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Belgio-Ungheria: un destino in comune?

EuroCaffè − Favorita per la vittoria dell’Europeo, la Nazionale belga è ricca di talento, mentre quella ungherese ha sorpreso tutti qualificandosi agli ottavi. Ma le due rappresentative potrebbero condividere lo stesso destino.

ANNO 2000, COMINCIA UNA NUOVA ERA – Tutto ebbe inizio nel 2000. Scottata dall’eliminazione al primo turno dell’Europeo organizzato insieme ai vicini olandesi, la federazione calcistica belga, KBVB – o URBSFA, per chi preferisce l’acronimo in lingua vallone a quello in fiammingo, – si affidò a Michel Sablon, che mise in atto una piccola rivoluzione. Partendo dall’analisi di 1.600 ore di filmati di partite 11 contro 11 dei settori giovanili del Belgio, ne capì il punto debole. Durante le gare i giovani calciatori toccavano il pallone troppe poche volte: tra le 15 e le 20 volte, rivelò un’analisi dell’Università di Leuven che collaborò con la Federazione belga. Un numero evidentemente insufficiente per consentire ai ragazzi di migliorare la loro tecnica.

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Fig. 1 – Lo svedese Olsson tra Hazard e Nainggolan, due dei simboli del Belgio di oggi

LA RIVOLUZIONE OFFENSIVA – Sablon decise che era arrivato il momento di introdurre qualche novità: innanzitutto, impose alle squadre giovanili di sostituire le classiche partite 11 contro 11 – o 9 contro 9, – con gare disputate 5 contro 5 per i bambini fino ai 7 anni e 8 contro 8 per quelli che non ne avevano più di 10. Inoltre Sablon impose a tutti i club del Belgio di far giocare le proprie formazioni giovanili fino alla Primavera con il 4–3–3. Una scelta dettata per favorire lo sviluppo di un calcio più offensivo. I risultati non tardarono ad arrivare: oggi la rappresentativa belga è una delle migliori al mondo. Tuttavia, per quanto talentuosa, la Nazionale rischia di rimanere un’eterna incompiuta o nel migliore dei casi di vincere meno di quanto meriti in realtà. Proprio come l’Ungheria degli anni Cinquanta.

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Fig. 2 – La statua del leggendario Ferenc Puskás nella piazza a lui dedicata a Budapest

L’ARANYCSAPAT – L’appellativo non era stato scelto a caso: tradotto in italiano, Aranycsapat significa la “squadra d’oro”. Un nome altisonante, ma dovuto alla qualità dei giocatori che la componevano – ne elenchiamo solo alcuni: Ferenc Puskás, Sándor Kocsis, Zoltán Czibor… – e che la rendevano unica e invincibile: quella Nazionale vinse 32 partite consecutive, rimanendo imbattuta per quattro anni, salvo poi perdere la gara più importante: la finale di Coppa del Mondo nel 1954 contro la Germania dell’Ovest, a Berna. Fu una sconfitta inaspettata. Dopo essere passati in vantaggio e realizzato il raddoppio nei primi minuti dell’incontro, i magiari si fecero rimontare e battere dai tedeschi. Lo spettacolo offerto da Puskás e compagni era eccezionale. Merito anche dello schema tattico utilizzato: i magiari scendevano in campo schierandosi con un 3-2-3-2. Una disposizione che permetteva di creare superiorità numerica nella parte offensiva del centrocampo, lasciando molto spazio ai tre rifinitori e specialmente a quello centrale. Giocando in questo modo, l’Ungheria introdusse il concetto di “centravanti arretrato”, per riferirsi al ruolo ricoperto da Nándor Hidegkuti che agiva in posizione centrale, alle spalle delle due punte Ferenc Puskás e Sándor Kocsis. Certo, negli anni Cinquanta, la Nazionale ungherese conquistò l’oro olimpico (Helsinki 1952), ma avrebbe meritato molto di più. Il Mondiale del 1954, in primis.

Mirko Spadoni

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

Il Belgio ha vinto sei delle ultime otto sfide contro l’Ungheria. L’ultima vittoria ungherese risale al novembre del 1958, quando i magiari si imposero per 3 a 1 in occasione di una partita amichevole. Un’ultima curiosità: ad oggi, gli incontri tra Belgio e Ungheria non si sono mai conclusi con un pareggio a reti inviolate.

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Mirko Spadoni
Mirko Spadoni

Romano, classe ’88, ha abbandonato i suoi sogni di gloria molto presto: sarebbe voluto diventare presidente di una squadra di calcio. E così, dopo aver conseguito una laurea in Comunicazione, ha deciso di limitarsi a raccontarne le gesta (dei presidenti e dei loro stipendiati, s’intende). Compreso che il pallone – e la Lazio – non sono tutto nella vita, si è dedicato anche ad altro: alla politica e all’economia per un quotidiano online di un istituto di ricerca, per poi innamorarsi definitivamente della geopolitica. Una passione che coltiva con buona pace della letteratura e dei colori biancocelesti.

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