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Cambiamento climatico, la svolta di Pechino

La sensibilità dimostrata dalla Cina per le problematiche del climate change è un segno inedito che può rappresentare un vero punto di svolta nella lotta contro il riscaldamento globale. Vediamo gli impegni messi in campo dal Dragone

LE PECULIARITA’ DEL MODELLO CINESE – Quando il moltiplicatore è dell’ordine di decine di milioni e anche di centinaia di milioni gli effetti finali di un fenomeno sono imponenti anche se il dato iniziale non è molto rilevante. Per molte cose relative a produzione e consumi è il caso di Cina e India, e nonostante foto, documentari, notizie, ecc. chi non ha mai visto di persona in quei due Paesi cosa significhi “massa” di persone ha difficoltĂ  a comprendere fino in fondo la fisicitĂ  dell’effetto moltiplicatore sopra citato. Per questo molti dei dati relativi alla Cina (e all’India) che riguardano comportamenti umani vanno sempre rapportati alla loro dimensione numerica che dovrebbe dare anche l’idea dell’entitĂ  dello sforzo necessario per sviluppare o contenere un determinato fenomeno.
La Cina dal 1980 ha deciso di adottare il modello di produzione industriale “occidentale” all’interno di un quadro normativo che è stato “guidato” per gradi da parte del partito unico a partire da una struttura collettivista, alla Mao, verso una struttura sempre più vicina al sistema giuridico occidentale, senza però ancora aderirvi del tutto e senza abbandonare politicamente il ruolo guida del partito comunista. Dal punto di vista dell’azione governativa sul territorio questo sistema presenta qualche vantaggio perché il cosiddetto meccanismo del consenso è gestito e funziona con caratteri diversi dai Paesi a democrazia occidentale. In particolare nel caso delle azioni per contrastare il cambiamento climatico un’azione governativa decisa e orientata, e quindi sostanzialmente veloce, potrebbe essere un vantaggio positivo.

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Fig. 1 – L’accordo sul clima tra Obama e Xi rappresenta un possibile punto di svolta

CLIMATE CHANGE: LA SVOLTA CINESE – Nel 2015, che il governo cinese sia sensibile al problema climatico è risultato evidente dai documenti ufficiali pubblicati (30 giugno), dalla trattativa con gli USA nel settembre e infine dal ruolo svolto nella conferenza COP21 sul cambiamento climatico di dicembre a Parigi. La Cina aveva giĂ  attivato ambiziose azioni interne in ambito ambientale, ma limitate geograficamente e a titolo sperimentale; il 2015 è stato un anno di svolta perchĂ© Pechino ha deciso di attivarsi anche a livello internazionale.
Perché dal punto di vista del riscaldamento globale la situazione del pianeta è grave (i negazionisti e/o i tecnologico-ottimisti inerziali sono sempre di meno) visto che i combustibili fossili coprono ancora l’86% della domanda energetica globale e appena il 14% proviene dalle fonti rinnovabili (compreso il nucleare); è grave in particolare per la Cina, soprattutto nelle grandi città, che deve fronteggiare fenomeni di inquinamento dell’aria innegabili per evidenza e intensità. Oltre ad essere da tempo messa sul banco degli accusati per la sua quota percentuale di contributo al riscaldamento globale e anche per i suoi dati ufficiali, la cui veridicità viene contestata (www.qualenergia.it). In realtà i dati relativi a tutti i Paesi sono in ogni caso difficilmente verificabili per la diversità delle fonti, per la loro incompletezza e per la necessità di fare stime in molti ambiti.
Così la Cina è accreditata dal 24 al 30% di contributo all’inquinamento globale e gli USA dal 12 al 16%. L’India è il quarto inquinatore assoluto, ma se si fa il calcolo per abitante (ecco qui il valore moltiplicatore numerico significativo) ogni indiano contribuisce con 1,7 tonnellate di emissioni contro i 17 di un australiano, i 16,5 di uno statunitense e i 6,4 di un italiano. Per questo l’India alla COP21 si è posta come leader degli Stati che voglio crescere economicamente ponendo pragmaticamente la questione se per contenere le emissioni deve dire a 300 milioni di indiani di continuare a non avere accesso all’energia elettrica.

