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13 Hours: guerra e segreti a Bengasi

Le recensioni del CaffèL’ultimo film di Michael Bay racconta le 13 ore in cui si è consumato l’attacco al consolato americano di Bengasi costato la vita all’ambasciatore Chris Stevens e altri tre uomini nella notte dell’11 settembre 2012. Una vera e propria debacle per l’amministrazione Obama, che potrebbe anche nascondere retroscena inquietanti relativi al crescente traffico d’armi dalla Libia ai ribelli siriani

UN FILM SCOMODO – 13 Hours: The Secret Soldiers of Benghazi è l’ultimo film di Michael Bay – autore della fortunata saga dei Trasformers – tratto dall’omonimo libro di Mitchell Zuckoff. Un film sferzante quello di Bay. Malgrado le sue dichiarazioni iniziali: «Il mio è un film apolitico. Ho voluto raccontare l’eroismo di sei soldati americani che in quella terribile notte hanno rischiato la vita nel tentativo disperato di salvare l’Ambasciatore Stevens e altri americani».
Quand’anche, ma il film di Bay è presto diventato un hot-button political movie, un film che solleva roba che scotta. Anche se, dal punto di vista cinematografico, 13 Hours può essere definito una “americanata”. E nemmeno in grande stile. Assordante dall’inizio alla fine. Una Pearl Harbour in chiave moderna a ritmi velocissimi, con una “generosissima” dose di sparatorie ed esplosioni frastornanti.

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Fig. 1 – Il regista Michael Bay (centro) e il cast di 13 Hours a una proiezione speciale del film in Florida, gennaio 2016

BENVENUTI A BENGASI – 13 Hours si apre con l’arrivo all’aeroporto di Bengasi di Jack, un contractor americano, prelevato dal vecchio compagno Rone. Che Bengasi non prometta nulla di buono è chiaro dalla prima scena. Basta dare un’occhiata agli aerei forati a colabrodo esangui sulla pista. La promessa sarà mantenuta.
A Bengasi c’è la CIA. In gran segreto. Zoolandia, cosi Rone chiama il compound dell’Intelligence americana. Forse perché si trova accanto ad un pascolo di pecore. E a Bengasi c’è anche l’uomo di Obama in Libia, l’ambasciatore Stevens, in visita ufficiale per una settimana. Perché «l’America è qui per voi, per l’amicizia fra i nostri popoli». Sarà, però tutte le nazioni del globo se ne sono andate da Bengasi.
Gli americani hanno troppi interessi politici ed economici nella nuova Libia, e Bengasi, la culla della rivoluzione libica, li concentra tutti in quell’estate rovente del 2012. A proteggere l’ultimo avamposto occidentale in Libia Rone, Jack e altri sei contractor, alias il Global Response Staff.  “Hired help” li chiamano i contractor, quelli disposti a fare il lavoro duro.
Uomini addestrati alle situazioni più estreme, alle guerre più cruente.  Ex soldati, uomini veri. Sono eroi e il film lo dimostrerà. «Una grande prova di umanità la loro, finita nel dimenticatoio», secondo Michael Bay. Sono addestrati al peggiore scenario possibile, o quasi.

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Fig. 2 – L’ambasciatore Chris Stevens, vittima dell’attacco terroristico al consolato americano di Bengasi dell’11 settembre 2012

