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Quale futuro per i rapporti tra UE e Turchia? (I)

Sono ormai lontani i tempi in cui si considerava seriamente un’adesione di Ankara all’UE. Fattori interni ed esterni alla Turchia hanno infatti reso l’opzione sempre più impraticabile.
Ma le colpe del degrado delle relazioni vanno equamente ripartite tra gli europei ed Erdogan, con l’accordo sui migranti alla base della nuova partnership Ankara-Bruxelles

C’ERAVAMO TANTO AMATI (?)– La storia dei rapporti tra la Turchia e l’UE è lunga e tormentata. Nel 1963 Ankara, bastione orientale della NATO e dell’Occidente contro l’Unione Sovietica, sigla un accordo di associazione con l’allora CEE (Comunità economica europea). Tuttavia i dubbi europei circa il ruolo svolto dai militari e dallo “Stato profondo” di stampo kemalista nella vita politica turca impediscono di procedere oltre. La svolta arriva solo all’inizio degli anni Duemila, quando ad Ankara sale al potere l’AK Parti (Partito della Giustizia e dello Sviluppo), formazione islamica moderata guidata da Recep Tayiip Erdogan, politico rampante, da allora osannato in Occidente come inventore di una formula politica che sembra capace di conciliare Islam e democrazia. L’Unione Europea apre così le trattative di adesione con la Turchia nel 2005, rafforzando il nuovo Primo ministro che, con la scusa di adeguare i canoni politici turchi a quelli di Bruxelles, indebolisce in modo sostanziale le Forze Armate, custodi della laicità dello Stato e veri titolari dell’indirizzo politico. La realtà però rimane più complessa dell’apparenza. Numerosi Stati europei (in primis la Francia, ma anche la Germania, per non parlare di Cipro) non avrebbero mai accettato un ingresso della Turchia a prescindere, non tanto (o non solo) per ragioni culturali o religiose – care, invece, all’opinione pubblica europea -, ma per il fatto che l’ingresso di un Paese di 80 milioni di abitanti e con una forte coscienza nazionale nell’UE avrebbe radicalmente mutato i fondamentali demografici, economici, politici e geografici dell’Unione stessa. La Turchia avrebbe infatti avuto (?) le carte in regola per aspirare a diventare uno dei Paesi leader del blocco. Senza dimenticare che negli stessi anni Bruxelles era impegnata a “digerire” il fresco allargamento a Est. Dal canto suo Erdogan, ben cosciente di queste posizioni pregiudizievoli verso il suo Paese, sfruttava la situazione per indebolire ogni contro-potere interno, ufficiale o ufficioso.
Nonostante ciò le relazioni hanno continuato a svilupparsi e l’economia turca ne ha beneficiato enormemente, a tutto vantaggio di una nuova borghesia, islamica, anatolica e soprattutto riconoscente verso il Primo ministro turco, unanimemente ritenuto l’artefice del miracolo economico e dell’uscita di larghi strati sociali del Paese dalla povertà e dall’insignificanza politica in cui le élite laiche della costa le avevano relegate negli oltre ottant’anni di vita della Repubblica turca.

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Fig.1- Il Presidente turco Recep Tayip Erdogan

FINE DELLA LUNA DI MIELE – L’atmosfera cambia, però, all’inizio del secondo decennio del secolo, a causa di fattori esterni e interni. Le Primavere arabe (e in particolare la guerra civile siriana) sconvolgono gli equilibri della regione, ed Erdogan intravede l’opportunità di rendere la Turchia la potenza egemone in Medio Oriente attraverso una politica estera che smette il tradizionale basso profilo turco e diventa assertiva ed ambiziosa. Ankara inizia così ad allontanarsi dall’Europa, che peraltro non fa nulla per trattenerla. Il premier turco diventa sempre più autoritario e quando, nella primavera del 2013, reprime duramente le rivolte di Gezi Park, è ormai chiaro che tra UE e Turchia si è creato un solco incolmabile. Nel 2014 il “Sultano”, come viene ormai chiamato dalla stampa internazionale, viene eletto Presidente della Repubblica, rincorrendo il sogno di trasformare il sistema politico turco in presidenziale e di rifondare la Turchia, ritagliandosi il ruolo di nuovo Atatürk (il fondatore della Repubblica), ma in salsa islamista. Riformare la Costituzione in tal senso diventa così il suo obiettivo, che ben presto si tramuta in ossessione. Da questo momento la situazione interna del Paese si surriscalda sempre più. L’emergere del partito curdo HDP (Partito Democratico del Popolo) nelle elezioni del giugno 2015 rischia di precludere all’AKP l’agognata maggioranza assoluta. Erdogan, dato per perso l’elettorato curdo, per il cui sostegno nel 2013 aveva avviato la pacificazione con il PKK (Partito curdo dei lavoratori), il principale gruppo armato dei curdi di Turchia, si mette a corteggiare i voti nazionalisti, contribuendo ad acutizzare le divisioni etniche nel Paese. Nel luglio 2015 si riaccende così il conflitto tra Stato turco e PKK, trascinando il Paese in un circolo vizioso di attentati, repressione e scontri che ne minano seriamente la stabilità. Erdogan ha gioco fin troppo facile a presentarsi come uomo della stabilità e a fare il pieno di consensi alle elezioni legislative di novembre dello stesso anno. Non ha ancora la maggioranza necessaria a riformare la Costituzione, ma la vittoria del sultano è innegabile e l’obiettivo finale sempre più vicino, grazie all’avvicinamento con i nazionalisti. Vittima principale di questi eventi è il processo di adesione all’UE, che presupponeva la pacificazione del conflitto curdo e il consolidamento della fragile democrazia turca.

