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“L’eccezione marocchina” tra spinte democratizzanti e squilibri interni

In 3 sorsi – Il Regno del Marocco appare oggi come il Paese più stabile del contesto del Maghreb ma nasconde in sé molte contraddizioni. L’impegno di Muhammad VI nell’elaborazione delle riforme costituzionali non è bastato a risanare vecchie ferite come nella regione berbera del Rif, dove le proteste continuano a destabilizzare l’equilibrio interno

1. IL SIGNIFICATO DELLE RIFORME COSTITUZIONALI – Nel 2011, mentre le Primavere arabe scuotevano il Nord Africa e il Medio Oriente, il re Muhammad VI lanciava un progetto di riforma costituzionale dettato dalla necessità del mantenimento dello status quo e volto a garantire una gestione più trasparente e “bilanciata” del potere. In tal modo, senza apportare grandi cambiamenti al sistema di governo precedente, l’ondata di proteste (il Movimento del 20 Febbraio) è stata canalizzata in un’azione riformatrice gestita direttamente dalla dinastia regnante e il Re continua, di fatto, a governare senza eccessive limitazioni. Si è trattato di una modernizzazione in senso liberale del sistema esistente, attraverso un approccio top-down, secondo il quale l’opzione migliore rimane l’impegno nell’attuazione delle riforme promosse, piuttosto che il ribaltamento dell’ordine costituito. La ragione di ciò va anche ricercata anche nella discendenza profetica della monarchia alawide che trova la sua legittimità nell’unione del potere spirituale e temporale nella figura del sovrano, il quale è al tempo stesso Amīr al-Mu’minīn (Principe dei Credenti) e Capo di Stato. Questo ha fatto della Monarchia un simbolo di unità e identità nazionale e ha permesso a Muhammad VI di giocare un ruolo chiave nella preservazione del proprio potere, in un momento in cui Egitto e Tunisia vedevano cadere i propri governi. Ma le riforme costituzionali e l’impegno di Muhammad VI verso un’apertura in senso democratico non bastano a nascondere la figura di un “iper-monarca” e di un “autoritarismo limitato”.

Fig. 1 – Beduino in un villaggio vicino al deserto del Sahara (© Altea Pericoli)

2. LA VITTORIA DEL PJD E LA LOTTA AL TERRORISMO – Il 2011 è stato un anno di svolta anche per quanto riguarda le dinamiche partitiche ed elettorali. Le elezioni del 2011 hanno visto, per la prima volta dall’indipendenza, la vittoria di un partito diverso da quello dell’Istiqlāl (Partito dell’Indipendenza). Il Partito di Giustizia e Sviluppo (PJD), partito islamista moderato, ha ottenuto 107 seggi su 395 e la sua vittoria è stata riconfermata dalle elezioni del 2016, con la nomina da parte del Re di Saādeddine Al Othmani come Primo Ministro, succeduto a Abdelilah Benkirane nell’aprile scorso. Si assiste dunque ad un’apertura dello spazio politico, in un contesto definito come “pluripartitismo autoritario”, attraverso meccanismi di inclusione dell’opposizione e di compromessi politici tra il Re e il PJD. La legittimità religiosa della monarchia alawide, insieme a un partito islamista moderato al potere, dovrebbero costituire un freno per la minaccia jihadista o per la radicalizzazione nel Paese. Eppure tra il 2012 e il 2016, circa 1200 marocchini sono partiti come foreign fighter per unirsi a varie formazioni jihadiste come Jabhat al-Nusra (gruppo jihadista ex affiliato di al-Qaeda) e allo Stato Islamico. Le motivazioni di questo fenomeno sono di diversa natura: sicuramente ha influito la mancanza di attenzione al fenomeno jihadista da parte delle autorità fino al 2015, prima della revisione della legge anti-terrorismo promossa dal PJD, che prevede pene da 5 ai 15 anni di carcere e multe fino ai 500.000 Dirham per qualunque marocchino che aderisce o cerca di aderire ad un’organizzazione armata non statale all’interno del Marocco o all’estero. Inoltre vi è un forte legame tra marginalizzazione sociale e reclutamento dei foreign fighter: la maggior parte sono ragazzi al di sotto dei 25 anni provenienti dalle periferie di Casablanca o di Salè o dalla regione del Rif, dove vi è un alto tasso di povertà e disoccupazione.

