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Le Filippine sotto Duterte (II): la politica estera

La “separazione” dagli Stati Uniti annunciata dal Presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, durante la sua recente visita di Stato in Cina sembrerebbe segnare ufficialmente il riavvicinamento di Manila a Pechino e la rottura della “relazione speciale” con Washington. In realtà, ci si trova di fronte ad una generale riconfigurazione della politica estera filippina, sempre meno dipendente dalle strategie statunitensi in Asia e ora proiettata verso una rinnovata cooperazione regionale

RICALIBRARE LA POLITICA ESTERA  Quando Rodrigo Duterte ha dichiarato di voler rompere l’alleanza con gli Stati Uniti e “passare dall’altro lato della barriera ideologica”, in molti si sono chiesti cosa si celasse dietro al significato effettivo di tale annuncio. Cosa intendeva davvero il Presidente delle Filippine per “rottura” e, prendendo alla lettera la sua dichiarazione, in che termini è possibile definire il supposto allontanamento di Manila da Washington, ovvero da un legame storico, economico e strategico che dura ormai da settant’anni? La risposta è più intricata di quanto si possa pensare. Nella Grande Sala del Popolo del Palazzo di Tiananmen a Pechino, “Digong” Duterte ha annunciato in presenza del Presidente cinese Xi Jinping la volontà di “separarsi” (sic) dal vecchio alleato. “Gli Stati Uniti hanno perso dal punto di vista sia economico che militare”, prova ne sarebbe il graduale assottigliamento dell’influenza di Washington nella regione. Tralasciando la retorica da Guerra Fredda di un personaggio politico che ci ha sin da subito abituato ad un linguaggio sopra le righe, nelle parole di Duterte si percepisce un chiaro malcontento per le strategie statunitensi nell’area dell’Asia-Pacifico, a cui il Paese del Sud-est asiatico si è dovuto per decenni adeguare al fine di assolvere ai propri compiti derivanti dagli accordi di difesa sottoscritti a livello bilaterale. Alcuni commentatori ritengono che le Filippine si stiano preparando ad un cambiamento (shift) radicale delle proprie priorità di politica estera, altri invece obiettano a tale tesi definendo questa fase delicata come una generale riconfigurazione (reshape) delle relazioni con i principali attori della politica regionale ed internazionale, questione che tocca senza eccezioni tutti i Paesi del Sud-est asiatico. Tra coloro che portano avanti quest’ultima tesi vi è Chito Santa Romana, giornalista filippino e fresco di nomina a nuovo ambasciatore delle Filippine nella Repubblica Popolare Cinese. L’ex corrispondente a Pechino dell’ABC News ha sostenuto che quella di Duterte si configura come una mossa ben congegnata grazie alla quale, da un lato, ricucire i rapporti diplomatici e, dall’altro, incrementare le relazioni commerciali con il vicino prossimo, senza tuttavia rompere definitivamente l’alleanza con gli Stati Uniti. In un certo senso, si intende uscire da una logica di contrapposizione per far posto ad una rinnovata attenzione per la cooperazione regionale e rendere così la politica estera filippina meno dipendente dai rischi connessi alle decisioni di Washington nell’area, ponendo unicamente al centro delle strategie di Manila l’interesse nazionale. Nel caso concreto, si tenta di dirimere la disputa territoriale dell’atollo di Scarborough, nel Mar Cinese Meridionale, in maniera pacifica e di non tirare più in ballo alcun attore o istituzione extra-regionale che possa rischiare di mettere a repentaglio i rapporti di buon vicinato con il più importante player dell’Asia. La hedging strategy concepita dall’amministrazione Duterte si pone in netto contrasto con la politica di scontro frontale messa in pratica dalla precedente presidenza di Benigno Aquino III, a dimostrazione della mancanza di coerenza nella politica estera della Repubblica insulare asiatica, che deve a volte fare i conti con le intemperanze delle diverse personalità politiche che via via si alternano al potere. Ma, in generale, qual è l’opinione comune riguardo ai recenti sviluppi strategici fin qui delineatisi in Asia orientale? Secondo un sondaggio del 2015 condotto dal Pew Research Center, più della metà dei filippini si dichiarava molto preoccupato dalle frequenti azioni di disturbo della Marina cinese nel Mar Cinese Meridionale (o Mar delle Filippine Occidentale, secondo le carte geografiche filippine). Inoltre, il 90% degli intervistati vedeva di buon occhio la partnership strategica con gli Stati Uniti e riteneva molto positivo il Pivot to Asia di obamiana memoria. Nonostante i riguardi amichevoli mostrati nei confronti dei leader cinesi durante la visita ufficiale, l’amministrazione Duterte ha presentato al Kongreso la legge di bilancio che prevede l’aumento delle voci di spesa del comparto della difesa pari al 25% all’anno per il prossimo quinquennio, in sostanziale tendenza con il programma di modernizzazione delle Forze Armate Filippine (FAF) lanciato nel 2012 proprio da Aquino III. Se è vero che una parte dei finanziamenti sarà indirizzata alla campagna di lotta al narcotraffico, un’altra parte sarà utilizzata per dare avvio ad un massiccio programma di acquisto di armamenti ad alto contenuto tecnologico, che andrà a superare abbondantemente la spesa di 550 milioni di dollari fatta registrare nell’anno fiscale ancora in corso.

