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Erdogan ridisegna le forze armate

Miscela Strategica – La repressione e l’epurazione dalle principali cariche del Paese di coloro che sono ritenuti vicini a Gulen coinvolgono pesantemente l’esercito

LA VENDETTA DI ERDOGAN – Sin dalle prime battute del golpe del 15 luglio, il Presidente Recep Tayyip Erdogan aveva promesso una repressione spietata e dura, arrivando a definire il tentativo di rovesciarlo come un «Regalo di Allah» per poter fare pulizia dei suoi oppositori all’interno dell’esercito, delle università e in generale di tutte le istituzioni del Paese. I numeri delle purghe sono impressionanti e in costante aumento. Secondo le stime fatte – tra gli altri dall’agenzia stampa Reuters e dall’ong Human Rights Watch – le persone colpite tra arresti e licenziamenti si attesterebbero sulle 60.000 unità. Per bocca dello stesso Erdogan, che domenica 24 luglio ha trasmesso un videomessaggio nelle piazze di tutta la nazione, gli arrestati sarebbero 13.165, di cui 8.838 soldati e 1.438 poliziotti (categoria di cui altri 8.000 circa sarebbero stati, secondo varie fonti, rimossi). Notevole è anche il numero di alti generali e ammiragli: 118, circa un terzo del totale di 360. La purga si abbatte su coloro che sono sospettati di essere i responsabili del golpe, considerati vicini all’imam Fetullah Gulen, predicatore in passato molto vicino al Presidente, di cui è diventato nel 2013 uno dei principali oppositori e che vive autoesiliato in Pennsylvania. Proclamato lo stato di emergenza per i prossimi tre mesi, sospesa temporaneamente la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e determinato a reintrodurre la pena di morte, sembra chiaro che Erdogan stia sfruttando il fallimento del golpe – e il suo conseguente rafforzamento, anche a livello internazionale – per terminare il suo progetto di emarginazione degli oppositori iniziato già da diversi anni.

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Fig. 1 – Sostenitori di Erdogan festeggiano il fallimento del golpe

IMPRUDENZA O STRATEGIA? – L’epurazione del Sultano ha fatto sorgere diversi dubbi tra gli analisti  sull’opportunità strategica di eliminare di colpo una parte considerevole dello stato maggiore e dell’esercito. Se è vero, infatti, che i più alti vertici militari – dal capo di stato maggiore Hulusi Akar, ai generali delle forze di terra, marina e aviazione – si siano schierati con il Presidente, è anche vero che a prendere parte al colpo di stato sia stata una parte non trascurabile delle forze armate turche. Non tanto a livello numerico quanto a livello strategico. Tra i putschisti si trovano infatti anche i comandanti, con le rispettive truppe, della Seconda e della Terza Armata schierate lungo il bollente confine con la Siria. Sotto il loro controllo vi era anche la base NATO di Incirlik, da cui partono i caccia statunitensi e degli altri alleati contro le roccaforti dello Stato Islamico. Una base chiave, che nei giorni immediatamente successivi al golpe era stata chiusa – con i soldati NATO bloccati al loro interno – da Erdogan. Mossa motivata in primis dal diniego statunitense di estradare Gulen, ma anche da un’esigenza di riorganizzazione celere. Mosso dalle preoccupazioni per il rischio di implosione dell’esercito, il Presidente ha voluto rassicurare, sia in privato che con interviste alla Reuters, alla CNN e ad Al Jazeera, i propri alleati sul fatto che il Consiglio Supremo Militare – guidato dal Primo Ministro, dal ministro della Difesa e dal Capo di Stato Maggiore – sovrintenda con accuratezza alla ristrutturazione dell’esercito, cui a detta del rais sarà data nuova linfa vitale. Rassicurazioni evidentemente arrivate anche al Segretario Generale Nato Jens Stoltenberg, il quale a margine di un vertice tenutosi a Washington ha espresso fiducia nei confronti del fatto che la Turchia continuerà ad essere «un alleato forte e impegnato della NATO».

