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Un caffè in redazione su Brexit

Analisi del voto, necessità di mettere a referendum simili scelte, possibili azioni e reazioni di Regno Unito e Unione Europea: resoconto di una chiacchierata a tre in redazione post Brexit. Con un ruolo decisivo di un quarto incomodo…

ALBERTO ROSSI –  Insomma, da una notte all’altra ci siamo svegliati in un continente diverso, con l’impressione che questi siano giorni di cui parleranno i libri di storia. Un Paese in meno nell’Unione Europea, con un peso specifico che può cambiare radicalmente gli equilibri. E con indicazioni di voto da cui parrebbe legittima una preoccupazione addirittura per la stessa tenuta sociale del Paese, non solo per il tema giovani/anziani di cui si è lungamente parlato. Simone, come la vedi, tu che l’hai vissuta dai sobborghi di Londra?

SIMONE PELIZZA – Al di là delle percentuali di votanti, dall’inizio della campagna referendaria le generazioni nate negli anni ’80 e ’90 hanno sostenuto apertamente la necessità per la Gran Bretagna di restare nella UE, anche se molto spesso solo in modo virtuale, mentre quelle più anziane sono parse più nostalgiche del passato imperiale del Paese e quindi favorevoli alle tesi euroscettiche. Ma questa non è stata certamente l’unica spaccatura significativa nell’elettorato britannico sulla questione europea. Il voto nel referendum ha infatti evidenziato una società fortemente polarizzata su diversi assi: città/campagne, inglesi/non inglesi, poveri/ricchi, cosmopoliti/localisti, europeisti/nazionalisti. Addirittura, in Irlanda del Nord i risultati del referendum si sono sviluppati lungo la vecchia faglia tra cattolici e protestanti, con i primi favorevoli all’unione con Bruxelles e i secondi ben decisi a riaffermare la piena sovranità di Londra nella regione. Questo per dire che non esiste un’unica categoria interpretativa valida per spiegare l’esito del referendum del 23 giugno. Il quadro è complesso e, in alcuni casi, persino contradittorio. Basti pensare, per esempio, ai tanti giovani professionisti sostenitori del Leave o agli anziani veterani della Seconda Guerra Mondiale sostenitori del Remain. Anche la suddivisione città/campagne non spiega molto da sola. Diverse città come Plymouth e Portsmouth hanno infatti votato per il Leave, mentre la Scozia rurale ha votato compatta per il Remain. In ogni caso, si può affermare tranquillamente che ha vinto il cuore antico del Paese, legato a valori storici (molto mitizzati) di autonomia locale e orgoglio nazionale.

Suggeriamo di dare un’occhiata a questi dati e alle infografiche pubblicate dal Guardian: ci trovate tutte le evidenze di quanto detto!

ALBERTO – C’è un’altra faglia di cui discutere: quella tra chi ritiene questo voto l’esaltazione del principio di libertà e autodeterminazione dei popoli, e chi arriva addirittura a sostenere limitazioni del diritto di voto. Tanti di noi hanno letto questo articolo del Washington Post tradotto in italiano dal Post che tanto ha fatto discutere. Tra i due estremi di questo continuum, dobbiamo provare a non schierarci tra guelfi e ghibellini, ma ad andare un po’ più in profondità. Per me questo vuol dire prima di tutto che il voto va rispettato sempre. Non si può dire che chi vota è un imbecille! È evidente che in mezza Europa la classe politica sia distaccata dalla pancia e dal cuore dal Paese, ed è incapace di far comprendere le ragioni che stanno dietro a determinati percorsi politici. D’altra parte, però, non si votava per eleggere i propri rappresentanti politici interni! E allora bisogna chiederci perché far votare su temi riguardanti di trattati politica internazionale. Andiamo oltre, provocando un po’: se mettessimo ai voti l’introduzione della pena di morte, probabilmente vincerebbe. Se avessimo messo ai voti l’uso dell’atomica in certe fasi della Guerra fredda, probabilmente si sarebbe usata. Insomma, al di là del suicidio politico della strategia di Cameron, il tema è che sembra venir meno il concetto di rappresentanza da parte di una élite (nell’accezione positiva del termine) in grado di guidare un Paese nelle decisioni strategiche, e in sostituzione di questo prende piede una visione che ritiene che chiunque – magari perché onesto, come condizione sufficiente e non come condizione necessaria – possa governare o prendere decisioni. Intendiamoci, gran parte delle responsabilità di questo percorso sono delle classi politiche attuali, ma questo concetto di democrazia diretta “a prescindere”, quasi assoluta, su qualsiasi tema, in nome dell’autodeterminazione e della libertà dei popoli, a mio avviso è pericoloso. È la vera democrazia, o ne è una sua perversione?

