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La Bolivia di Morales alla drammatica prova del conflitto sociale

Il recente omicidio del viceministro Rodolfo Illanes non è solo un tragico episodio di cronaca politica, ma rivela il profondo scontro in atto nella società boliviana sulle modalità di gestione delle strategiche risorse minerarie. Ed il Presidente Morales non sembra riuscire a governare la situazione.

MORALES E I FATTI RECENTI – La Bolivia, tra i Paesi latinoamericani che nell’ultimo decennio hanno meglio saputo coniugare sviluppo economico e coesione sociale, sembra essere precipitata in uno stato di caos endemico. La notizia apparsa sulle agenzie di stampa lo scorso 25 agosto è effettivamente di quelle inquietanti e rievoca da vicino i nefasti di un passato non lontano, caratterizzato da violenza politica e repressione cruenta: il viceministro dell’interno, Rodolfo Illanes, è stato sequestrato e picchiato a morte dai minatori in rivolta nella provincia montuosa di Panduro, a meno di 200 chilometri da La Paz, dopo essersi recato sul posto per placare le dilaganti proteste. Un avvenimento non solo tragico, ma anche oscuro, che stride platealmente col percorso intrapreso dal presidente Evo Morales, fortemente intenzionato a regolamentare le pratiche estrattive a scapito del profitto privato. Contestualizzare le proteste diventa quindi propedeutico a un’adeguata comprensione non solo dei drammatici fatti recenti, ma anche del più generale percorso di sviluppo sociale e ambientale intrapreso dalla Bolivia da almeno un decennio a questa parte.

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Fig. 1- I funerali del viceministro Illanes del 26 agosto 2016

UN BREVE RESOCONTO STORICO – La questione mineraria in Bolivia ha una storia lunga almeno cinque secoli. Era infatti il 1545 quando vennero scoperte dagli spagnoli le ingenti miniere d’argento di Potosì, nel sud del Paese, che riempirono rapidamente le casse dell’embrionale capitalismo europeo. Al declino delle riserve argentifere, nel corso del XIX secolo, si accompagnò la scoperta delle miniere di stagno, il cui intenso sfruttamento fu però sempre appannaggio di un pugno di famiglie, tutte di origine europea. Risale invece al 1952 il primo tentativo di nazionalizzare le risorse energetiche, quando venne costituita l’ancora attiva società statale di estrazione denominata Corporación Minera de Bolivia (COMIBOL). Durante la cruenta dittatura di Hugo Bánzer (1971-1978) le società multinazionali iniziarono però a penetrare nel Paese e ad acquisire importanti contratti esclusivi di estrazione a cifre talvolta irrisorie. A partire dal 1985, durante gli anni del liberismo selvaggio, fu concessa la cosiddetta “flessibilità lavorativa” dal governo presieduto da Victor Paz Estenssoro. In sostanza, divenne possibile licenziare con maggiore facilità nel settore statale e la conseguenza fu che 20.000 minatori persero il lavoro nel giro di un anno e dovettero accettare le condizioni di lavoro imposte dalle imprese multinazionali. Il controllo delle risorse era infatti nel frattempo passato quasi del tutto alle grandi imprese estere che, perlopiù nella forma di joint venture, ricavavano ingenti profitti in un contesto di povertà dilagante. Al popolo boliviano, come è facile immaginare, rimanevano infatti appena le briciole.

L’ASCESA DELLE COOPERATIVE MINERARIE – A scioperare sono oggi gruppi di lavoratori appartenenti alle cooperative del settore estrattivo, che in Bolivia hanno progressivamente accresciuto la loro importanza. Sono nate ufficialmente nel 1939 con l’obiettivo di aggregare i minatori delle aree marginali del Paese, dove le multinazionali erano meno interessate ad agire a causa delle basse aspettative di profitto. All’inizio furono positive esperienze di solidarietà ed autogestione che ridussero effettivamente la disoccupazione in zone di estrema povertà (come la stessa provincia di Potosì, teatro attuale degli scontri). Per incoraggiarne la diffusione, i governi boliviani ne garantirono quindi un regime fiscale favorevole e in generale un’ampia libertà di manovra, sia in ambito organizzativo che gestionale. Nel corso del tempo, però, il modello cooperativistico iniziale venne snaturato. Due le principali cause: un’attenzione crescente delle multinazionali, che iniziarono la pratica delle concessioni di subappalti alle cooperative anche per eludere il fisco, abbassare i salari e aggirare le norme ambientali; una crescente segmentazione degli stessi lavoratori, divisi tra i soci fondatori, azionisti delle cooperative e ormai appartenenti alla borghesia nazionale, e i cosiddetti lavoratori volontari (detti peones o makunkus), chiamati a giornata e senza diritti. Solo per fare un esempio: ad oggi risultano ben 112.000 lavoratori di cooperative registrati, ma tra questi appena 18.000 sono coperti dall’assicurazione contro gli incidenti e le malattie, tutt’altro che inusuali in miniera.

