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UE vs Brexit, Paese per Paese – III

Illustriamo le posizioni di Lettonia, Austria, Finlandia, Croazia, Repubblica Ceca, Bulgaria e Ungheria in merito alla Brexit e alle ricadute che avrebbe su tali Paesi

LETTONIA CONTRARIA

I Paesi Baltici costituiscono, di fronte all’ipotesi Brexit, un blocco abbastanza compatto, in quanto simili si mostrano i contraccolpi che potrebbero subire in una tale evenienza. Come nel caso lituano, anche i lettoni hanno mostrato ostilità verso le aspirazioni inglesi di modifica delle clausole di appartenenza all’UE prima e all’ipotesi di uscita del Regno Unito dopo. Riga, infatti, condivide con Vilnius l’interesse verso la preservazione delle regole dell’Unione in quanto grazie a quest’ultime – e all’ampio mercato libero sfruttabile – le “tigri baltiche” hanno potuto crescere a ritmi vertiginosi per anni. La frenata causata dalla crisi globale iniziata nel 2007, però, ha inflitto un duro colpo anche agli Stati dell’area: la Lettonia, ad esempio, ha visto erodersi, nel solo 2009, il suo PIL del 14,9% e ancora non ha completamente riassorbito la perdita. Per questa ragione, dunque, Riga teme le possibili ricadute macroeconomiche che seguirebbero la Brexit ed è fortemente indirizzata, invece, a preservare una solida struttura europea capace di sostenere e coadiuvare il suo sviluppo economico. In aggiunta, l’uscita del Regno Unito comporterebbe per la Lettonia il venire meno di un importante alleato attestato su posizioni rigide verso Mosca, andando a indebolire, di conseguenza, la sua capacità di pressione su tale tematica. Gli esiti della Brexit, come nel caso lituano, potrebbero dunque essere assai negativi.

AUSTRIA – CONTRARIA

Per Vienna i maggiori rischi legati all’ipotetica Brexit risiedono in ambito politico. La sua economia, infatti, essendo fortemente legata alla Mitteleuropa, non risentirebbe di contraccolpi particolarmente notevoli dato lo scarso livello di interscambio diretto con il Regno Unito. Passando al piano politico interno, invece, la situazione diviene notevolmente più complessa. Innanzitutto preoccupa l’ascesa del Partito della Libertà – arrivato vicinissimo a insediare il suo candidato alla Presidenza della Repubblica – a causa del suo orientamento fortemente nazionalista e con un’ala più estremista dai tratti xenofobi e antieuropeisti: l’uscita di Londra, infatti, darebbe loro ulteriore slancio in vista delle elezioni legislative previste per il 2018. Nel caso in cui si aggiudicassero le elezioni potrebbero spingere verso una revisione delle clausole di appartenenza all’UE in stile britannico – forti anche dell’esistenza di una petizione rivolta al Parlamento che chiede di indire un referendum per decidere in merito all’appartenenza dell’Austria all’Unione Europea. Questa situazione, però, unita all’uscita inglese, contribuirebbe solo a incrementare il danno prodotto dalla Brexit e, infine, a riverberarsi sulla stessa Austria. In aggiunta, l’ascesa (e, ipoteticamente, la vittoria) del FPÖ – data la sua posizione filorussa – potrebbe orientare la politica estera austriaca a una maggiore apertura verso Mosca: tale scelta, però, creerebbe malumori in alcuni Paesi europei e ciò contribuirebbe alla disunione del sistema nel suo complesso. Resta inteso, però, che, nonostante una parte degli elettori e alcuni partiti potrebbero ritenere vantaggiosa l’uscita del Regno Unito per motivi ideologici o di opportunità politica, l’incertezza che si verrebbe a creare causerebbe all’Austria più danni che guadagni.

