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La “Brexit” vista da Henry A. Kissinger

La “Brexit” è un evento che ancora lascia molti interrogativi e incertezze sul futuro, in Europa ma non solo. Negli Stati Uniti d’America diverse sono le personalità che si sono interessate al voto britannico.In questa sede andiamo ad analizzare l’opinione e i consigli di Henry A. Kissinger, già Assistente del Presidente per gli Affari di Sicurezza Nazionale e Segretario di Stato sotto i mandati di Richard Nixon e Gerald Ford, controverso Premio Nobel per la pace nel 1973 e membro della Trilateral Commission

L’EUROPA DI IERI, L’UE DI OGGI – Henry A. Kissinger ha recentemente espresso sul The Wall Street Journal la sua opinione sulla “Brexit”. Riconoscendo la grande importanza di quest’evento, ha invitato ad affrontarla come dovrebbe fare il perfetto statista: trasformare la sconfitta in un’opportunità.
L’impatto del voto è stato notevole perchĂ© non rappresenterebbe solo la contrariata reazione popolare britannica alle istituzioni dell’Unione europea (UE) – che ha riflesso i sondaggi di opinione sull’UE – ma perchĂ© sarebbe paragonabile a quella della maggior parte dei principali Stati – in particolare Francia e Spagna. L’idea di avere frontiere aperte al libero commercio e alla libera circolazione delle persone è sempre piĂą in discussione, in tal senso l’atto di democrazia diretta operato da Londra ha quindi il valore di un verdetto di condanna. La “Brexit” è un classico esempio degli effetti imprevisti e indesiderati di una decisione. Il Governo britannico ha fortemente sostenuto il “Remain”, al fine di sedare definitivamente le controversie interne con la minoranza nel Partito Conservatore e, inoltre, con i populisti, in merito alla “questione Europa”. Al contrario molti sostenitori del “Leave” sono rimasti sorpresi dal successo, avendo intrapreso la campagna, inizialmente, in maniera molto meno radicale.
Nell’Europa di oggi la visione che sostiene il sacrificio dei singoli Stati in favore di un benessere comune si sta indebolendo. I “padri fondatori” diedero vita al processo d’integrazione al fine di impedire il ripetersi delle peggiori conseguenze delle divisioni europee e degli egoismi nazionali. Allo stesso tempo questo processo ha costituito anche l’affermazione di quei valori che hanno reso grande l’Europa.
L’Europa della giovinezza dei “padri” ha prosperato attraverso il concetto di Stato-nazione, che da un lato ha innescato la ricerca dell’egemonia e, contemporaneamente, dall’altro l’ha fatta evolvere verso una comune cultura. Ha diffuso i suoi principi di democrazia e costituzionalismo in tutto il mondo, tranne il rispetto della dignità umana, violata durante il colonialismo. L’Europa ha poi cercato di conservare il suo dinamismo rispecchiato nelle sue storiche conquiste e, assieme, di mitigare quell’impulso di competizione che l’aveva quasi portata, nel 1945, alla distruzione.
L’UE di oggi è invece assorbita dalla gestione dei suoi problemi strutturali, piuttosto che impegnata nel raggiungimento degli scopi dichiarati. Dalle sfide della globalizzazione alla crisi dei migranti, anche se l’idea di un sacrificio comune è in decadimento, un futuro migliore non può che nascere da questo; non accettare ciò significa condannarsi a consumare la propria sostanza.

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Fig. 1 – Il Presidente Richard Nixon analizza la situazione in Vietnam con Henry A. Kissinger e il generale e futuro Segretario di Stato nel 1981 Alexander M. Haig jr., Camp David, 13 novembre 1972

L’ERRORE DA EVITARE – In un mondo pieno di conflitti nati dalla diversità dei valori culturali, è assolutamente necessario un impegno comune dell’Europa e dei suoi partner atlantici. Invece ora l’UE è di fronte a una sfida inaspettata, negoziare con uno dei principali Stati i termini della sua uscita. La Gran Bretagna vorrà mantenere ampi legami con l’Europa e allentare i vincoli legislativi e burocratici. All’opposto l’UE non vorrà premiare il “Leave” concedendo condizioni migliori di quanto non siano quelle attuali – da Stato membro.
L’UE non dovrebbe commettere l’errore di adottare un atteggiamento punitivo e trattare la Gran Bretagna come un “evaso dalla prigione”, bensì dovrebbe considerarla come un “potenziale compatriota”. Questo perché “punire” il Regno Unito non risolverà né l’interrogativo di come amministrare la gestione dell’euro in assenza di una politica fiscale comune tra Stati con capacità economiche diverse, né come definire i confini di un’Unione la cui capacità di stabilire strategie politiche comuni non è alla pari rispetto a quella di stabilire gli aspetti economici e amministrativi. Da parte sua la Gran Bretagna dovrebbe utilizzare la sua nuova autonomia in un modo tale da garantire la cooperazione con l’UE, al fine di tornare ad assumere assieme, almeno in parte, il loro ruolo storico di architetti dell’ordine internazionale.
Negli ultimi decenni l’Europa si è avvicinata al “soft power”, tuttavia oggi subisce “assedi”, come i sollevamenti di alcune popolazioni e i flussi migratori di proporzioni bibliche. L’Europa e la Gran Bretagna potrebbero evitare di essere vittime delle circostanze solo assumendo un ruolo più attivo. Questo assunto al momento non può essere discusso a livello geopolitico, tuttavia i leader dell’UE dovrebbero esserne in grado, tramutando la vittoria del “Leave” in una catarsi.

