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Fallimento in riva al Danubio

Il vertice del 16 settembre a Bratislava, il primo senza la Gran Bretagna, non ha visto il cambio di passo da molti ritenuto indispensabile per la sopravvivenza dell’UE. Ma le divisioni rimangono.
L’Italia, sfumata l’illusione di indebolire l’asse franco-tedesco, rischia l’isolamento, mentre la fronda dei Paesi dell’Est è solo rimandata. Nel suo attuale formato l’UE rischia di scoprirsi ingovernabile

IL VERTICE – Venerdì 16 settembre i Capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea si sono riuniti nel castello di Bratislava, capitale della Slovacchia, per un vertice informale. A rendere l’appuntamento particolarmente significativo concorreva il fatto che quello in riva al Danubio era il primo summit senza la presenza del Primo ministro britannico, dopo che il referendum dello scorso giugno ha sancito la volontà degli elettori britannici di uscire dall’Unione. L’attesa era tanta, forse troppa per un vertice che in realtà si proponeva “solo” di delineare una road map fino al marzo 2017, quando ricorreranno i sessant’anni dalla firma dei Trattati di Roma, che istituirono la CEE (Comunità Economica Europea), antesignana dell’UE. Fatta questa premessa, bisogna tuttavia rilevare che il summit in sostanza è stato un fallimento. Per evitare spaccature sul documento finale si è infatti deciso di concentrarsi su un minimo comun denominatore che potesse mettere d’accordo tutti i 27, aiutando a superare il trauma Brexit. Missione (quasi) riuscita, ma sacrificando la sostanza e rinviando le discussioni, senza tuttavia eliminare le divisioni tra i Paesi, soprattutto per quanto riguarda immigrazione e politica economica.

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Fig.1 – La conferenza stampa del Presidente francese François Hollande e della cancelliera tedesca Angela Merkel

LE CONCLUSIONI – I leader europei hanno convenuto che l’UE, sebbene in crisi, rimane indispensabile per fare fronte alle sfide di oggi e, soprattutto, di domani. Questa affermazione, insieme al discorso sullo Stato dell’Unione del presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker di alcuni giorni prima, indica che teoricamente esiste la consapevolezza anche fra i vertici politici della gravità della crisi del progetto europeo. Resta da capire se questa consapevolezza si trasformerà in azione concreta. Il documento finale è scarno e vago. Si parla soprattutto di immigrazione e sicurezza. Una nota interessante è data dal tema difesa. Tutti i 27 membri, anche quelli più critici verso Bruxelles, si sono infatti detti a favore del rafforzamento dell’integrazione europea in questo settore. Probabilmente è proprio nella difesa che nei prossimi mesi potrebbero venire interessanti sviluppi, grazie soprattutto all’ultima proposta franco-tedesca in materia. Tuttavia, per quanto importante, la difesa comune appassiona più gli addetti ai lavori che il grande pubblico. Un eventuale successo in questo campo, pur utile e auspicabile, non cambierebbe molto l’attuale situazione di stallo politico. Il futuro dell’Unione, infatti, si gioca e si giocherà su economia e immigrazione, settori tanto rilevanti quanto divisivi – e quindi scomodi da maneggiare.

LO STRAPPO ITALIANO – Il risultato più eclatante del summit è stato probabilmente la polemica che ha diviso il premier italiano Matteo Renzi dal Presidente francese François Hollande e dalla cancelliera tedesca Angela Merkel. Il nostro Capo del Governo ha aspramente criticato l’atteggiamento franco-tedesco sull’economia e sull’immigrazione, ritenendolo miope e poco ambizioso. Si è arrivati a dire che il direttorio italo-franco-tedesco inaugurato all’indomani della Brexit è già morto a pochi mesi dalla nascita. Le cose probabilmente non stanno esattamente così. Innanzitutto le dichiarazioni al veleno del premier italiano sono dovute anche (se non soprattutto) alla campagna elettorale per il referendum costituzionale italiano. In un’ottica di politica interna, infatti, niente può aiutarlo più che fare la faccia feroce nei confronti della Germania e di Merkel. Bisogna poi dire che la disponibilità di Berlino nei confronti del Governo di Roma rimane intatta. La cancelliera tedesca è perfettamente consapevole delle necessità elettorali di Renzi e dell’importanza della stabilità del suo Governo e probabilmente è disposta a tollerare (nei limiti del possibile, chiaramente) qualche polemica italiana, se questo servirà a permettere al premier italiano di rimanere a Palazzo Chigi. Renzi rimane un partner difficile ma prezioso, quasi indispensabile per Berlino. Tuttavia Bratislava ha sottolineato un grave errore della politica europea del nostro Presidente del Consiglio: la sottovalutazione della saldezza dell’asse franco-tedesco (vedi il chicco in più). Si è infatti rivelata un’illusione (e non è certo la prima volta) la speranza italiana di portare dalla propria parte la Francia nella battaglia contro l’austerity di marca tedesca. Questo errore è probabilmente il frutto della mancata comprensione da parte di Renzi dell’importanza del rapporto con la Germania per i francesi, che nessuna vaga promessa di asse mediterraneo potrà scalfire, di qualunque colore politico sia l’esecutivo che governa a Parigi. È ancora tutto da capire se questi giorni rappresentino una svolta duratura della politica europea del nostro Governo o se l’atteggiamento critico verso l’Europa durerà solo il tempo della campagna elettorale. Resta il fatto che la politica europea dell’Italia sta diventando un po’ troppo ondivaga e confusa. Il rischio è che ciò, oltre ad impedire al nostro apparato politico- diplomatico di delineare una strategia coerente e di successo, non faccia che rafforzare a livello internazionale l’impressione di un Paese inaffidabile e schizofrenico.