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Fig. 1 – Una scheda per il voto via posta

FINLANDIA – CONTRARIA

Per comprendere l’impatto che la Brexit potrebbe avere sull’Unione Europea nulla è più chiarificatore delle parole di Timo Soini, ministro degli Affari Esteri finlandese, secondo il quale la decisione britannica di lasciare l’Europa rappresenterebbe una «catastrofe per l’Europa». La sua è un’opinione da vagliare con attenzione: Soini, infatti, oltre all’incarico governativo, è anche leader del principale partito euroscettico e nazionalista finlandese, il Finns Party, e, di conseguenza, la posizione anti-Brexit da lui espressa – oltre a rappresentare la visione ufficiale del suo Paese – palesa completamente i rischi che tale esito produrrebbe. Sebbene l’interscambio diretto tra i due Stati non sia particolarmente elevato, infatti, la Finlandia fatica a uscire dal gorgo generato dalla crisi economica che ha colpito il globo a partire dal 2007 e la Brexit potrebbe solo peggiorare la già fragile condizione del Paese. Non bisogna dimenticare, inoltre, che, nonostante i finlandesi siano un popolo tendenzialmente europeista (Eurobarometro novembre 2015), la Brexit – unita alla già non semplice situazione economica – potrebbe orientare gli stessi verso una postura più ostile alle istituzioni UE e, seppur a oggi assai lontana, alla richiesta di un referendum similare a quello inglese o, quantomeno, alla revisione delle clausole di appartenenza all’Unione. L’incertezza che si verrebbe a creare, come nei precedenti casi, potrebbe assestare un duro colpo a Helsinki che, per tale ragione, non può che parteggiare per un fallimento del referendum inglese.

CROAZIA – CONTRARIA

La Croazia, insieme alla Slovenia, si situa all’ultimo posto nella classifica del Global Counsel sull’esposizione dei Paesi UE all’ipotetica Brexit e questo perché Zagabria, a livello economico e culturale, ha poco da spartire con Londra. Nondimeno, per la Croazia la permanenza dell’Regno Unito all’interno dell’Unione Europea – come sostenuto da esponenti di spicco nell’establishment croato – è fondamentale: il Paese, infatti, è entrato nell’UE per vedere aumentare le proprie possibilità di successo e prosperità all’interno dello scenario internazionale, queste potrebbero solo essere minate dall’indebolimento dell’Unione derivante dall’uscita del Regno Unito. Per la Croazia, dunque, come per i Paesi di recente ingresso, i rischi legati alla Brexit non sarebbero compensati da ipotetici guadagni in termini di maggiore libertà di manovra all’interno del framework europeo e, di conseguenza, non si può che mostrare avversità di fronte alla possibilità di Brexit.

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Fig. 2 – Sostenitori dell’uscita del Regno Unito attendono il leader dell’UKIP Nigel Farage

REPUBBLICA CECA – CONTRARIA

La diatriba relativa alla rinegoziazione delle clausole UE e alla successiva, ipotetica Brexit non ha trovato largo spazio in Repubblica Ceca. Il Paese, infatti, non possiede legami economici diretti particolarmente consistenti con Londra (seppure non indifferenti in quanto esporta circa il 5% di ciò che produce nel Regno Unito) né condivide i timori di alcuni suoi vicini che hanno un numero elevato di propri cittadini attualmente residenti su suolo inglese: i cechi occupati nel Regno Unito, infatti, sono solo circa 30.000, un numero troppo esiguo per sollevare preoccupazioni degne di nota. Come sottolinea, però, Vladimír Bartovic, direttore dell’EUROPEUM Institute for European Policy, per Praga  la presenza del Regno Unito all’interno dell’Unione Europea è indispensabile in quanto questo è assestato su posizioni similari a quelle ceche su numerose materie – quali, ad esempio, supporto al mercato unico e alla liberalizzazione dello stesso, rafforzamento dei legami transatlantici e politica estera. Il Primo ministro ceco Bohuslav Sobotka ha sostenuto, in merito, che l’uscita di Londra porterebbe a «conseguenze tremende» in tutta Europa evidenziando come, all’interno di molti Paesi – Repubblica Ceca compresa -, la Brexit potrebbe incrementare il peso di partiti e movimenti euroscettici, conducendo, con ogni probabilità, al sollevamento di richieste affini a quelle inglesi. Inoltre, Sobotka ha rilevato come le incertezze che ne deriverebbero – unite all’ascesa di partiti antisistema tendenzialmente attestati su posizioni maggiormente russofile – potrebbero sospingere Praga nuovamente nella «sfera di influenza russa» e ciò costituirebbe «an absolute negation of the developments since [the fall of the communist regime in] 1989». La posizione ceca, dunque, è di assoluta contrarietà alla Brexit.