EMILIANO BATTISTI – Ultimamente il referendum è usato come arma da quelle forze populiste in grado di parlare “alla pancia” della popolazione. Offrono visioni il più delle volte distorte delle problematiche che si vanno ad affrontare tramite un capillare uso della propaganda e la creazione di slogan a effetto.  Questo non è controbilanciato da una quanto mai necessaria preparazione della cittadinanza su temi importanti, quali, per dirne una, le basi di diritto costituzionale. Inoltre è l’arma perfetta per l’anti-establishment, per urlare in faccia alla classe politica tutto il proprio dissenso. Quest’ultima sta perdendo mano a mano – anche per colpa sua – la capacità di guida sui grandi temi e la legittimazione elettorale ha ormai durata breve. Per fortuna il saggio legislatore costituente ha impedito che in Italia possano esserci referendum abrogativi sui trattati internazionali.

Art. 75 della Costituzione – Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali

SIMONE – Alcuni hanno condannato duramente David Cameron per aver sottoposto una questione così complessa e delicata all’elettorato, mentre altri hanno lodato la scelta dell’ex Premier britannico come “audace” e “coraggiosa”. Personalmente condivido il duro giudizio dei critici. Cameron ha sbagliato a sottoporre una faccenda così sfaccettata e piena di molteplici implicazioni a un corpo elettorale poco ferrato sulla struttura della UE o sulle sue leggi fondamentali. E tutto per una squallida faida interna al Partito Conservatore. Tanto per dire: molti elettori non sapevano neanche cosa fosse l’articolo 50 del Trattato di Lisbona o quali fossero i compiti principali della Commissione Europea, finendo per credere a qualsiasi esagerazione propagandistica di un campo o dell’altro. Come si può emettere un giudizio informato sull’appartenenza di Londra alla UE senza avere una minima conoscenza di questi punti? Nonostante tali limiti, si sarebbe comunque potuto montare un dibattito intenso ma costruttivo sul ruolo del Regno Unito nell’attuale contesto europeo. Insomma, un dibattito all’altezza dell’occasione storica e dell’enorme posta in gioco. Così non è stato. Al contrario, avendola vissuta “dall’interno”, mi sento di affermare che la campagna elettorale del referendum sia stata una delle peggiori di sempre, dominata da attacchi personali, slogan xenofobi e promesse poco credibili. E su tutto ha “brillato” il cinismo volgare e spregiudicato di Nigel Farage, leader dello UKIP e alfiere del Leave. Sfruttando abilmente i media, Farage ha trasformato un dibattito sulla UE in una virulenta campagna contro l’immigrazione, alimentando pericolosamente la rabbia popolare e lasciando una pesante eredità tossica per il futuro della politica britannica. Questo mi spinge a diffidare del referendum come uno strumento adatto per discutere e emettere giudizi politici su trattati internazionali, a meno che non si tratti di documenti semplici e facilmente comprensibili dall’elettore medio. Per il resto, molto meglio un classico voto parlamentare.

ALBERTO – Altro tema fondamentale: come l’Europa potrà reagire e ripensarsi davanti a questo? Perché se non si cambiano le cose, un effetto domino non va escluso a priori. L’Unione Europea non è un dogma, non è scontata la sua esistenza perpetua. Andando ancora più in profondità, neanche la pace in Europa deve essere data per scontata e permanente, se non si lavora per crearne costantemente le condizioni. Se vogliamo rafforzare l’Europa, salvaguardare e accrescere anche gli enormi passi positivi compiuti in 70 anni, di cui spesso ci dimentichiamo, occorre un cambio di visioni e strategie. Vedremo se esiste un “effetto shock”: le stragi di Parigi, a novembre, non lo avevano portato, anzi. Ma di sicuro se la Brexit non si fosse affermata, l’Unione Europea avrebbe potuto continuare a mettere la testa sotto la sabbia e pensare che i problemi non fossero poi così gravi. Ora almeno non ci si può più nascondere, e per decidere quali saranno le pagine successive di quei futuri libri di storia occorre muoversi alla svelta. Solo se sarà così, la Brexit potrebbe anche paradossalmente anche fare del bene all’Europa.