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Fig.2 – Il premier italiano Matteo Renzi

LA FORZA DI VISEGRAD – Al vertice di Bratislava i Paesi del Gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica ceca e Slovacchia) erano arrivati con una proposta di rinazionalizzazione di alcune politiche oggi di competenza della Commissione. Anche se i V4 non si sono spinti a chiedere esplicitamente la revisione dei Trattati europei (tema potenzialmente esplosivo), l’influenza all’interno del gruppo degli esecutivi di Budapest e Varsavia è sempre più evidente. Proprio il premier ungherese Viktor Orban e l’eminenza grigia del Governo polacco Jaroslaw Kaczynski hanno recentemente convenuto sulla necessità di avviare in Europa una contro-rivoluzione culturale che miri a rafforzare il ruolo degli Stati nazionali all’interno dell’Unione. I Paesi dell’Est si trovano inoltre uniti in un’opposizione ideologica e pressoché totale alla condivisione degli oneri in materia di immigrazione. La loro forza è cresciuta grazie alla Brexit, alla debolezza delle strutture comunitarie e alla capacità di fare blocco. A Bratislava gli europei occidentali non hanno voluto arrivare ad una resa dei conti con i V4, evitando i temi controversi. Ma questo tentativo può avere successo solo a breve termine e rischia di naufragare già il 2 ottobre prossimo, quando l’Ungheria terrà un referendum contro i ricollocamenti di profughi decisi dalla Commissione e dal Consiglio europeo. Una sfida all’attuale assetto dell’Unione, che può far esplodere definitivamente i già accesi contrasti sull’immigrazione.

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Fig.3 – Il premier ungherese Viktor Orban e il leader polacco Jaroslaw Kaczynski

L’UE INGOVERNABILE? – Bratislava ha dimostrato come neanche i 27 membri che rimarrebbero dopo l’addio di Londra siano capaci di trovare soluzioni a lungo termine. Questo è probabilmente dovuto ad una strutturale divergenza di interessi e di vedute che rasenta il confine dell’inconciliabilità. Semplificando, il blocco occidentale tende a vedere l’Unione come un lavoro ancora incompleto, mentre secondo i Paesi dell’Est (oltre ad alcuni del Nord), che solo recentemente hanno ritrovato la sovranità nazionale, l’UE si è già spinta troppo oltre la sua autentica ragion d’essere, cioè quella di assicurare l’esistenza di un libero mercato a livello continentale. Poi ci sono le divisioni tra il Nord, fautore di una ortodossa politica economica di austerity e restio alla condivisione dei debiti, e il Sud, che invece vorrebbe tornare a vecchi strumenti come la svalutazione e gli eccessi di spesa pubblica. E questo solo per elencare le differenze principali. Perché la verità è che l’Unione di oggi è dominata da alleanze a geometrie variabili su singole tematiche (politica economica, immigrazione, politica estera, assetto istituzionale) tra i Paesi che la compongono. Urge un ripensamento complessivo del sistema istituzionale per soddisfare le diverse esigenze ed aspettative dei diversi membri ed evitare così la trappola dell’ingovernabilità. Le proposte sono molte, alcune particolarmente valide. L’alternativa a riformare è il mantenimento dello status quo, cioè la paralisi per incapacità (o meglio impossibilità pratica) di delineare una visione comune. Purtroppo l’atteggiamento di Francia e Germania sembra essere quello di rimandare i grandi dibattiti al 2018 per ragioni elettorali. Scelta probabilmente inevitabile, visto il clima politico in molti Paesi europei. Resta tuttavia da capire se l’Unione può aspettare così a lungo.

Davide Lorenzini

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

Il rapporto speciale tra Francia e Germania (fino al 1990 Germania occidentale) nasce negli anni successivi alla Seconda Guerra mondiale e viene suggellato dal Trattato dell’Eliseo del 1963, voluto fortemente dal Presidente francese Charles de Gaulle e dal cancelliere tedesco Konrad Adenauer. La riconciliazione tra le due potenze europee viene vista come la chiave per il mantenimento della pace in Europa e per la crescita economica del vecchio continente. L’asse franco-tedesco si consolida negli anni, qualunque siano i colori politici dei Governi sulle opposte sponde del Reno, e diventa il vero motore propulsivo del processo di integrazione europeo. La consapevolezza del rapporto simbiotico tra Francia e Germania diventa profondamente radicata nelle classi dirigenti di entrambe i Paesi. Questa particolare relazione franco-tedesca sopravvive all’unificazione della Germania e ancora oggi, nonostante l’evidente sbilanciamento a favore della Repubblica Federale, il suo mantenimento è l’obiettivo di gran lunga prioritario delle politiche europee di Parigi e Berlino. [/box]

Foto di copertina di Durickova Rilasciata su Flickr con licenza Attribution License

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Davide Lorenzini
Davide Lorenzini

Sono nato nel 1997 a Milano, dove studio Giurisprudenza all’Università degli Studi. Sono appassionato di politica internazionale, sebbene non sia il mio originario campo di studi (ma sto cercando di rimediare), e ho ottenuto il diploma di Affari Europei all’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) di Milano. Nel Caffè, al cui progetto ho aderito nel 2016, sono co-coordinatore della sezione Europa, che rimane il mio principale campo di interessi, anche se mi piace spaziare.

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