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Fig. 1 – Il Presidente delle Filippine Rodrigo Duterte parla ai giornalisti in occasione della sua recente visita in Giappone, ottobre 2016

LA SPECIAL RELATIONSHIP DEL PACIFICO  Ad ogni dichiarazione al vetriolo rilasciata dal Presidente Duterte segue solitamente la rettifica di un membro del Governo che getta un secchio d’acqua sull’incendio ormai divampato. L’ultima, in ordine di tempo, proviene dal Segretario di Stato Perfecto Yasay che, con riferimento all’acceso discorso sulla “separazione”, ha inteso chiarire che l’alleanza tra Filippine e Stati Uniti non è in discussione. Eppure è notizia di questi giorni l’intenzione di Duterte di interrompere sia le Freedom of Navigation Operations condotte dagli americani nel Mar Cinese Meridionale, sia le esercitazioni militari congiunte (Balikatan) che si tengono ogni anno in territorio filippino e che quest’anno hanno visto impegnati 5.000 U.S. Marines, 3.500 soldati delle FAF ed un piccolo contingente composto da 80 militari australiani. L’assistenza statunitense alla sicurezza dell’arcipelago è regolata da una serie di accordi di difesa, primo fra tutti il Mutual Defence Treaty del 1951. Dopo la chiusura della Clark Air Base e di altre installazioni militari americane nei primi anni Novanta del secolo scorso, entrambi i governi hanno sottoscritto nel 1998 l’Agreement Regarding the Treatment of United States Armed Forces Visiting the Philippines – che di fatto ha segnato il ritorno dei contingenti militari nell’arcipelago – e il più recente Enhanced Defence Co-operation Agreement (EDCA), nel 2014. Valido dodici anni, l’EDCA segna la collaborazione congiunta delle forze armate filippine e statunitensi in tre specifici settori di intervento: sicurezza marittima, assistenza umanitaria e prevenzione dei rischi derivanti dai disastri naturali. Le operazioni ed esercitazioni previste dall’accordo hanno luogo nelle cinque c.d. Agreed Locations, ossia basi militari concesse temporaneamente alle forze armate e/o defence contractors statunitensi su autorizzazione di Manila, allo scopo di eseguire tutti i compiti previsti dall’EDCA. Il Governo filippino può in qualsiasi momento decidere di interrompere le operazioni congiunte o combinate e, nel caso estremo, predisporre il ritiro delle unità presenti nelle Agreed Locations, prendendo possesso delle installazioni e dell’equipaggiamento ivi impiegato (non è previsto il dispiegamento di testate nucleari). Se è vero che in termini puramente economici l’apporto statunitense alla sicurezza delle Filippine ha conosciuto una tendenziale diminuzione dal 2010 al 2015, Washington ritiene un obiettivo vitale la modernizzazione delle FAF. Inoltre, la “relazione speciale” che lega dal 1898 l’Uncle Sam ed il suo Little Brown Brother è talmente radicata da risultare quantomeno improbabile una rottura definitiva, almeno nel breve periodo. Gli Stati Uniti sono il terzo partner commerciale del grande arcipelago asiatico, con un valore di scambi che l’anno scorso ha superato i 16 miliardi