LA COSTITUZIONE BOLIVIANA E LE RICHIESTE DELLE COOPERATIVE – Nel gennaio del 2008 il popolo boliviano ha ratificato la nuova Costituzione, definita da molti come la svolta indigenista, ecologista e socialista del Paese. Nell’articolo 311, ad esempio, si legge: «Le risorse naturali sono di proprietà del popolo boliviano e saranno amministrate dallo Stato». Il 369 chiarisce «Si riconoscono come attori produttivi l’industria mineraria statale, l’industria mineraria privata, e le società cooperative», mentre l’articolo 371 è lapidario: «Le aree di sfruttamento minerario concesse tramite contratto sono non trasferibili, inalienabili e non trasmissibili per via ereditaria». Alla luce di questi principi, nel 2013 e nel 2014 il governo di Morales ha approvato una serie di riforme, le più importanti delle quali riguardano da vicino proprio le ragioni ufficiali delle proteste odierne da parte delle cooperative. In particolare, nella Ley General de Cooperativas Mineras si sancisce il diritto dei lavoratori delle cooperative di associarsi in sindacati, al fine di difendere i diritti minimi che negli altri settori industriali del Paese sono garantiti. Inoltre la Ley 535 de Minería y Metalurgia impedisce che le imprese private (nazionali o multinazionali) possano entrare nelle concessioni delle cooperative, riservando allo Stato i diritti di assegnazione e ribadendone l’inalienabilità. Sono infatti già 31 i contratti che le cooperative hanno stipulato con le imprese multinazionali, sfruttando il precedente vuoto normativo. Inizialmente il dialogo tra le parti sembrava possibile e un compromesso raggiungibile, ma l’omicidio di Illanes ha infuocato il clima e adesso Morales annuncia il pugno di ferro per i responsabili, dichiarando interrotte le trattative con le cooperative.

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Fig. 2 – Evo Morales con il più importante alleato nel processo di nazionalizzazione delle risorse, il Presidente dell’Ecuador Rafael Correa

DUE CONTRAPPOSTE VISIONI DI GESTIONE DELLE RISORSE – Il tragico evento che ha coinvolto il viceministro dell’interno boliviano ha suggerito come dietro lo scontro in atto non ci siano solo fatti politici contingenti, ma un più ampio conflitto che riguarda le modalità di gestione delle strategiche risorse minerarie del Paese. A contrapporsi sono infatti una prospettiva definibile pubblicistica e un’altra privatistica. La prima, sancita dalla Costituzione e difesa dal governo, sostiene la più ampia nazionalizzazione delle miniere al fine di continuare la redistribuzione sociale degli introiti provenienti dalle estrazioni dell’oro, dell’argento e soprattutto dello stagno, di cui la Bolivia è tra i primi esportatori mondiali. La seconda, ostile alle intromissioni del governo nella sfera economica, ritiene che la libera impresa e la discrezionalità dei privati nella gestione delle risorse siano le sole garanzie per una più efficiente valorizzazione delle stesse. Le accuse principali al governo di Morales sono infatti di aver intrappolato il Paese, col pretesto delle nazionalizzazioni, in inutili lungaggini burocratiche e nelle maglie di una corruzione dilagante. La posizione che avrà la meglio in questi anni, presumibilmente non solo in Bolivia ma anche in molti altri Paesi latinoamericani che ne condividono le sorti, contribuirà a definire il rapporto tra risorse naturali e distribuzione della ricchezza, cruciale come pochi nel definire il volto della società latinoamericana che verrà.

Riccardo Evangelista

[box type=”shadow” align=”” class=”” width=””]Un chicco in più

Il fallito tentativo di rielezione compiuto da Morales nel referendum dello scorso febbraio evidenzia il “limite personalistico” delle esperienze progressiste latinoamericane, troppo dipendenti dal carisma del proprio leader. Analoghi sono infatti i problemi nel Venezuela del dopo Chavez e nell’Ecuador che si appresta a chiudere l’esperienza presidenziale di Correa[/box]

Foto di copertina di Cancillería Ecuador Rilasciata su Flickr con licenza Attribution-ShareAlike License

 

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Riccardo Evangelista
Riccardo Evangelista

Sono nato nel 1987 in provincia di Frosinone. Dopo una laurea triennale in Scienze Politiche e una magistrale in Sviluppo e Cooperazione, a inizio 2016 ho conseguito il dottorato di ricerca in Sviluppo economico: analisi, politiche e teorie presso l’Università di Macerata. Mi interesso disordinatamente di politica economica, storia dell’economia e teorie dello sviluppo. La mia passione per l’America Latina nasce identificandola con un sogno, troppo spesso infranto: quello di un mondo più giusto. Io, comunque, continuo a crederci. Tra gli hobby vanno annoverati la lettura, un attento apprezzamento per il cibo e una certa morbosità per il gioco del calcio (in televisione).

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