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Fig.2- Scontri a Piazza Taksim a Istanbul nel 2013

L’ACCORDO SUI MIGRANTI… – Nello stesso periodo, tuttavia, un’ondata senza precedenti di profughi (in maggioranza siriani) provenienti dalla Turchia, investe l’Europa, mettendo a rischio la tenuta stessa dell’Unione. La Realpolitik impone così ai Paesi europei di trattare con Ankara per la riduzione dei flussi migratori. Bruxelles e Berlino trovano un interlocutore privilegiato in Ahmet Davutoglu, nuovo Primo ministro turco e fine diplomatico cui Erdogan, isolato a livello internazionale a causa della sua politica estera e alla ricerca di alleati, concede il mandato di negoziare un accordo sui migranti, che viene infine raggiunto il 18 marzo 2016. In sostanza la Turchia si impegna ad impedire ai 3.000.000 di profughi presenti sul proprio territorio di tentare la traversata verso la Grecia, in cambio di sei miliardi di euro da parte dell’Europa e, soprattutto, di sostanziose concessioni, tra le quali le più importanti sono la riapertura del processo di adesione e la possibilità per i cittadini turchi di viaggiare nell’UE senza visto (vedi il chicco in più).

…E LE SUE SPINE – Tuttavia le promesse di adesione sembrano ormai più uno stanco rito che entrambe le parti sentono di dover recitare piuttosto che una proposta politica seria. Infatti l’Europa e la Turchia del 2016 non sono più quelle dei primi anni Duemila. Innanzitutto l’ottimismo che in quel periodo circondava il progetto politico europeo è in buona parte evaporato, lasciando l’Unione assediata dalle crisi interne ed esterne ed incapace di elaborare progetti di ampio respiro e di larghe vedute. Figuriamoci organizzare l’adesione della Turchia, che anche in condizioni tranquille porrebbe problemi politici quasi insuperabili. Inoltre l’opinione pubblica europea è diventata sempre più ostile nei confronti dell’UE. Ostilità che, probabilmente, non verrebbe che rafforzata dall’ingresso della Turchia, visto come fumo negli occhi dai partiti antieuropei (ma non solo). È poi lecito chiedersi se il Governo turco creda davvero che l’adesione sia fattibile ed auspicabile per il proprio Paese. In tutto questo l’accordo sui migranti, nei fatti e nelle opinioni di entrambe le parti, sembrava più un accordo basato sui crudi interessi politici di breve termine che su progetti visionari. Una tesi che i fatti degli ultimi mesi non hanno fatto altro che confermare.

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Fig.3- L’ex primo ministro turco Ahmet Davutoglu

Davide Lorenzini

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

Proprio l’abolizione dei visti per i cittadini turchi è diventato lo scoglio su cui rischia di naufragare l’accordo del 18 marzo. Il Governo turco ha chiesto in termini perentori l’approvazione di questa clausola da parte delle autorità dell’Unione entro ottobre, pena l’annullamento dell’accordo.[/box]

Foto di copertina di KHSeok Rilasciata su Flickr con licenza Attribution License

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Davide Lorenzini
Davide Lorenzini

Sono nato nel 1997 a Milano, dove studio Giurisprudenza all’Università degli Studi. Sono appassionato di politica internazionale, sebbene non sia il mio originario campo di studi (ma sto cercando di rimediare), e ho ottenuto il diploma di Affari Europei all’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) di Milano. Nel Caffè, al cui progetto ho aderito nel 2016, sono co-coordinatore della sezione Europa, che rimane il mio principale campo di interessi, anche se mi piace spaziare.

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