SIMONE – Sarebbe bello se lo shock della Brexit spingesse finalmente la UE a riforme sostanziali delle proprie strutture e delle proprie linee d’azione, recuperando in parte lo spirito idealistico delle sue origini. Purtroppo temo che non sarà affatto così. Il clima politico sia a Londra che a Bruxelles rende difficile un “divorzio amichevole” tra le parti e l’ossessione punitiva della leadership europea nei confronti degli Stati membri “trasgressori” delle sue rigide regole appare ormai senza freni. L’Europa tedesca temuta da Ulrich Beck è diventata realtà e la sua inflessibilità ha relegato le istituzioni comunitarie nel ruolo di tiranniche “signorine Rottermeier”, incapaci di ascoltare le ragioni dei loro Paesi membri e di stabilire un dialogo produttivo con l’opinione pubblica europea.  Tuttavia la Brexit offre comunque una grande opportunità di ripensamento sia del futuro della UE che degli odierni equilibri continentali. La Germania non può infatti più fare da sola; il suo unilateralismo rischia di accrescere i conflitti interni all’Unione e di incentivare le spinte euroscettiche di molti Paesi membri, che potrebbero seguire in futuro l’esempio britannico. La  Francia deve assolutamente essere più attiva nella formulazione delle politiche europee, e anche Roma è chiamata a riprendere urgentemente il suo ruolo di padre fondatore dell’integrazione continentale. Il futuro della UE dopo l’uscita di Londra dipenderà molto dalle azioni di questi Paesi.

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EMILIANO – Vado a scomodare un britannico….Churchill diceva che l’ottimista vede opportunità in ogni pericolo e il pessimista pericoli in ogni opportunità. Speriamo che l’unione Europea e i suoi Paesi membri siano “ottimisti”. Nonostante la batosta, la Brexit è l’opportunità per rileggersi in maniera critica e correggere politiche, strategie e atteggiamenti che hanno portato a questo evento e al rafforzarsi degli schieramenti euroscettici. L’UE deve tornare a dare un messaggio che metta l’accento sul fattore politico della U della sua sigla e spinga meno sui vincoli economico-burocratici. Questi sono sì importanti, ma non atti a dare forza allo spirito europeo.

ALBERTO – Io chiudo con un aneddoto personale. La sera post referendum mio fratello mi scrive che mio nipote Francesco, 7 anni, ha voluto sapere tutto sulla Brexit (per questo mi ha proposto di creare “Il Caffelatte Geopolitico”: ci dobbiamo lavorare!). Morale, dopo aver sentito la spiegazione, Francesco ha chiesto: “Ma adesso che sono usciti, dove vanno?” Ecco, alla fine mi sembra il principale tema di analisi. La miglior capacità di sintesi è dei bambini, non c’è storia.

SIMONE – Provo a rispondere a Francesco quantomeno per i rapporti con l’UE. La soluzione migliore per far ripartire i rapporti tra UE e Regno Unito dopo la Brexit sarebbe un grande accordo quadro che delinea l’insieme delle relazioni politico-economiche tra Londra e tutti i 27 membri dell’Unione. Qualcosa di simile alle partnership strategiche siglate dall’ASEAN con Cina e Stati Uniti, per esempio. Alternativamente si potrebbe invece cercare di tenere distinto l’aspetto economico da quello politico, consentendo al Regno Unito di unirsi alla EEA e poi negoziando un accordo ad hoc per la cooperazione diplomatica Londra-Bruxelles. In ogni caso, penso che si debba sempre cercare un accordo collettivo, lasciando campo libero ai rapporti bilaterali tra il Regno Unito e i vari Paesi membri solo su questioni secondarie. Ristabilire i rapporti con il Governo britannico su base nazionale creerebbe infatti confusione e potrebbe alimentare ulteriori conflitti tra i Paesi UE. Con Londra l’Europa deve quindi parlare con una voce sola, pur lasciando ragionevole spazio all’iniziativa e agli interessi particolari dei suoi singoli componenti.

 

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più 

Alberto è Presidente del Caffè; Emiliano il nostro Social Media Manager e Responsabile di Astrocaffè; Simone è responsabile Desk Asia e Russia, vive a St. Albans, poco fuori Londra, ed è il principale insider del Caffè in loco, avendo seguito in profondità tutta la campagna pre-referendum.

Francesco, 7 anni, è il più giovane analista della storia del Caffè. I bene informati dicono la sappia ben più lunga degli altre tre.

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