ATTACCO NELLA NOTTE – La notte dell’11 settembre quattro pick-up sfondano il cancello d’ingresso principale del compound consolare in cui alloggia l’ambasciatore, scaricano una dozzina di combattenti armati di mitragliatrici e delle peggiori intenzioni. Appiccano il fuoco in diversi punti della residenza. Alcuni di loro filmano la coreografia dell’attacco. Il vessillo nero jihadista tripudia.
Zoolandia è a poco più di un miglio di distanza dal luogo dal consolato. Gli uomini del GRS sono pronti ad entrare in azione. A questo punto, la scena più controversa del film (e anche la più astuta del regista). Il political hot button issue.
«Stand down», ordina perentoriamente Bob, l’abbottonatissimo capo della missione CIA. Perché non devono muoversi i contractor ? Passano venti minuti da quel Stand down alla decisione di Rone di disubbidire agli ordini, «oggi gli ordini li do io».
Il capo della missione segreta della CIA , quello vero, identificato solo come Bob, nega di aver mai detto qualcosa del genere. Il film non sarebbe, a suo dire, una ricostruzione veritiera degli avvenimenti di quella notte, né degli uomini che erano lì. Va detto che il libro su cui si basa 13 Hours, Zuckoff  lo ha scritto sulla base delle testimonianze di alcuni veri security contractor sopravvissuti all’evento.
In ogni caso perché la missione CIA è top secret? È un interrogativo centrale per capire la presenza dell’’ambasciatore Stevens a Bengasi.

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Fig. 3 – Un miliziano libico sorveglia l’edificio ormai abbandonato del consolato americano di Bengasi, 14 settembre 2012

IL RUOLO DI STEVENS IN LIBIA – Christopher Stevens non era solo un diplomatico molto esperto e navigato. Era molto di più. Era l’uomo degli Stati Uniti nella Libia post-Gheddafi, colui che era riuscito abilmente a stringere importanti legami personali con gli esponenti più potenti (e pericolosi) della variegata galassia impegnata nella lotta agli uomini di Gheddafi, incuneandosi con destrezza nelle faide tra i più influenti capi milizie.
Anche se la lista delle telefonate fatte da Stevens di quella notte è riservata, è più che probabile che Stevens, oltre che l’ambasciata di Tripoli («Siamo sotto attacco»), abbia chiamato più di uno di questi personaggi.
L’11 settembre 2012 Stevens è a Bengasi. In missione per una settimana. Ufficialmente per aiutare il popolo libico, per mediare tra le milizie in campo che dopo aver eliminato Gheddafi devono eliminare i suoi uomini per potersi spartire la Libia e i suoi pozzi petroliferi.
Stevens non è a Bengasi per il petrolio (in Cirenaica si concentrano la maggior parte delle risorse). Su questo aspetto della faccenda 13 Hours non fa illazioni.
Quella notte muoiono quattro uomini. Chris Stevens, Sean Smith e due agenti americani, Glen Doherty e Tyrone Woods. Questi ultimi vittime dell’assalto a Zoolandia che nel frattempo non è più segreta perché dopo più di un’ora, quanto è durato l’attacco al compound consolare, la scena si sposta alla base CIA.
Jack, Rone e gli altri tornano alla base a mani vuote e pronti al peggio. «Hanno assaporato la vittoria, torneranno». Per tutta la notte questi ex soldati intrepidi affrontano gli incessanti attacchi dei miliziani. Un senso di imminente tragedia trasuda dallo schermo. Insieme a un gran frastuono di razzi e mortai.
All’alba del 12 settembre 37 agenti americani riescono a raggiungere l’aeroporto mettendosi in salvo.

POLEMICHE FEROCI – Due cose appaiono chiare fin dall’inizio. Quello della notte dell’11 settembre 2012 è stato un attacco terroristico contro postazioni  americane e non certo la reazione violenta di una massa di libici infuriati e offesi da The innocence of Muslims, il trailer di Basseley Nakoula, un egiziano residente a San Francisco, giudicato blasfemo in gran parte del mondo arabo. Né, tantomeno, una macabra celebrazione dell’undicesimo anniversario dell’11 settembre.
Più plausibilmente, invece, si è trattato di una controffensiva per l’uccisione avvenuta qualche mese prima in Pakistan di Abu al-Libi, numero due di al-Qaeda.
Due anni di indagini della Commissione per l’Intelligence della Camera dei Rappresentanti del Congresso (a maggioranza repubblicana) ha sollevato la CIA da ogni responsabilità e scaricato invece tutte le colpe su Dipartimento di Stato e Casa Bianca.
Siamo alla vigilia delle presidenziali del 2012. Un’occasione troppo ghiotta per  i Repubblicani. Su un piatto d’argento, la prova provata della fallimentare politica estera di Obama con il suo disastroso disimpegno in Medio Oriente.