Fig. 2 – Mausoleo di Muhammad V a Rabat (© Altea Pericoli)

3. LE PROTESTE NEL RIF – Il Rif è la regione più a nord del Marocco che va da Capo Spartel fino al confine con l’Algeria. Prevalentemente montuosa e abitata da popolazione di etnia berbera, è da sempre in uno stato di arretratezza e insofferenza verso il potere del Makhzen (come è chiamato il complesso istituzionale marocchino). Nel 1921 fu fondata la Repubblica del Rif, in opposizione all’occupazione coloniale spagnola e al potere sultaniale, con l’obiettivo di realizzare uno Stato indipendente con un progetto nazionalista berbero. Alla fine del 1958 una rivolta animava nuovamente la regione, in seguito alla mancanza di rappresentanti all’interno del governo marocchino degli interessi berberi. La rivolta fu schiacciata dall’esercito ed episodi di violenza si verificarono anche durante i “moti del pane” nel 1984, quando quattordici riffani persero la vita durante le manifestazioni. L’ultima ondata di proteste è cominciata con la morte del pescatore Mouhcine Fikri a Hoceima nell’ottobre scorso, il quale si era lanciato in un camion dell’immondizia per recuperare la merce sequestratagli dalla polizia. Da questo momento in poi le manifestazioni nella regione non si sono placate, nonostante le forti misure repressive attuate dalla polizia. Leader del movimento popolare (al-Hirak al-Shaabi) è Nasser Zefzafi, arrestato il 29 maggio dalle autorità marocchine con l’accusa di “attentato alla sicurezza interna dello Stato”; secondo le stime del Governo altri quaranta attivisti sarebbero stati incarcerati, mentre l’Associazione marocchina per i Diritti Umani (AMDH) ne ha stimati circa settanta. I manifestanti chiedono riforme economiche e sociali, la fine della marginalizzazione della regione lasciata in uno stato di sottosviluppo e arretratezza, la riduzione della disoccupazione e il riconoscimento dei diritti berberi. Il Governo non ha mai cercato un reale dialogo con la regione e continua a soffocare con la forza le proteste, ignorandone le reali motivazioni e interpretandole esclusivamente come movimenti indipendentisti. Per la creazione di una reale stabilità il Marocco dovrebbe affrontare quindi le questioni irrisolte come quella nella regione del Rif o del Sahara Occidentale. È necessario colmare il forte divario che esiste tra zone rurali e zone urbanizzate, non attraverso un’azione repressiva ma con un impegno nello sviluppo territoriale, dal momento che la marginalizzazione e il sottosviluppo creano non solo agitazione sociale ma favoriscono il proliferare di ideologie estremiste. Questo obiettivo è contenuto nella stessa riforma costituzionale che prevede l’attuazione di una politica di regionalizzazione avanzata per un “Marocco che viaggia a una sola velocità”.

Altea Pericoli

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

I berberi costituiscono circa il 45% della popolazione in Marocco. Il riconoscimento dei loro diritti e della loro identità, al pari di quella araba, si inserisce nel progetto di Muhammad VI di preservare la pluralità all’interno dell’unità nazionale. L’articolo 5 della Costituzione del 2011 riconosce l’amazigh come lingua ufficiale dello Stato marocchino insieme all’arabo, ma si tratta solo di uno sforzo iniziale verso un reale riconoscimento della cultura e dell’identità berbera.[/box]

Foto di copertina © Altea Pericoli

 

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Altea Pericoli

Nata nel 1992, attualmente sono postdoctoral research fellow presso la Lund University (Center for Advanced Middle Eastern Studies). I miei interessi di ricerca riguardano la geopolitica dell’area MENA e la visione islamica dell’aiuto umanitario e allo sviluppo. Dal 2018 collaboro al coordinamento del Desk Medio Oriente e Nord Africa.

Dei viaggi e del caffè (americano) non potrei mai fare a meno!

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