di dollari. Il sistema militare delle Filippine – il più debole e mal organizzato di tutta l’Asia – dipende in larga misura dai finanziamenti e dal sostegno logistico statunitensi. Forze speciali americane operano dal 2002 nell’isola di Mindanao per arrestare l’avanzata del movimento fondamentalista islamico Abu Sayyaf. Un’esercitazione di assistenza umanitaria e di prevenzione dei rischi di disastri naturali (denominata PHIBLEX) si è tenuta recentemente nella Baia di Subic. Infine, è risultato finora determinante il contributo dell’Agenzia USA per lo sviluppo internazionale nelle zone colpite nel 2013 dal terribile tifone Haiyan. Si calcola che le sei aree più povere delle Filippine abbiano ricevuto aiuti pari a 90 milioni di dollari. Di per sé, soltanto questi elementi parrebbero confermare le dichiarazioni del Segretario USA alla Difesa, Ashton Carter, che ha definito “solida” l’alleanza tra i due paesi. Ciononostante, l’apparente ottimismo del capo del Pentagono ha mancato di fare i conti con le recenti proteste di alcuni movimenti indigeni e organizzazioni filo-comuniste – quale il Fronte democratico nazionale – che hanno manifestato a gran voce il loro dissenso nei confronti della presenza di truppe americane in territorio filippino, denunciando una palese violazione della sovranità nazionale. Il Presidente Duterte intende proprio approfittare del malcontento diffuso in alcuni strati della società per allontanarsi dalle mire di Washington e, nel frattempo, aprire ad una certa collaborazione con Cina e Russia. Dietro a tale dietro front c’è probabilmente la volontà di Duterte di ottenere vantaggi tangibili – in termini sia economici che diplomatici – dalla ridefinizione del sistema di alleanze che vedrà le Filippine coinvolgere tutti i principali attori dell’area. Tuttavia, affrancarsi dallo storico alleato non genererebbe alcun tipo di vantaggio: ne è convinto l’ex Presidente delle Filippine, Fidel V. Ramos, che ha messo in guardia “Digong” dagli effetti negativi che il Paese potrebbe presto affrontare nel caso in cui la special relationship del Pacifico dovesse effettivamente disintegrarsi. Tra i malcelati detrattori della politica estera dell’ex sindaco di Davao City si annoverano anche diversi esponenti dei vertici militari e alcuni diplomatici di lungo corso. Timori che la situazione possa degenerare provengono da quei comuni cittadini che hanno almeno un parente negli Stati Uniti, dove è presente la più folta comunità di filippini all’estero nel mondo (circa due milioni). Il Paese non ha aderito all’accordo di libero scambio Trans-Pacifico (TPP), preferendo partecipare alle negoziazioni della Regional Comprehensive Economic Partnership a guida cinese. Ed è proprio la Cina la pedina su cui Duterte ha per prima puntato allo scopo di mettere alle strette gli Stati Uniti.

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Fig. 2 – Cerimonia di apertura dell’esercitazione militare (Balikatan) che si tiene annualmente nel Pacifico tra le Forze armate di Stati Uniti e Filippine, Manila, aprile 2016