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Fig. 2 – Il Presidente Gerald Ford e Henry A. Kissinger discutono in privato durante i negoziati del Trattato S.A.L.T. in Unione Sovietica, Vladivostok, 24 novembre 1974

IL “RISCHIO ATLANTICO” – Gli Stati Uniti hanno incoraggiato l’UE sin dal principio del processo d’integrazione, però hanno avuto difficoltà ad adattarsi agli sviluppi. Quando Jean Monnet (1888 – 1979) ebbe l’idea di unificare l’Europa alla fine della WWII, è stato sostenuta dal Piano Marshall. Gli Usa hanno quindi fornito un contributo indispensabile per la sicurezza internazionale e il progresso economico mondiale. Oggi il ruolo americano deve essere ridefinito per un nuovo tipo di leadership, passando dal “dominio” alla “persuasione”.
La maniera in cui il Governo americano e i sostenitori del “Remain” hanno fatto pressione illustrerebbe quest’ultimo punto: la minaccia della fine della “special relationship” creato dall’esistenza di una Gran Bretagna in solitaria, la fine dei negoziati privilegiati tra Londra e Washington. La “special relationship” si fonda nelle origini dell’America, un legame che consiste nell’avere in comune una lingua e un sistema di valori politici, un legame rinforzato dall’aver condiviso guerre e battaglie. L’idea della “special relationship” è nata dalla mente di Sir Winston Churchill (1874 – 1965) non come una confutazione di un mondo multilaterale, bensì come garante dei suoi valori e a difesa dalle difficoltà che si sarebbero sicuramente palesate dopo la fine della WWII.
La “special relationship” è necessaria per il “Mondo Atlantico”, per attraversare l’attuale momento di crisi. Un’Europa disintegrata potrebbe essere un problema per l’intera partnership atlantica, che rappresenta uno dei più grandi successi del passato secolo. La Gran Bretagna resta un elemento essenziale in questo disegno, perché la sua storia e sentimenti sono “atlantici” e la sua attuale condizione richiede lo stesso un ponte con l’Europa. L’ordine internazionale di oggi è stato fondato su concetti nati nel Regno Unito, che sono stati diffusi da parte dell’Europa in tutto il mondo e, infine, hanno messo radici profonde nel Nord America. In questo senso è imperativo che gli Usa si dedichino a rinvigorire i paradigmi dell’ordine mondiale contemporaneo.
In conclusione la vittoria del “Leave” ha scatenato le ansie di Usa e UE e di tutti coloro che si affidano alla stabilità del loro legame. Per ispirare la fiducia del mondo, l’Europa e l’America dovranno dimostrare in primis fiducia in sé stesse.

Claudio Cherubini

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in piĂą

Kissinger è notoriamente un repubblicano. Lo scorso maggio – come riporta anche il quotidiano britannico The Telegraph – nella sua residenza privata di Manhattan c’è stato un incontro con il candidato repubblicano Donald Trump, per discutere di politica estera e, ovviamente, anche di fatti inerenti alla candidatura alla presidenza del magnate. [/box]

Foto di copertina di fernando butcher Rilasciata su Flickr con licenza Attribution License

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Claudio Cherubini
Claudio Cherubini

Sono nato a Roma nel 1987, dove ancora risiedo. Sono laureato in Relazioni internazionali presso l’”Università degli Studi Roma Tre” e, non ancora saturo della materia, ho conseguito un master in “Relazioni internazionali e protezione internazionale dei diritti umani”, presso la “Società Italiana per l’Organizzazione internazionale” (S.I.O.I.) di Roma. Attualmente sono impegnato nella frequenza del master in “Global Marketing, comunicazione e made in Italy”, offerto dalla “Fondazione Italia USA” (di cui sono professionista accreditato) e dal “Centro Studi Comunicare l’Impresa” di Bari (C.S.C.I.). Coltivo a livello meramente amatoriale la passione per la letteratura italiana, mentre ho sviluppato un forte interesse per la crisi economica e finanziaria che da anni attanaglia il mondo, l’Italia particolar modo.

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