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Fig. 2 – Il problema dell’inquinamento in Cina sta diventando sempre piĂą pressante

GLI IMPEGNI CINESI – Il 30 giugno 2015 la Cina ha inviato un documento ufficiale al segretario della rete sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, evidenziando quanto aveva giĂ  fatto al proprio interno e quanto suggeriva di fare a livello di cooperazione mondiale in merito al problema. I cinesi danno molto peso a sostanza e forma, sono pragmatici e si muovono valutando parole e azioni; se e quando si muovono ufficialmente l’atto manifesta una intenzione che è stata meditata e che si pone degli obiettivi che intendono raggiungere, anche se sono disponibili a negoziare.
Il documento del 30 giugno (Enhanced Actions on Climate Change: China’s Intended Nationally Determined Contributions) appare significativo perchĂ©, oltre al preambolo con le dichiarazioni di intenti, consta di tre parti. Nella prima la Cina dice cosa ha giĂ  fatto; nella seconda cosa intende fare autonomamente (punti da A ad O) e nella terza (punti da A a H) indica le proposte per la conferenza di Parigi. Pubblicizzare un documento simile con mesi di anticipo (giugno) e concertare con gli USA (settembre) sono un chiaro segno che la Cina intende essere protagonista in questo campo. La stampa italiana (e quella occidentale in genere) ha affrontato sistematicamente e approfonditamente il tema del cambiamento climatico nel mese di novembre, a ridosso dell’incontro di Parigi e generalmente con valutazioni, interpretazioni, distinguo, ma con poche indicazioni concrete; solo parzialmente e occasionalmente discutendo le proposte cinesi. Una Cina vista spesso con diffidenza, con un malcelato dubbio circa la serietĂ  del suo impegno e il cui dato rilevante sembra essere sempre e solo la “nebbia” inquinata di Pechino o di altre cittĂ .
Gli USA si sono impegnati a ridurre entro il 2025 circa il 30%, rispetto al 2005, delle emissioni che incidono sul clima. Ma rimangono incerti sia i nomi dei presidenti che porteranno avanti tale progetto, sia le possibili resistenze del Congresso (a maggioranza repubblicana oggi), sia delle cosiddette lobbies dei combustibili fossili, che, secondo il FMI, a livello globale quest’anno riceveranno circa 5300 miliardi di dollari di sussidi.
La Cina si è dichiarata impegnata ad accrescere di almeno il 20% la quota di energia derivata da non fossili; ma il piano già annunciato e già iniziato di costruire circa 400 centrali nucleari lascia intendere quale sarà la direzione principale per raggiungere l’obiettivo. In ogni caso il sistema a partito unico cinese rende più credibile l’efficacia dell’azione governativa. Il piano ambientale del 30 giugno è stato approvato dal Congresso del Partito di novembre e questo significa che l’Assemblea del Popolo di marzo 2016 lo ratificherà. Anche perché l’enfasi retorica inserita nel documento è di livello alto per gli standard cinesi: “Guardando al futuro la Cina ha definito i suoi obiettivi strategici per completare la costruzione di una società moderatamente prospera entro il 2020 e per creare un Paese socialista prospero, forte, democratico, culturalmente sviluppato e armoniosamente moderno entro la metà del secolo. E ha identificato come orientamento della sua politica la trasformazione del percorso di sviluppo economico, la costruzione di una civiltà ecologica e il rafforzamento di uno sviluppo verde, a bassa intensità di carbone e fondato sul riciclo.” Certo è più volte ripetuto che tale sviluppo deve essere “consistent with its prevailing national circumstances” (coerente con le prevalenti condizioni nazionali), che rappresenta una comoda via di fuga e/o una giustificazione preventiva per l’applicazione “pragmatica” alla cinese, cioè con tempi e modalità decise da loro senza interferenze. Ma intanto Pechino ha “bonificato” (chiusura fabbriche, mantenimento di aree verdi, spostamento dei nuovi quartieri suburbani a chilometri di distanza) un’area circostante delle dimensioni della Spagna e i dati forniti delle cose già fatte in Cina nel documento del 30 giugno non sono in discussione.

