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Se il vento dell’Islam militante soffia anche sull’Asia Centrale

Cina, Afghanistan, Tagikistan e Pakistan hanno da poco instaurato un’alleanza quadrilaterale per prevenire e contrastare l’espansione del terrorismo islamico in Asia Centrale, un’area geopolitica particolarmente sensibile alle infiltrazioni dei Talebani e adesso anche nel mirino dell’ISIS. Ma quali variabili intervengono nel processo di radicalizzazione? E quali strategie risultano complementari all’impegno militare?

TIMORI PARALLELI – Sul finire del 1991, l’Unione Sovietica si polverizzava sotto il peso di una crisi politico-economica ormai irreversibile. Eppure, in una sorta di continuum storico, i leader autocratici delle cinque Repubbliche ex sovietiche di fede musulmana si presentavano quali nuovi custodi della laicità statale e avviavano una battaglia feroce contro il fondamentalismo religioso, un male antico associato – a torto o a ragione – alla graduale riscoperta delle radici islamiche dell’Asia Centrale.
Dopo quasi un quarto di secolo, le entità statali sorte dalle ceneri del gigante sovietico non possono considerarsi più come un unicum inscindibile, anche se il ricorso diffuso al secolarismo dal pugno duro e la permanenza di problematiche regionali interconnesse con radicalizzazione e terrorismo islamico impediscono di sciogliere con decisione il destino di Kazakistan, Kirghizistan, Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan. Ma in particolare questi ultimi tre Stans condividono una soglia di vulnerabilità piuttosto elevata, a causa di quella frontiera comune con il vicino meridionale: l’Afghanistan.
D’altra parte, anche la recente nomina del Ministro della Guerra dello Stato Islamico (ISIS) nella persona di Gulmurod Khalimov è un dato sintomatico del clima di insicurezza percepito nella regione. Noto come il Tagiko, il Colonnello Khalimov – prima della defezione, Comandante delle Forze Speciali del Tagikistan – scala oggi la gerarchia burocratica di Daesh, dopo essere stato persino addestrato contro il terrorismo negli Stati Uniti. In ogni caso, pur senza minimizzare la pericolosità di simpatizzanti dell’ISIS tra i cittadini delle Repubbliche centro-asiatiche, si ritiene che le minacce più concrete alla sicurezza regionale discendano dal rischio di infiltrazioni jihadiste dall’estero.
In altre parole, ciò che viene sempre più alla ribalta è il coinvolgimento degli uomini del Califfo nell’arena centro-asiatica a partire dalle province nord-orientali dell’Afghanistan, dove i sostenitori di Daesh – che si aggirano tra le 3.000 e le 12.000 unità – sono entrati in contatto con gruppi Talebani.

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Fig. 1 – Forze di sicurezza afghane pattugliano una prigione dopo la riconquista della provincia di Kunduz, ottobre 2015

UNA PRESENZA INQUIETANTE E VARIEGATA – In via generale, si può sostenere che l’obiettivo principale dei Talebani sia orientato alla conquista del potere in Afghanistan, mentre lo Stato Islamico persegue una strategia di espansione tesa al consolidamento dell’Emirato del Khorasan – dal nome di un’antica periferia dell’Impero Persiano – ossia una provincia che si estenderebbe fino al Pakistan, passando attraverso Turkmenistan, Tagikistan e Uzbekistan.
Già all’inizio del 2015, un messaggio audio registrato da Abu Muhammad al Adnani (ucciso ad Aleppo circa un mese fa) annunciava il rafforzamento dello Stato Islamico nel Khorasan, grazie alla presenza di nuove reclute sfuggite alle fila dei Talebani pakistani (TTP). Da quel momento, la provincia afghana di Nangarhar è stata interessata da una violenta guerriglia tra le milizie Talebane già presenti sul territorio e Daesh, che avrebbe poi occupato per mesi diversi distretti della regione.
È chiaro che il perseguimento di nuove mire espansionistiche, congiuntamente all’indebolimento delle roccaforti mediorientali, è in grado di giustificare un’eventuale proiezione dello Stato Islamico anche sullo scenario centro-asiatico. Ma nel dubbio sulla reale consistenza della minaccia, è opportuno soffermarsi su alcune osservazioni preliminari.
Anzitutto, l’incontrastata permanenza degli uomini del Califfo in suolo afghano resterebbe subordinata ad un’alleanza duratura con i vertici del movimento talebano – condizione al momento irrealistica, stante la complessità delle relazioni che intercorrono tra le due organizzazioni.
Inoltre, pur rappresentando l’Afghanistan una valida porta di ingresso verso gli Stati dello spazio post-sovietico, difetterebbero comunque altre premesse indispensabili per un immediato intervento dell’ISIS. È noto infatti che il recupero del retaggio islamico in Asia Centrale sia stato in taluni casi assorbito da un Islam radicale, ma non sembra che simili manifestazioni siano in linea di massima compatibili con le basi ideologiche del Califfato. Tanto più che anche le autorità religiose più conservatrici hanno bollato la dottrina dello Stato Islamico come un fenomeno tipicamente mediorientale, dunque estraneo alle tradizioni dei popoli che abitano la regione. A quanto detto si aggiunge poi un’ulteriore riflessione circa le capacità militari di Daesh, le cui risorse – avvisano gli esperti – non possono eguagliare le dotazioni di cui dispongono gli Stati dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO).
Tuttavia, ragionando in termini di prospettiva, il rischio dell’espansione del Califfato nel cuore dell’Asia resta un’eventualità non scartabile a priori, così come un’altra incognita riserva l’evoluzione dei rapporti tra guerriglieri ISIS e Talebani. Conscio della gravità di simili minacce, l’ex Presidente afghano Karzai auspicava fin dallo scorso aprile una più stretta cooperazione inter-statale tra i Paesi limitrofi, come anche un più intenso coinvolgimento dell’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (SCO), organismo intergovernativo guidato dalla Cina.

