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Cambiamento climatico: guida alla CoP 21 di Parigi

Cosa c´è da sapere sulla ventunesima edizione della Conferenza delle Parti (COP21), il più importante evento annuale delle Nazioni Unite sul Clima, che si terrà quest’anno a Parigi dal 30 Novembre al 10 Dicembre? Dopo i “nulla di fatto” delle ultime edizioni quest’anno sembra esserci più ottimismo nell’aria. Scopriamo perché e se è giustificato. 

COS’È LA COP 21 – A breve, la capitale francese ospiterà quello che ci si aspetta essere un incontro storico per le sorti del clima mondiale. Ne avevamo parlato qui. L’iniziativa venne proposta per la prima volta nel 1992 durante l’Earth Summit delle Nazioni Unite a Rio De Janeiro, per poi diventare un appuntamento ufficiale dal 1994. Il primo accordo vincolante o “protocollo” per la riduzione delle emissioni disegnato a Kyoto nel 1997, sarebbe dovuto entrare in vigore in due tappe: nel 2005 e nel 2012. Sin dal 2005 molti Paesi, capitanati dagli Stati Uniti, fecero marcia indietro, mentre altri, come il Giappone, si ritirarono nel secondo round tre anni fa, dopo che l’incontro di Copenhagen nel 2009 (e le edizioni successive) si risolse in un nulla di fatto. Già nel 2009 “l’atlas of pollution” riportava riduzioni da parte di tutte le macro regioni globali tranne Asia (a causa di Cina, India e Korea del Sud) e Medio Oriente. Per ora, i risultati migliori sono stati ottenuti da UE e Russia, ma i termini posti da Kyoto scadranno – largamente disattesi – nel 2020. Da qui la necessità di formulare un nuovo accordo globale che prenda il via dal 2020 e che restringa le concessioni fatte ai Paesi in via di sviluppo, tenendo conto di com’è cambiata la loro posizione negli ultimi vent’anni.

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Fig. 1 – Grande attesa a Parigi per la CoP 21

IL CLIMA FINO AL 2015 – Sin dalla prima rivoluzione industriale alla fine del ‘700, il processo di industrializzazione e la crescita demografica a livello globale hanno provocato il costante innalzamento della temperatura dell’atmosfera del nostro pianeta, attraverso l’emissione di diossido di carbonio (CO2) e altri gas serra (i principali N2O e CH4). Secondo le stime degli esperti, se si continua così nel 2100 la temperatura media salirà di circa 6.4° rispetto a oggi. Ciò avrà ripercussioni devastanti sugli equilibri climatici del nostro pianeta causando alluvioni, ondate di calore, siccità; lo scioglimento dei ghiacci e il conseguente innalzamento del livello del mare porteranno alla sparizione di stati insulari come le Maldive o la Micronesia. Gli studi concordano infatti che ogni innalzamento superiore ai 2.0° poterà variazioni ambientali irreversibili. Rispetto a Kyoto molte cose sono cambiate – soprattutto la condizione di molti Paesi che, come la Cina, nel 1997 erano ancora nelle prime fasi del processo di industrializzazione mentre ora hanno raggiunto una maggiore stabilità. Dunque è arrivato il momento di introdurre un nuovo programma che ponga degli obiettivi di medio termine e cioè fino al 2030.

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Fig. 2 – Gli Stati si sono impegnati a ridurre sensibilmente le proprie emissioni di CO2

DA LIMA A PARIGI – Qualche settimana fa l’UNFCC ha pubblicato la bozza degli accordi preliminari che è stata preparata negli incontri tra i negoziatori degli stati membri, che hanno avuto luogo negli ultimi 12 mesi a Bonn in Germania. Secondo The Guardian, purtroppo, nonostante i numerosi tentativi fatti a giugno per far quadrare una voluminosa bozza di 90 pagine, l’ultimo incontro prima della conferenza avrebbe prodotto solo cinque pagine definitive, il che crea molta pressione sui negoziatori per riuscire a trovare un accordo durante i 10 giorni in cui si svolgerà la Conferenza di Parigi. La preoccupazione principale nasce dal fatto che gli impegni presi dai diversi Paesi non sembrano abbastanza stringenti per impedire il superamento dell’obiettivo dei due gradi. A portare una nota di ottimismo vi è che, in occasione di incontri preliminari bilaterali, Stati Uniti, Cina e Brasile hanno dichiarato di voler contribuire alla riduzione delle emissioni. Solo marketing? Per quanto riguarda la Cina, forse a causa della crescente preoccupazione della popolazione e dei media internazionali per le condizioni climatiche, Pechino si è già impegnata formalmente presentando alle Nazioni Unite un piano di riduzione delle emissioni accompagnato dalla promessa che queste raggiungeranno il picco entro il 2030. D’altra parte Stati Uniti e Brasile contano di produrre almeno il 20 % del loro fabbisogno energetico mediante energie rinnovabili. A settembre la Casa Bianca ha rilasciato una dichiarazione congiunta con Pechino a seguito della visita di Xi Jinping secondo cui i due Paesi riconoscono l’urgenza di una cooperazione sul clima. Sulla scia degli ultimi sforzi statunitensi, sembra che una possibile cooperazione possa ruotare intorno allo sviluppo di nuove tecnologie, ma il documento non specifica quali saranno i termini dell’accordo.

