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Clima: i dubbi dopo Parigi

A circa un mese dalla chiusura della COP21, la conferenza sul clima tenutasi a Parigi dal 30 novembre al 12 dicembre, gli osservatori cercano di valutarne i risultati a freddo. Dopo intensi giorni (e notti) di negoziazioni, tutti i partecipanti alla conferenza si sono detti molto soddisfatti. Nonostante l’accordo raggiunto sia stato definito “storico”, un primo bilancio lascia intravedere alcune aree grigie

COS’È STATO DECISO? – Tutti i 195 Paesi partecipanti e l’Unione Europea hanno firmato un accordo che entrerà in vigore alla scadenza del Protocollo di Kyoto nel 2020. Il patto di Parigi segna le tappe del programma d’azione per il secolo attuale. Di fatto si limita a esortare gli Stati partecipanti alla riduzione delle emissioni, senza però indicare comportamenti precisi.
L’accordo ripropone l’ormai scontato limite dei 2°C sopra la temperatura media pre-industriale (prima del 1750) come obiettivo da raggiungere entro il 2100.
Si vuole, in una prima fase, bloccare la crescita delle emissioni e, successivamente, procedere a una drastica riduzione. Nei prossimi trent’anni, pertanto, l’attuale crescita delle emissioni dovrà essere frenata, in modo tale che la temperatura media raggiunga rapidamente il suo picco intorno al 2050. Nella seconda metà del secolo, le emissioni dovranno diminuire gradualmente fino a pareggiare la capacità di assorbimento da parte di foreste, oceani e, si spera, nuove tecnologie.
Per venire incontro alle resistenze di alcuni Paesi, specialmente gli Stati Uniti, gli accordi sono puramente volontari e dunque non prevedono sanzioni per chi li volesse disattendere. Tuttavia a Parigi è stato deciso di monitorare strettamente il comportamento dei partecipanti con una prima verifica già nel 2023, che verrà poi seguita da appuntamenti “correttivi” ogni cinque anni.
Si tratta di un piano piuttosto ambizioso. Come osserva il Sole24Ore, per rispettare questa seppur vaga tabella di marcia, nel 2030 le emissioni non dovrebbero superare i 40 miliardi di tonnellate di CO2, 15 miliardi in meno rispetto al livello atteso in base agli impegni presi dal 95% dei firmatari del Protocollo di Kyoto.

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Fig. 1 – L’unità raggiunta alla COP21 di Parigi sarà autentica o solo di facciata?

LA VERSIONE DI PIKETTY – L’accordo tiene in considerazione la diversa posizione dei Paesi membri, mettendo a carico dei Paesi ricchi la costituzione di un fondo di 100 miliardi di dollari per l’introduzione di pratiche green nelle economie emergenti. A causa della loro posizione geografica, infatti, molte di queste economie rischiano di subire i maggiori danni a seguito del cambiamento climatico.
La stampa internazionale ha interpretato questo impegno come una generosa concessione nei confronti dei Paesi in via di sviluppo, partendo dal presupposto che BRIC rappresentano insieme più del 36% delle emissioni totali, contro il 24% di Stati Uniti, UE, Giappone e Canada.
Tuttavia, secondo l’economista francese Thomas Piketty, i dati vanno interpretati in modo diverso.
Il volume delle emissioni dovrebbe essere considerato non in termini assoluti, ma in base ai consumi pro-capite. Ciò significa che in primo luogo occorre tener conto della popolazione totale di ciascuno Stato. In secondo luogo, del fatto che la produzione di beni inquinanti destinati al mercato mondiale è concentrata principalmente nei Paesi emergenti. Se si assume questo punto di vista, la graduatoria degli Stati responsabili dell’inquinamento viene capovolta. Secondo Piketty, infatti, il consumatore cinese genera un equivalente di 6 tonnellate di CO2 l’anno, in linea con la media mondiale, a fronte delle 13 di un europeo e delle 22 di un americano.

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Fig. 2 – Il riscaldamento globale, un trend da invertire al più presto

IL RUOLO DI PECHINO – Gli argomenti di Piketty trovano sostegno negli sviluppi della politica ambientale cinese. Negli ultimi due anni, nonostante un aumento del 3,3% nel PIL mondiale, vi è stato un rallentamento nelle emissioni di CO2 rispetto dieci anni precedenti nel 2014 e una diminuzione del 4% nel 2015. Questo risultato si deve in gran parte alle politiche cinesi a favore della sostituzione delle centrali a carbone.
Per contrastare il crescente malumore della popolazione per i livelli di inquinamento, Pechino si era volontariamente impegnata con le Nazioni Unite già prima della COP21, presentando un piano per la riduzione delle emissioni che prevede il loro picco nel 2030. A questo vanno aggiunti i massicci investimenti per la produzione di “energia pulita”: la Cina, infatti, è oggi il primo produttore mondiale di energia idroelettrica, eolica e fotovoltaica.

Valeria Giacomin

[box type=”shadow” align=”” class=”” width=””]Un chicco in più

Un recente studio del laboratorio di modellistica climatica dell’ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) ha prefigurato uno scenario piuttosto allarmante per il nostro Paese. Da una parte l’Italia rischia di perdere 5.500 kmq sulle coste e 60 kmq nell’area che va da Ravenna a Trieste. Venezia, Ferrara, Ravenna, Cagliari e Oristano sono i principali centri che verranno sommersi prima della fine del secolo. Nel Sud-Italia invece, le condizioni climatiche potrebbero diventare sempre più simili a quelle del Nord-Africa e la crescente diminuzione delle precipitazioni porterà una progressiva desertificazione del territorio.

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Foto: cieau

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Valeria Giacomin
Valeria Giacomin

Laurea Triennale in Finanza presso l’università Bocconi nel 2009, Double Degree in International Management con la Fudan University di Shanghai tra il 2009 e 2011 e master di secondo livello in Economia del Sud Est Asiatico presso la SOAS di Londra nel 2012. Più di due anni in giro per l’Asia e gran voglia di avventura. Tra il 2010 e il 2012 ho lavorato in Vietnam come analista, a Milano come giornalista e a Città del Capo presso una compagnia e-commerce.
Le mie aree d’interesse sono il commercio internazionale, business development e dinamiche di globalizzazione nei paesi emergenti, in particolare nel settore delle commodities agricole.
Dal 2013 sono PhD Fellow in Danimarca presso la Copenhagen Business School. Sto scrivendo la mia tesi di dottorato sull’evoluzione del mercato dell’olio di palma in Malesia e Indonesia e più in generale seguo progetti di ricerca sul settore agribusiness in Sudest Asiatico.

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