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Fig. 2 – Un tappeto afghano che raffigura i confini nazionali, le province del Paese e le bandiere delle nazioni che intrattengono rapporti diplomatici con Kabul

LA STRATEGIA MULTIFORME DELLA CINA – Nonostante l’abituale reticenza della Repubblica Popolare ad assumere un ruolo di spicco sul versante della politica di sicurezza, l’opportunità di instaurare un’alleanza regionale tra Cina, Pakistan, Afghanistan e Tagikistan in chiave antiterrorismo era stata prospettata fin dal mese di marzo dal Generale Fang Fenghui, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA).
Da un primo punto di vista, la dichiarazione amplificava l’idea originaria del Premier Li Keqiang di trasformare l’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione in una guardiana dell’Eurasia, in modo tale da salvaguardare gli investimenti commerciali e gli intenti politici di Pechino nel quadro della Cintura Economica della Via della Seta. In secondo luogo, è palese che la mobilitazione cinese nel contesto centro-asiatico tenda oggi verso nuovi spazi di manovra orientati in funzione sensibilmente difensiva.
Di conseguenza, è stato ipotizzato da più parti che la partita che la Cina si appresta a condurre sul terreno della sicurezza potrebbe alterare l’equilibrio sino-russo in Asia Centrale a discapito di Mosca, fedele sentinella della stabilità dell’Eurasia. In effetti, non può escludersi che specialmente gli accordi bilaterali sottoscritti con alcuni degli Stans dell’orbita post-sovietica possano attivare nel tempo un campanello d’allarme per la Russia. È pur vero però che il coinvolgimento cinese deve essere letto alla luce di considerazioni ulteriori: infatti, il recente tracollo del rublo e i contraccolpi della crisi economica mondiale, unitamente alle scelte di politica estera in Medio Oriente, hanno indotto il Cremlino al parziale ridimensionamento della propria presenza militare in Asia Centrale. In questa cornice, si può comprendere come Pechino abbia inteso prima di tutto tamponare il vuoto di sicurezza lasciato dalla Russia tra i Paesi più vulnerabili ad attacchi di matrice talebana ed alle minacce dello Stato Islamico.
Come noto, decenni di rapida ascesa economica ed un sapiente impiego della diplomazia culturale hanno permesso al Presidente Xi Jinping di gettare le fondamenta della moderna Via della Seta, i cui germogli fioriscono lungo l’Eurasia per poi raggiungere i confini occidentali del Vecchio Continente. In ogni caso, il solo soft power non si è rivelato un’arma vincente per tutelare gli interessi regionali della Repubblica Popolare: l’autobomba esplosa il 30 agosto scorso davanti all’ambasciata cinese di Bishkek, in Kirghizistan, è stata solo una dimostrazione del rischio cui sono esposti i flussi di investimenti e le aspirazioni politiche della Cina.