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Fig. 3 – Matteo Renzi sarà a Parigi lunedì 30 per illustrare gli impegni italiano contro il cambiamento climatico

COSA CI SI ASPETTA DA PARIGI 2015 – Nonostante le sfide sul tappeto, ci si aspettano grandi cose dall’incontro di Parigi, principalmente perché si è arrivati alla consapevolezza che fino a ora non si è fatto abbastanza e la necessità di agire è ormai evidente all’opinione pubblica, sensibilizzata da attori importanti come Greenpeace. Un punto cruciale per i Paesi dell’UE, con la Francia che fa da padrona di casa, consiste nel mettere d’accordo Stati Uniti e Cina al di là delle dichiarazioni rilasciate negli ultimi mesi. Essendo i maggiori produttori di emissioni i due colossi mondiali devono trovare una strategia comune che non danneggi la competitività dell’uno piuttosto che dell’altro. Interesse dell’Europa (e delle Nazioni Unite in generale) è che si arrivi ad un accordo vincolante, che invece gli Stati Uniti stanno cercando di evitare, come si è capito dalle recenti dichiarazioni del segretario di stato Kerry. Inoltre, come spesso è accaduto in passato, se è vero che la bozza contiene la previsione di un aumento di 2°C  della temperatura media del pianeta come limite massimo, ancora non è chiaro quali saranno le strategie che i vari Stati saranno in grado di implementare per raggiungere un simile risultato.  Infine, la bozza è ancora molto vaga per quanto riguarda la responsabilità dei Paesi in via di sviluppo, che giocano un ruolo chiave per la riduzione delle emissioni. A Copenhagen, i Paesi sviluppati si erano impegnati a versare 100 miliardi di dollari all’anno ai Paesi in via di sviluppo per la realizzazione di politiche green, ma secondo le ultime stime, questa cifra potrebbe non essere abbastanza.

Valeria Giacomin

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Un chicco in più

A causa dei recenti attentati le condizioni di sicurezza a Parigi saranno rafforzate, tuttavia gli organizzatori della conferenza tramite un comunicato rilasciato a metà novembre hanno fatto sapere che proprio in segno di solidarietà nei confronti delle famiglie vittime, non ci sarà alcun cambiamento per quanto riguarda lo svolgimento della conferenza – anzi lasciare invariato il programma rappresenta un modo per dimostrare che il terrorismo non distoglierà il mondo da grandi tematiche come gli equilibri climatici futuri. Lo Stade de France, in particolare, ospiterà il Sustainable Innovation Forum il 7 e 8 dicembre.

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Foto: UNHCR

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Valeria Giacomin
Valeria Giacomin

Laurea Triennale in Finanza presso l’università Bocconi nel 2009, Double Degree in International Management con la Fudan University di Shanghai tra il 2009 e 2011 e master di secondo livello in Economia del Sud Est Asiatico presso la SOAS di Londra nel 2012. Più di due anni in giro per l’Asia e gran voglia di avventura. Tra il 2010 e il 2012 ho lavorato in Vietnam come analista, a Milano come giornalista e a Città del Capo presso una compagnia e-commerce.
Le mie aree d’interesse sono il commercio internazionale, business development e dinamiche di globalizzazione nei paesi emergenti, in particolare nel settore delle commodities agricole.
Dal 2013 sono PhD Fellow in Danimarca presso la Copenhagen Business School. Sto scrivendo la mia tesi di dottorato sull’evoluzione del mercato dell’olio di palma in Malesia e Indonesia e più in generale seguo progetti di ricerca sul settore agribusiness in Sudest Asiatico.

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