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Trump e i limiti dell’essere “il boss”

In 3 sorsiLa recente vicenda delle informazioni rilasciate da Trump alla Russia nel corso di un meeting alla Casa Bianca, oltre al fatto in sé, coinvolge tre aspetti che sono fondamentali per comprendere la rilevanza della situazione

1. CREDIBILITÀIl portavoce Spicer ha prima dichiarato che la notizia del Washington Post era falsa, poi McMaster ha dato una risposta che, pur formalmente veritiera, di fatto giocava con le parole nel nascondere l’entità della rivelazione. Successivamente il Presidente stesso ha confermato via tweet. Se Trump e la sua amministrazione continuano a contraddirsi a vicenda in continuazione, nessuno crederà più a nulla. Da questo punto di vista, Trump ha appena reso inaffidabile McMaster, che non verrà più considerato dalla stampa fonte credibile, o almeno ogni sua parola verrà analizzata con attenzione per vedere se nasconde significati secondari.

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Fig. 1 – Il Consigliere per la Sicurezza Nazionale McMaster

2. LA CESURA SERVIZI/PRESIDENTE – Oggi i protocolli di classificazione e condivisione dei diversi tipi di informazioni ed analisi avvengono principalmente (ma non solo) attraverso il President Executive Order 13526. Già all’esordio, prima di andare nel merito (ma sarebbe interessante farlo), il documento anticipa: “Our democratic principles require that the American people be informed of the activities of their Government” […] “Nevertheless” “Protecting information critical to our Nation’s security and demonstrating our commitment to open Government through accurate and accountable application of classification standards and routine, secure, and effective declassification are equally important priorities“. Quindi, anche se il Presidente può rivelare informazioni top secret, standard e routine (sulla loro tutela) fanno parte del corretto flusso ed utilizzo di informazioni e Trump lo ha appena rotto. In questi casi, la CIA e l’NSA hanno il diritto – se non il dovere – di provvedere al Presidente rapporti meno dettagliati per evitare di bruciare l’intera catena in breve tempo. Ci vogliono anni per costruire un network integrato per il flusso costante di informazione rilevante e conseguente analisi. Secondi per distruggerlo. Trump è un po’ un elefante nella cristalliera e non è positivo che tale comportamento stia di fatto portando alla creazione di “linee di comando” distinte dove una parte dell’establishment cerca di proteggere il Paese negando informazioni al Presidente (che per il Paese stesso deve poi prendere le decisioni). La mancanza di coesione, sul lungo termine, può essere problematica soprattutto in occasione di crisi internazionali importanti.

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Fig. 2 – L’ingresso del quartier generale della CIA a Langley, Virigina

3. I RAPPORTI CON GLI ALLEATI – È vero che Trump può rivelare informazioni top secret, ma normalmente per rivelare informazioni fornite da alleati serve il permesso di quegli stessi alleati. Questo non è stato fatto. La cosa più grave è infatti che avrebbe condiviso informazioni troppo puntuali, informazioni che permetterebbero ai russi di capire il metodo di estrazione e processing dalla fonte al Presidente, e probabilmente anche la fonte stessa. Quel tipo di fonti sono le più preziose, perché forniscono un flusso continuo di informazioni, non solo su ISIS, ma anche sulla presenza russa e sulle operazioni di Assad. Inoltre possono ora tali informazioni finire ai Siriani? Agli iraniani?
Aggiungiamo che Israele ora si fiderà molto meno, o comunque vorrà essere risarcito materialmente o in natura per la débâcle e con gli interessi. Tutto questo a prescindere dal fatto che Trump potesse o non potesse. Insomma, come al solito la confusione regna. Il primo pensiero dell’Amministrazione americana è stato prendere tempo anche a costo di bruciare la credibilità di McMaster. Per cosa? Per accertarsi che, secondo le leggi dello Stato, Trump non fosse un criminale accusabile di alto tradimento. Certo la giurisprudenza della Corte Suprema in materia lo aiuta, ma più di tutti lo ha aiutato un tale Tom Bossert, assistente del Presidente per la Homeland Security, che ha subito chiamato i direttori di CIA ed NSA mettendoli al corrente, garantendo pertanto che la macchina statale fosse in moto e tranquillizzando il Congresso sul pronto intervento per arginare la loquacità arancione.
Quindi si apre il secondo capitolo, ovvero l’impatto di ciò che ha fatto, che invece non c’entra con la sua fedina penale, ma che ha grande rilevanza politica. Trump ha giurato di “faithfully execute the Office of President of the United States”, ma anche “preserve, protect and defend the Constitution of the United States”. Quindi, se non riesce a dimostrare che le informazioni che ha dato miravano ad ottenere un bene superiore per gli USA del danno arrecato, il suo giuramento è stato tradito e il Congresso sarà spietato sul punto. Per fare un esempio, se il Presidente rivelasse i codici degli ICBM con un tweet non sarebbe legalmente perseguibile, ne ha facoltà, ma capite tutti che andrebbe interdetto. Attenzione, sul punto sono caduti ben tre Presidenti statunitensi (Andrew Johnson, Richard Nixon, Bill Clinton).

Marco Giulio Barone

Hanno collaborato alla stesura dell’articolo Lorenzo Nannetti ed Emiliano Battisti

[box type=”shadow” align=”” class=”” width=””]Un chicco in più

Al momento, l‘impeachment per Trump non è impossibile, ma poco probabile. L’eventuale procedura sarebbe la seguente: la Camera ha l’iniziativa della messa in stato d’accusa che va discussa in Commissione Giustizia. Se questa l’approva, si passa all’Assemblea che deve discuterla e approvarla a maggioranza semplice. Dopodiché si passa al Senato, dove la delegazione della Camera funge da “accusa” e il Senato da Giudice. Dopo il dibattimento (dove il Presidente può difendersi), l’impeachment va approvato con una maggioranza di 67/100, ossia i 2/3 del Senato[/box]

Foto di copertina di Michael Vadon Licenza: Attribution-ShareAlike License

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Marco Giulio Baronehttps://ilcaffegeopolitico.net

Marco Giulio Barone è analista politico-militare. Dopo la laurea in Scienze Internazionali conseguita all’Università di Torino, completa la formazione negli Stati Uniti presso l’Hudson Institute’s Centre for Political-Military analysis. A vario titolo, ha esperienze di studio e lavoro anche in Gran Bretagna, Belgio, Norvegia e Israele. Lavora attualmente come analista per conto di aziende estere e contribuisce alle riviste specializzate del gruppo editoriale tedesco Monch Publishing. Collabora con Il Caffè Geopolitico dal 2013, principalmente in qualità di analista e coordinatore editoriale.

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