BULGARIA – CONTRARIA

La Bulgaria, nonostante la scarsa rilevanza del commercio con Londra, teme fortemente la possibilità di un effetto domino seguente l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea e i suoi prevedibili contraccolpi economici. La Bulgaria, infatti, è lo Stato con l’economia meno sviluppata all’interno dell’Unione e, naturalmente, l’aumento dell’instabilità che seguirebbe la Brexit non potrebbe che danneggiarla considerevolmente. Inoltre, per la ragione sopra esposta, Sofia riceve un importante sostegno economico dal bilancio UE – versa, infatti, circa 400 milioni di euro e riceve 2 miliardi e 250 milioni – e l’uscita di Londra (quarto Paese per entità del contributo assoluto versato) porterebbe alla diminuzione, con ogni probabilità, dei contributi in entrata. Un’altra questione di notevole importanza per la Bulgaria riguarda il rilevante numero di suoi cittadini residenti per lavoro nel Regno Unito (circa 65.000) dato che questi potrebbero essere penalizzati in caso di Brexit. Per Sofia, dunque, la permanenza nell’UE di Londra rappresenta l’unico scenario auspicabile.

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Fig. 3 – Union Jacks e bandiere dell’Unione Europea condividono cupcakes

UNGHERIA – CONTRARIA

Nella già menzionata classifica stilata dal Global Counsel, l’Ungheria, come la maggior parte dei Paesi centro-orientali, risulterebbe meno colpita rispetto ad altri Stati in quanto la lontananza geografica rende i legami commerciali e finanziari diretti con il Regno Unito quasi irrilevanti. Ciononostante il peso che potrebbe avere l’uscita degli inglesi sul futuro del Paese non è da sottovalutare. Budapest, infatti, è schierata a favore della permanenza di Londra all’interno dell’Unione per numerose ragioni politico-strategiche. Innanzitutto, in caso di uscita del Regno Unito, il sistema di voto all’interno delle istituzioni europee cambierebbe e ciò potrebbe danneggiare gli Stati di media grandezza. Secondariamente l’Ungheria – sotto il Governo Orban – condivide alcune posizioni inglesi quali, ad esempio, un spiccato interesse verso l’intergovernamentalismo (in opposizione a una più forte unione), la condivisione di una linea dura in tema immigrazione e il bilanciamento di Bruxelles: l’asse verrebbe ovviamente meno con la dipartita di Londra. Oltre a questo, numerosi ungheresi lavorano nel Regno Unito e, naturalmente, la possibile perdita di tutele a seguito della Brexit risulta invisa a Budapest. Infine, ma non meno importante, l’Ungheria riceve dall’UE circa 6.600 milioni di euro (a fronte di 890 milioni circa versati) e tale cifra potrebbe ridursi sensibilmente nel caso in cui Londra decidesse di abbandonare il progetto europeo. La posizione dell’Ungheria è stata bene espressa dal suo ministro degli Affari Esteri e del Commercio Péter Szijjártó: «È nell’interesse dell’Unione europea tenere il Regno Unito all’interno…la sua uscita indebolirebbe l’UE politicamente ed economicamente».

Simone Zuccarelli

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

Per approfondire:

  • Al seguente link è possibile visionare nel dettaglio i rapporti economici tra Regno Unito e Paesi sopra analizzati.
  • Qui uno studio sugli effetti economici della Brexit.[/box]

Foto: dougsmi

Foto: Rareclass

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Simone Zuccarelli
Simone Zuccarelli

Classe 1992, sono dottore magistrale in Relazioni Internazionali. Da sempre innamorato di storia e strategia militare, ho coltivato nel tempo un profondo interesse per le scienze politiche. 

A ciò si è aggiunta la mia passione per le tematiche transatlantiche e la NATO che sfociata nella fondazione di YATA Italy, sezione giovanile italiana dell’Atlantic Treaty Association, della quale sono Presidente. Sono, inoltre, Executive Vice President di YATA International e Coordinatore Nazionale del Comitato Atlantico Italiano.

Collaboro o ho collaborato anche con altre riviste tra cui OPI, AffarInternazionali, EastWest e Atlantico Quotidiano. Qui al Caffè scrivo su area MENA, relazioni transatlantiche e politica estera americana. Oltre a questo, amo dibattere, viaggiare e leggere. Il tutto accompagnato da un calice di buon vino… o da un buon caffè, ovviamente!

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