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Fig. 2 – Manifestazione di sostegno al “sultano” Erdogan

ERDOGAN ANDRÀ IN FONDO – Per quanto riguarda l’efficacia della ristrutturazione dell’esercito, una serie di fattori porta a credere a Erdogan. Come detto, il disegno di emarginazione degli oppositori era già in atto da tempo. I militari in Turchia rappresentano dall’epoca di Ataturk la garanzia della democrazia e della laicità del Paese: se il putsch è fallito è anche e soprattutto perché in questi anni Erdogan ha sostituito tutti i vertici con i suoi fedelissimi. Si ricordi, su tutti, l’arresto nel 2012 dell’ex Capo di Stato Maggiore Ilker Basbug, allora accusato di essere alla guida di «un’organizzazione terroristica» che aveva lo scopo di sovvertire il governo islamista guidato dal rais, all’epoca Primo Ministro. Nell’ultimo periodo aveva fatto discutere l’ostracismo di Akin Oztürk, ex Capo dell’aviazione, cui a pochi giorni dal golpe è stata attribuita una confessione, poi smentita, di essere il responsabile del tentato colpo di Stato. A far propendere per una rapida e pressoché indisturbata riorganizzazione militare è anche e soprattutto la posizione strategica di Ankara. Un collasso della Turchia, che confina sia con l’Iraq che con la Siria, sarebbe infatti deleterio per il già precario – ove non compromesso – equilibrio del Medio Oriente. Questo indipendentemente dalle tensioni sorte con gli Stati Uniti a seguito del rifiuto di estradare Gulen – il quale si è dichiarato estraneo al putsch, condannandolo, e incassando le rassicurazioni del Segretario di Stato John Kerry che ha chiesto a Erdogan evidenze su un eventuale coinvolgimento del chierico per poter procedere. L’alleanza con la Turchia di Erdogan assume sempre di più le sembianze di una di quelle relazioni scomode ma imprescindibili. Come quella che, per intenderci, da alcuni decenni lega gli USA all’Arabia Saudita. Non è un caso che, durante il colpo di stato, il sostegno dell’Occidente al Presidente sia arrivato, più o meno convintamente, solo quando ormai si era capito che il golpe fosse fallito. Erdogan sa di avere il coltello dalla parte del manico e andrà fino in fondo con il proprio disegno.

Giulio Monga

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più 

Nonostante le smentite da parte del clerico, Erdogan continua pubblicamente a parlare di «de-gulinizzazione», paragonando l’imam a un virus da debellare per il bene della nazione. La scorsa settimana l’esercito turco è passato ai fatti arrestando il nipote di Gulen, Muhammet Sait Gulen, e Halis Hanci, considerato il braccio destro del predicatore. Era arrivato in Turchia due giorni prima del fallito golpe. Gulen, milionario, ebbe un ruolo significativo nella vittoria dell’Akp nelle elezioni del 2002 e nell’ascesa di Erdogan alla carica di primo ministro. Il rapporto tra i due si è rotto nel 2013 a seguito dello scandalo di corruzione che colpì alcuni membri del Governo Erdogan. Dietro quello scandalo fu accusato di esserci proprio Gulen.[/box]

Foto di copertina di NATO Training Mission-Afghanistan pubblicata con licenza Attribution-ShareAlike License

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Giulio Monga
Giulio Monga

Classe ’93. Studente di giurisprudenza con passione per il diritto internazionale e i diritti umani. Giornalista in erba che cerca di farsi strada da alcuni anni con collaborazioni frenetiche. Appassionato da sempre di geopolitica – Stati Uniti e Medio Oriente su tutti -, uno dei pochi a leggere il Corriere partendo dalla pagina degli Esteri. Sogno un futuro in questi campi. Interesse per la politica e a volte perfino per chi la fa. Amore per la musica e per il Milan.

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