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Fig. 4 – Il Presidente Obama e l’allora Segretario di Stato Hillary Clinton attendono il rientro della salma di Stevens dalla Libia, 14 settembre 2012

Hillary Clinton, Segretario di Stato all’epoca dei fatti, nel corso della lunga audizione alla Commissioni Affari esteri del Congresso, si è assunta la responsabilità di non aver garantito adeguata sicurezza al corpo diplomatico in Libia. Si è preoccupata, Hillary Clinton, di non lasciare infingimenti sul campo circa le presunte responsabilità (e decisioni) del Presidente Obama.
Siamo alla vigilia delle presidenziali del 2012. L’invio di forze speciali americane in un calderone come quello libico senza conoscere l’effettiva minaccia e i reali nemici sarebbe stato troppo pericoloso. Inutilmente pericoloso, secondo il Segretario di Stato.
È un fatto che al Dipartimento di Stato nei mesi precedenti a quell’11 settembre fossero pervenute ripetute richieste (anche da parte di Stevens) per un rafforzamento della sicurezza nel Paese. Ed è altrettanto un fatto che queste richieste non avessero avuto seguito.
Un altro fatto inconfutabile è che la sede diplomatica di Bengasi non rispondeva ai requisiti Inman, gli standard di sicurezza per il personale diplomatico di cui gli Stati Uniti si sono dotati dopo l’attacco all’ambasciata americana a Beirut nel 1983.
Secondo le accuse dei Repubblicani, Obama aveva una motivazione politica per rifiutare la richiesta di Stevens: dimostrare che la situazione in Libia era migliorata dopo che gli Stati Uniti erano intervenuti, seppur from behind, favorendo la caduta di Gheddafi. L’accaduto dimostrava che i qaidisti erano lungi dall’essere sconfitti.

LA PISTA SIRIANA – Fine della storia. A meno che non si voglia dar credito (e la cosa non richiede un grande sforzo) ad un’altra storia. Una storia che attraverso ricostruzioni, indiscrezioni e fughe di notizie arriva a ipotizzare (ma è molto più di una ipotesi quella che il Wall Street Journal mette sul tavolo) che la presenza del Dipartimento di Stato a Bengasi, ovvero di Chris Stevens, «era in essenza una operazione della CIA» impegnata niente poco di meno che in un traffico d’armi. E pure di notevoli dimensioni: 400 tonnellate di missili terra-aria SA-7 (Manpads) e granate a razzo.

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Fig. 5 – Michael Bay firma alcuni autografi durante una proiezione di 13 Hours a Miami, gennaio 2016