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Fig. 3 – Il Presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo cinese Xi Jinping al vertice SCO di Ufa del luglio 2015. Dietro di loro, il Premier indiano Narendra Modi, altro importante protagonista della politica centro-asiatica

AZIONE MILITARE SÌ, MA NON SOLOIl 4 agosto, i leader militari di Cina, Afghanistan, Pakistan e Tagikistan hanno annunciato la creazione di un Meccanismo di Cooperazione e Coordinamento quadrilaterale: una coalizione finalizzata al potenziamento delle forze militari antiterrorismo, al coordinamento dei servizi di analisi e alla condivisione dei dati di intelligence.
È invece di pochi giorni fa la notizia di nuovi accordi bilaterali tra Pechino e l’esecutivo tagiko rivolti alla costituzione di avamposti e centri di addestramento per le guardie che prestano servizio alla frontiera con l’Afghanistan. Difatti, il Tagikistan è stato frequentemente interessato da episodi di criminalità transnazionale per opera di narcotrafficanti ed altri gruppi terroristici, mentre l’attività dei Talebani nella provincia afghana settentrionale di Kunduz rappresenta una fonte di preoccupazione ancora maggiore delle ambizioni jihadiste di Daesh.
Dai fattori esaminati in precedenza si possono facilmente evincere le ragioni che hanno indotto alcune delle Repubbliche islamiche dell’Asia Centrale a innalzare il proprio livello di sicurezza e ad avvalersi del supporto di altri attori internazionali, in maniera tale da creare un fronte comune contro tutti coloro che dichiarano di agire sotto le molteplici bandiere dell’Islam militante. Peraltro, la storia regionale degli ultimi vent’anni insegna come l’Asia Centrale sia stata pervasa da fenomeni radicali distinti, ma spesso intrecciati con preesistenti situazioni di disagio sociale, frustrazione economica e sfiducia politica, poi sfociati nel senso di alienazione vissuto da alcuni giovani islamici.
Ecco che allora da tale rilievo discende una duplice conseguenza. Da un lato, la valutazione in termini di validità ed efficacia dello sviluppo futuro dell’alleanza capeggiata da Pechino dovrà porsi in relazione ad un ampio set di dinamiche che interverranno nella costituzione di un adeguato sistema di sicurezza, con riguardo alle operazioni di intelligence ed alle scelte strategiche che saranno intraprese.
Ma al di là di questi aspetti, si stagliano i contorni problematici di un’esigenza di diversa natura, ancorata ad una dimensione non più militare, bensì sociologica. L’ulteriore elemento che dunque non può essere trascurato assume i connotati di una scelta politica lasciata in capo alle autorità statali, che si riassume nell’opportunità di coinvolgere maggiormente i membri della società civile, primi destinatari delle politiche sociali, religiose ed economiche intraprese dai Governi centrali.

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Fig. 4 – Fedeli musulmani si riuniscono presso la Moschea Centrale di Dushanbe, in Tagikistan, in occasione della Festa del Sacrificio (Eid al-Adha)

Luttine Ilenia Buioni

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

Nelle ultime settimane, il nominativo di Muhiddin Kabiri – leader del Partito della Rinascita Islamica del Tagikistan (IRPT) – è stato incluso nella lista dei criminali ricercati dall’Interpol, per espressa richiesta del Governo di Dushanbe. Accusato di frode, organizzazione di un gruppo criminale e presunti atti di terrorismo, Kabiri, che attualmente vive in esilio all’estero, ritiene i capi di imputazione falsi e politicamente motivati in ragione dell’attività di opposizione condotta dall’IRPT. Il Partito, di chiara ispirazione islamica, è stato bandito nella repubblica centroasiatica dal settembre 2015 ed è stato successivamente inserito dalla Corte Suprema del Tagikistan nella lista nera delle organizzazioni terroristiche.[/box]

Foto di copertina di Al Jazeera English Rilasciata su Flickr con licenza Attribution-ShareAlike License

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Luttine Ilenia Buioni
Luttine Ilenia Buioni

Laureata in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi Roma Tre con una tesi in Diritto Penale Internazionale, ho completato il mio percorso di studi conseguendo un Master in Peace Building Management e successivamente l’abilitazione  per l’esercizio della professione forense. Coltivo il sogno di coniugare la passione per il diritto a quella per l’analisi geopolitica dello spazio post-sovietico. Un percorso che mi ha recentemente condotto a Yerevan, in Armenia, dove ho avuto l’opportunità di partecipare ad un programma del Consiglio d’Europa. Per Il Caffè Geopolitico mi occupo in particolare di Caucaso Meridionale ed Asia Centrale. In passato ho collaborato anche con Termometro Politico, l’Osservatorio di Politica Internazionale (OPI) e Mediterranean Affairs.

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