UNA NUOVA “PRIMAVERA” CON PECHINO – Nel corso della sua visita a Pechino del 18-21 ottobre, il Presidente Duterte si è intrattenuto in una serie di colloqui con il Presidente Xi Jinping e tre dei sette membri permanenti dell’Ufficio politico del Comitato Centrale, l’organo più importante del sistema di governo cinese. Nel corso delle conversazioni, il Presidente filippino ha tenuto a precisare che le problematiche di politica interna attualmente più critiche – lotta alla droga e al fondamentalismo di matrice islamica – hanno la priorità sulla questione delle isole contese del Mar Cinese Meridionale. Le relazioni diplomatiche tra i due Paesi asiatici non sono mai state storicamente troppo buone, ma con l’elezione di un nuovo Capo di Stato a Palazzo Malacañan pare che esse stiano entrando in una nuova fase. L’ultima visita ufficiale nella Repubblica Popolare risale a cinque anni fa, in un periodo precedente all’inasprimento delle dispute territoriali nelle isole contese, che portarono il Presidente Aquino III a tacciare di “nazismo” la condotta aggressiva cinese nei mari del sud. In sostanziale rottura con l’amministrazione uscente, Duterte ha scelto la Cina come prima destinazione estera al di fuori dei Paesi ASEAN, sebbene penda dal luglio scorso il lodo della Corte Permanente di Arbitrato che ha dato ragione al Governo di Manila. La sentenza emessa dai giudici dell’Aja, che ha dichiarato priva di una base giuridica legale la “linea dei nove punti” dichiarata unilateralmente da Pechino, non è stata riconosciuta dalla Cina e Duterte non ha manifestato finora l’intenzione di dirimere la controversia dell’atollo di Scarborough a partire da tale pronuncia. Alla fine, ci si è accordati per la ricerca di una soluzione “appropriata” dell’intricata questione, limitandosi per il momento ad organizzare un pattugliamento congiunto al largo delle coste degli isolotti interessati. L’agenzia di stampa Xinhua ha salutato la visita di Duterte nel Paese di Mezzo come “test della verità per valutare la sincerità e la saggezza politica” del nuovo Presidente. Nel corso del vertice, nessun riferimento diretto al lodo arbitrale è stato fatto, concentrando piuttosto l’attenzione sui 13 accordi firmati a livello bilaterale nei settori del commercio (Pechino, tra le altre cose, si è impegnata a togliere l’embargo all’importazione dei frutti tropicali filippini), infrastrutture (avvio dei lavori per l’allargamento del porto internazionale di Cebu) e turismo (il 2017 sarà l’anno del turismo Cina-ASEAN). La cifra ammonta a 35 miliardi di dollari e questi accordi andranno a rimpolpare la non proprio florida relazione commerciale tra i due Paesi, soprattutto se raffrontata alla percentuale di scambi che la stessa Cina intrattiene con gli altri Paesi del Sud-est asiatico. Le Filippine rientrano nel maestoso progetto di ammodernamento infrastrutturale chiamato Belt and Road Initiative, su cui Pechino ha investito dal 2013 per collegare la Cina continentale agli arcipelaghi ed isole dell’Asia sud-orientale e contribuire così alla crescita economica dell’intera area. I finanziamenti saranno erogati dall’Asian Infrastructure and Investment Bank, a cui Manila ha aderito ma il cui accordo deve essere ancora ratificato dal Kongreso. In aggiunta agli accordi commerciali e alle promesse di investimento, Duterte ha raccolto il sostegno della Cina relativamente alla campagna di contrasto del narcotraffico, alla quale Pechino contribuirà con la costruzione di un centro di recupero per tossicodipendenti nella provincia filippina settentrionale di Nueva Ecija. 

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Fig. 3 – Stretta di mano tra Duterte e Xi Jinping durante la visita ufficiale del Presidente filippino a Pechino, ottobre 2016

