posizione geografica: a est il Bangladesh, legato storicamente al sub-continente indiano e popolato da musulmani; a ovest il Myanmar, tra le cui pagode buddiste si respira l’aria della penisola indocinese.
Ciò che unisce questi due mondi è la disperata fuga dei perseguitati Rohingya, un fiume di 600mila persone che scappa dalle violenze dell’Esercito birmano per cercare rifugio in Bangladesh. Stanziati nel nord-est del Myanmar, i Rohingya sono un gruppo etnico di religione islamica oggetto di persecuzioni e pregiudizi da parte della popolazione birmana a prevalenza buddista (che li considera “immigrati bengalesi”). Secondo le Nazioni Unite quella che sta subendo questa minoranza è una vera e propria “pulizia etnica”, ma neanche la paladina della democrazia birmana Aung San Suu Kyi ha preso una posizione in loro difesa.
La questione Rohingya è particolarmente delicata per il Governo di Myanmar, che ha ricevuto aspre critiche per le violenze perpetrate ma continua a giustificarsi dietro al tema della lotta al terrorismo islamico, che sembra avere legami con alcuni gruppi militanti Rohingya.
Papa Francesco si è quindi ritrovato a camminare in un campo minato: parteggiare apertamente per la tutela dei Rohingya, rischiando un incidente diplomatico, oppure mantenere i buoni rapporti con il Governo di Naypyidaw e più in generale con il mondo indocinese, intaccando però la sua autorità morale.

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Fig. 1 – Papa Francesco saluta un gruppo di fedeli durante la sua visita in Myanmar, 30 novembre 2017.

2. LA STRADA MODERATA DI BERGOGLIO

Il 26 novembre Francesco è atterrato in Myanmar, dove è rimasto in visita fino al 29 prima di partire per Dacca. Condividendo il palco con Aung San Suu Kyi, il Pontefice si è rivolto alla folla riunita nella capitale sottolineando che “il futuro del Myanmar deve essere la pace, basata sul rispetto della dignità e dei diritti di ciascun membro della società, con rispetto per l’identità di tutti i gruppi etnici”. Francesco ha volutamente evitato di menzionare in modo esplicito i Rohingya, come gli era stato suggerito dal Cardinale birmano Charles Maung Bo, pur invocando indirettamente una soluzione pacifica alla questione.
Se da un lato alcuni criticano il Pontefice per non essere stato abbastanza esplicito, c’è invece chi afferma che non è stato necessario. “Non ce n’era bisogno (di nominare i Rohingya, ndr), è stato detto tutto durante il suo discorso, ma tra le righe” ha detto Kristian Schmidt, ambasciatore dell’UE in Myanmar.
L’unico incontro in cui si è parlato di Rohingya è stato quello tra Bergoglio e il Generale Min Aung Hlaing, il quale ha assicurato che il Governo birmano non sta adottando alcun provvedimento discriminatorio nei confronti della minoranza.

La moderazione di Francesco è stata dettata dalla necessità di proteggere da ritorsioni i cattolici birmani, ma anche dalla volontà di non minare il posizionamento della Chiesa di Roma in Oriente. L’espansione del Vaticano verso est passa dal consolidamento di piccole comunità cristiane come quella birmana, e grazie alla relativa stabilità politica dei Paesi asiatici, il momento potrebbe essere propizio per aumentare la presenza di fedeli nella regione.

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Fig. 2 – Incontro pubblico tra Papa Francesco e Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la pace e attuale Ministro degli Esteri del Governo di Myanmar, 28 novembre 2017 

3. L’INCONTRO CON I ROHINGYA

In Bangladesh la popolazione cristiana è di circa lo 0,25%, contro 150 milioni di fedeli musulmani.
Qui il Papa ha visitato il campo profughi di Cox Bazar, uno dei principali del Paese. Dopo la preghiera, Bergoglio ha fatto salire sul palco alcuni rifugiati Rohingya, dimostrando tutto il suo supporto e abbandonando la precedente cautela. “La presenza di Dio oggi si dice anche Rohingya” ha detto al termine dell’incontro.
Il Pontefice si è poi rivolto alla comunità internazionale, chiedendo “misure efficaci nei confronti di questa grave crisi, non solo lavorando per risolvere le questioni politiche che hanno condotto allo spostamento massivo di persone, ma anche offrendo immediata assistenza materiale al Bangladesh nel suo sforzo di rispondere fattivamente agli urgenti bisogni umani (dei profughi Rohingya)”.
Dopo aver rispettato l’equilibrio di interessi politici e strategici in Myanmar, in Bangladesh Francesco ha chiesto perdono ai Rohingya quasi a voler controbilanciare il silenzio imposto dalla realpolitik a Naypyidaw. Tra qualche tempo sarà più chiaro se il viaggio asiatico del Papa darà i ben sperati frutti di consolidamento nella regione, oppure se la posizione moderata adottata da Francesco non risulterà addirittura controproducente, alimentando il clima di chiusura e xenofobia in cui sta scivolando la repubblica birmana.

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Fig. 3 – Papa Francesco incontra i rifugiati Rohingya durante una conferenza interreligiosa a Dacca, 1 dicembre 2017

Emanuel Garavello

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in piĂą

Secondo le Nazioni Unite, i Rohingya sono una delle minoranze etniche più perseguitate del pianeta. Di religione islamica e linguisticamente legati a India e Bangladesh, essi risiedono nello stato birmano del Rakhine, mentre la loro origine è molto discussa. Il Myanmar ne rifiuta l’appartenenza al suo territorio, tanto che una legge del 1982 impedisce loro persino di acquisire la cittadinanza birmana.[/box]

Foto di copertina di KOREA.NET – Official page of the Republic of Korea Licenza: Attribution-ShareAlike License

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Emanuel Garavello
Emanuel Garavello

Sono nato nel 1989, in provincia di Torino. Mi sono laureato in Giurisprudenza nel giugno 2015 con una tesi di Diritto Internazionale sullo Status legale dei Rifugiati Palestinesi. Lavorando per UNICEF si è accesa la passione per i Diritti Umani e lo Sviluppo Sostenibile, e attraverso esperienze di lavoro e studio all’estero ho imparato ad apprezzare il fascino delle relazioni internazionali.

Quando non disturbo i vicini con la mia chitarra, macino chicchi per (la macchina del) Caffè Geopolitico.

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