Certo non è la prima volta che la CIA è coinvolta in un traffico d’armi in nome degli interessi nazionali, se non fosse che sul punto Obama ha sempre assunto una posizione adamantina: gli Stati Uniti non intendono armare i ribelli siriani ma sono a favore di un regime change.
La caduta di Gheddafi nel 2011 e il caos che ne è seguito ha lasciato “scoperta” l’imponente dotazione di armamenti accumulati dal Rais scatenando gli appetiti delle varie fazioni in lotta e dei faccendieri jihadisti di al Qaeda nel Maghreb islamico (AQIM). Sempre secondo le ricostruzioni del WSJ, il compito della CIA sarebbe stato quello di ritrovare e riacquistare le armi sparite dall’arsenale di Gheddafi, assai presumibilmente finite delle mani di terroristi. La stessa Hillary Clinton al riguardo ha affermato che l’intelligence americana «stava realizzando uno sforzo concertato per rintracciare e recuperare armi pesanti sottratte all’arsenale di Gheddafi finite nelle mani di pericolosi estremisti libici».
Man mano il puzzle degli avvenimenti che hanno portato alla notte dell’11 settembre si è ricomposto. Si è iniziato a parlare di un collegamento tra Stevens e la presunta spedizione dal porto di Bengasi ad Aleppo via Turchia. Secondo indiscrezioni trapelate nel corso delle audizioni dell’intelligence, l’operazione sarebbe stata organizzata da Abdul Hakem Belhadj, che nel settembre 2012 era il nuovo rappresentante del Consiglio militare di Tripoli. Stevens lo conosceva già, aveva auto a che fare con lui nel 2011, durante la Primavera libica, quando, da inviato speciale presso il Consiglio nazionale transitorio, aveva incontrato Belhadj, allora a capo del Gruppo Combattente islamico libico legato ad Al Qaeda. Un attimo prima che scoppiasse la rivolta anti- Gheddfi, Belhadj era nel mirino della CIA e dell’intelligence del Rais (alleati nella campagna contro al Qaeda in Nord Africa).
Per il Wall Street Journal sarebbe stato proprio Belhadj a guidare l’attentato al consolato, dopo aver collaborato con Stevens per far arrivare armi alle forze siriane in campo contro il regime di Assad. Il Dipartimento di Stato e Hilary Clinton hanno negato qualsivoglia coinvolgimento in vere o presunte spedizioni di armi, né in Siria né altrove. Clinton non se l’è sentita di affermare lo stesso per le altre agenzie del Governo americano.
Se un carico cosi imponente di armi era in procinto di partire da Bengasi per sostenere la guerra contro Assad, Stevens non poteva non saperlo. Pare che l’ultimo incontro di Stevens, quell’11 settembre, sia stato con il console turco per definire il transito delle armi. Questo spiegherebbe perché nessuna forza di intervento rapido sia stata messa immediatamente in azione. Un team speciale sarebbe dovuto partire da Sigonella, in Sicilia, un’ora di volo dalla Libia, «come saltare in una pozzanghera», dice un contractor. Non arriverà mai.
Cosi come non arriverà mai Predator, il drone tanto atteso, e che pure era nei cieli sul consolato di Bengasi quando l’attacco ha avuto luogo. «Potete mandare un aereo che dica v … a questi qua fuori?», tuona la disperata richiesta di Sona, l’unico agente donna della missione.

I FANTASMI DI BENGASI – La catena degli eventi che hanno portato alla morte dell’ambasciatore Stevens e degli altri tre americani è estremamente complessa e forse impossibile da ricostruire interamente. Di certo la connessione tra la missione a Bengasi e i ribelli siriani è più forte di quanto ammesso ufficialmente.
Con 13 Hours Michael Bay ha voluto far conoscere il coraggio dei sei contractor, lo ha voluto celebrare, sottrarlo all’oblio. Malgrado confezionato secondo il più scontato stile di genere, 13 Hours è una storia vera di coraggio e determinazione.
Dopo anni di guerre tra le varie milizie islamiste, oggi le forze laiche del generale Haftar hanno riconquistato quasi del tutto Bengasi strappandola ai Fratelli musulmani di Tripoli. L’operazione di Haftar, Karama, la lotta senza quartiere ai jihadisti di al Sharia e dell’ISIS è costata alla città più di duemila morti in due anni.

Mariangela Matonte

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

Più criticato che amato da Hollywood, Michael Bay appartiene alla categoria dei registi di “genere”. Ritmi veloci, scene d’azione, effetti speciali. Nella sua carriera numerosi blockbuster: Armageddon, The Rock, Pearl Harbour e la famossissima saga dei Transformers (quattro film).

Distribuito da Universal Pictures, 13 Hours è uscito nelle sale italiane a fine marzo.[/box]

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Mariangela Matonte
Mariangela Matonte

Laurea in scienze politiche internazionali, scuola diplomatica MAE, analista politico, appassionata da sempre di relazioni internazionali e di politica. Molti viaggi, tante esperienze lavorative. Il tutto sempre con vocazione internazionale. Relazioni transatlantiche, Mediterraneo e Medio Oriente principali focus di interesse.

Curatrice del blog Geomovies, che si occupa del rapporto tra cinema e politica internazionale.

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