NON SOLO LA CINA  È ormai chiaro che la politica estera delle Filippine guarda con estremo interesse sempre più alle questioni regionali, in quello che molti commentatori non hanno esitato a definire il Pivot to China. Ma in che modo Giappone ed i Paesi ASEAN, attori in gioco altrettanto importanti, hanno reagito di fronte all’intesa siglata tra le Filippine e la Cina? Per quanto concerne le relazioni con Tokyo, il più fedele alleato degli Stati Uniti nell’area, Duterte ha inteso rassicurare il Premier Shinzo Abe circa le sue reali intenzioni con la Repubblica popolare: non una partnership militare in funzione anti-giapponese, bensì l’avvio di una nuova forma di cooperazione più costruttiva per affrontare con maggiore sinergia le sfide che si prospettano nell’immediato futuro. Con la sua visita di Stato in Giappone del 25-27 ottobre, Duterte ha sopito i malumori che circolavano nelle settimane precedenti all’interno dell’establishment nipponico, esplicitando di non voler stracciare l’accordo di difesa firmato da Tokyo e Manila nel marzo di quest’anno, che prevede il trasferimento di equipaggiamento, mezzi e tecnologia militare giapponesi alle FAF. Si tratta del primo patto di questo tipo siglato dal Paese del Sol Levante con un Governo asiatico. Vista con favore dagli Stati Uniti, la collaborazione nippo-filippina in ambito militare ha avuto inizio con la donazione da parte del Governo di Tokyo di 10 navi da ricognizione, ora dispiegate dalla Guardia costiera filippina nel Mar Cinese Meridionale. Nella conferenza stampa congiunta, i leader dei due Paesi-arcipelago hanno convenuto sulla necessità di pattugliare le coste delle isole contese nel Mar Cinese Meridionale “nell’esclusivo interesse dell’intera comunità regionale”. Successivamente, nel corso della visita sono stati chiusi nuovi accordi economici per un totale di 1,5 miliardi di dollari che, secondo il Segretario filippino al Commercio Ramon Lopez, dovrebbero generare almeno 200mila nuovi posti di lavoro in patria. Il Giappone è il principale partner commerciale di Manila, nonché Paese d’origine della gran parte dei flussi di investimento diretti verso le Filippine. Quanto all’area ASEAN, nel 2017 le Filippine avranno la presidenza di turno dell’Associazione, proprio in concomitanza con l’anniversario dei 50 anni dalla sua fondazione. Le relazioni di Manila con i Paesi del Sud-est asiatico sono migliorate nel corso degli anni e si avviano ora verso una piena stabilizzazione. Vietnam e Indonesia hanno annunciato pubblicamente il loro sostegno alla campagna anti-droga del Presidente Duterte e si pensa, anzi, che essa possa fungere da modello per l’intera regione. La cooperazione in ambito commerciale avanza a ritmi sostenuti e numerosi sono i progetti messi in campo per migliorare la rete transnazionale di infrastrutture, allo stato attuale insoddisfacente. In occasione dell’ultimo Summit ASEAN di Vientiane, il Presidente Duterte ha esortato l’Associazione a sostenere la Mindanao Development Authority con cospicui finanziamenti volti a realizzare piani di sviluppo infrastrutturale ed energetico. Non solo: è stata potenziata l’organizzazione sub-regionale che riunisce alcune province e/o regioni di Filippine, Brunei, Indonesia e Malesia – l’East ASEAN Growth Area Initiative – con l’obiettivo di favorire la crescita e accelerare lo sviluppo delle zone più remote dei rispettivi Paesi. In definitiva, il nuovo Governo delle Filippine sembra orientato ad abbandonare l’alleato di sempre e costruire nuovi legami con i Paesi della regione. Ma fino a che punto il Presidente Duterte sarà davvero disposto a sacrificare la special relationship e gettarsi completamente tra le braccia di Pechino?

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Fig. 4 – Rodrigo Duterte discute con il Presidente dell’Indonesia, Joko Widodo, prima dell’avvio dei lavori del Summit ASEAN di Vientiane, settembre 2016

Raimondo Neironi

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

La comunità cinese delle Filippine (Tsinoy), presente nel Paese da oltre un secolo, è composta da circa 2 milioni di persone, il 2,5% della popolazione totale. Non diversamente da altre aree del Sud-est asiatico, le comunità di “cinesi d’oltremare” mostrano una spiccata propensione per l’attività imprenditoriale e – come spesso accade – detengono le redini dell’economia. Nella lista stilata da Forbes nel 2015, nove dei dieci uomini più ricchi del Paese vantano una discendenza cinese [/box]

Foto di copertina di Davao Today Rilasciata su Flickr con licenza Attribution-NoDerivs License

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Raimondo Neironi
Raimondo Neironi

Dottorato di ricerca in Storia internazionale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Per il “Caffè”, mi occupo di tre temi: politica, economia e ambiente; e due aree del mondo: Sud-est asiatico e Australia.

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