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Fig. 3 – Gli impegni presi alla COP 21 saranno mantenuti?

UN RUOLO SEMPRE PIU’ IMPORTANTE? – Un gruppo di scienziati e di economisti ha sottoscritto e proposto un Programma Apollo suggerendo un investimento di 15 miliardi di dollari annui destinati alla ricerca delle tecnologie low-carbon, perchĂ© è necessario spezzare il legame tra prosperitĂ  e combustibili fossili, e per fare questo è necessario trasformare la tecnologia e si deve garantire il sostegno economico alla ricerca. Si tratta dello 0,02% del PIL mondiale, quando le societĂ  che producono impianti eolici e solari giĂ  spendono il 2% in ricerca, l’elettronica di consumo il 5% e il farmaceutico il 15%.
Il documento cinese di giugno, nella terza parte propositiva, ribadiva il distinguo tra developed e developing countries, attribuendo i compiti agli uni e agli altri in modo abbastanza preciso. Pur con una definizione (sviluppati/in via di sviluppo) che il nostro politically correct tende a non usare più, almeno in Europa, quello che conta è il tentativo di sottolineare la complementarità dell’azione tra i due soggetti sottolineando che da una parte ci sono soldi e tecnologia e dall’altra un desiderio di benessere che se deve orientarsi verso un modello più verde necessita di aiuto e che i Paesi più ricchi mostrino concretamente (al loro interno e con l’aiuto finanziario ai più deboli) che il modello verde è diverso dal modello di produzione industriale finora proposto come via obbligata alla “crescita”.
A leggere le sintesi del documento finale dell’incontro COP21 di Parigi (approvato da 196 parti: 195 stati e la UE) sembra che questo quadro concettuale sia stato accettato. Ma ancora di più i punti relativi al finanziamento di 100 miliardi di dollari per la ricerca e per il sostegno alla diffusione delle “nuove” tecnologie anche nei paesi “developing”. Rispetto alla proposta del Progetto Apollo tale fondo, purtroppo, si attiverà solo tra 5 anni.
Ma confrontando le sintesi giornalistiche e il documento cinese è innegabile la corrispondenza, almeno degli intenti, in molti punti. E tra le cose positive più sottolineate c’è stata la decisione di mettere mano ai soldi da parte degli stati che sarà un incentivo all’attivazione di finanziamenti privati verso la ricerca di tecnologie verdi ed ecocompatibili. COP21 è il primo documento approvato da un numero così grande di stati sul tema ambientale. La negoziazione multilaterale, la mancanza di sanzioni per chi non raggiungerà gli obiettivi che sono stati fissati genericamente (tutti sanno che raggiungere i 2 gradi massimi di contenimento del riscaldamento necessita di sforzi maggiori) e sono soggetti e ulteriore definizione, la considerazione delle situazioni interne contingenti, sono tutti punti tipici dell’approccio cinese, esplicitato chiaramente nel documento di giugno.
Ma se si è arrivati alla firma da parte di così tanti stati significa che c’è un orientamento comune diffuso sul problema del cambiamento climatico, in cui la Cina intende avere un ruolo rilevante: un soft power orientato a fin di bene. Certo il Costa Rica, 4 milioni di abitanti, può permettersi più facilmente di essere per 75 giorni “carbon free”. Per la Cina il compito è molto più arduo, ma sembra intenzionata a raggiungere l’obiettivo dichiarato. 

Fabrizio Eva

[box type=”shadow” align=”” class=”” width=””]Un chicco in piĂą

Fabrizio Eva è un Geografo Politico. Insegna Geografia Politico-Economica presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati dell’Università “Ca’ Foscari” di Venezia.

Potete rileggere qui tutti gli articoli pubblicati nell’ambito dello speciale “Comprendere la Cina – Oltre la prospettiva occidentale”.

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Foto: theglobalpanorama

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