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Rifugiati, l’Europa in cerca di una risposta

In 3 sorsi Sulla rotta balcanica passano ogni giorno migliaia di persone in cerca di asilo, mentre i leader europei faticano a trovare una risposta comune sull’accoglienza dei rifugiati.

1. LA ROTTA BALCANICA – È il fronte orientale, da sempre, la spina nel fianco dell’Europa. E così è stato anche alla fine di questa calda estate, quando l’esodo di migliaia di profughi sulla rotta balcanica ha portato i leader europei a ridiscutere non solo le basi dell’attuale politica comunitaria di immigrazione e asilo, ma anche i principi fondanti di questa Unione. Dalle campagne macedoni, serbe e ungheresi ci arrivano costantemente le immagini di fiumi di persone che scorrono verso Nord, verso l’Europa, a chiedere asilo. Premono ai cancelli dell’area Schengen, scavalcandone il filo spinato, seguendo i binari di un treno che forse si ferma a Budapest.
La rotta balcanica, che segue quella del Mediterraneo orientale attraverso la Turchia, la Grecia e la Serbia, è sempre stata una tra le più battute. È caratterizzata, in particolare, da due flussi migratori distinti: uno interno, di persone provenienti dai Balcani stessi e per lo più dal Kosovo, e l’altro composto da migranti che arrivano dall‘Asia e dal Medio Oriente. Sono soprattutto siriani, afghani e iracheni. Negli ultimi anni, sempre più numerosi sono anche i somali o le persone provenienti dall’Africa sub-sahariana. Secondo i dati di Frontex, il servizio di controllo delle frontiere dell’Unione Europea, la rotta dei Balcani orientali è quella che dal 2011 ha registrato il maggiore incremento relativo di passaggi illegali da parte di nazionali siriani e somali. Ed è in particolare il confine serbo-ungherese a conoscere un aumento senza precedenti dei flussi migratori in transito. Ciò che sta accadendo si spiega non solo con l’inasprirsi dei conflitti locali, che spingono queste persone ad abbandonare i propri Paesi di origine, ma anche come la conseguenza diretta di politiche ben precise nei paesi di transito verso l’Europa. Se la Turchia, per prima, ha liberalizzato il proprio regime dei visti, il Governo macedone ha di recente approvato una modifica al proprio regolamento sull’accoglienza, nonostante le autorità abbiano bloccato la frontiera con la Grecia per diversi giorni. In base a questa riforma, ai richiedenti asilo viene assegnato un visto provvisorio che garantisce il libero transito nel territorio macedone per 72 ore. Anche la Serbia si è adattata a questo tipo di principio. Tuttavia quella di Belgrado è una situazione particolare.

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Fig. 1 – Migranti siriani chiedono di entrare alla frontiera ungherese

2. LA SITUAZIONE SERBA – La Serbia si trova al crocevia di tre Paesi che fanno parte dell’Unione europea, cioè la Croazia, l’Ungheria e la Bulgaria. È quindi l’anticamera di quella che per i profughi è la speranza di una vita dignitosa, oltre quelle terre che ancora ricordano gli eventi di vent’anni fa. Quando a crollare fu la Jugoslavia, più di due milioni di persone scapparono verso l’Europa occidentale, e furono circa 375.000 i rifugiati che si riversarono verso Belgrado. Nel 1996 in Serbia si contavano 700 centri di accoglienza per profughi, che nel 2002 erano scesi a 388 e ospitavano 26.863 persone. Ad oggi ci sono 18 di questi centri collettivi in attività, ma l’UNHCR stima che in totale vi siano ancora 88.000 sfollati (Internally Displaced People) che necessitano di assistenza. Oltre ai rifugiati croati e bosniaci, la questione più complessa è rappresentata dallo status delle popolazioni Rom, i cui diritti non sono riconosciuti completamente. Forse è anche per questo che il Governo del Primo ministro Vučić, in contrasto con quelli dei Paesi vicini, ha mantenuto un profilo piuttosto basso nella gestione dell’emergenza attuale. Non vi sono stati scontri con le autorità, o scene come quelle che si sono viste a Kos (Grecia) e in Macedonia, di gente caricata con i getti d’acqua o picchiata per strada. Sono stati invece allestiti quattro campi di accoglienza vicino ai confini del Paese per fornire una prima assistenza ai migranti, con cibo, acqua e informazioni. Ma la Serbia è un Paese piccolo. Gli agricoltori già lamentano che il passaggio continuo di persone attraverso i campi avrà nette conseguenze sulla produttività. E ciò può divenire insostenibile per un’economia che si fonda ancora in larga parte sul primo settore. Come in Turchia, nella Repubblica di Macedonia, in Grecia e in Bulgaria, si attende solo che i profughi escano dal Paese il più rapidamente possibile. Verso Nord, oltre il muro ungherese.

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Fig. 2 – Viktor Orbán, leader conservatore dell’Ungheria

3. COSA FA L’EUROPA? – Il Governo conservatore di Budapest si è distinto per una gestione discontinua e una linea dura sull’assistenza ai richiedenti asilo. Il muro di 175 km lungo il confine meridionale, voluto per contrastare gli ingressi illegali nel Paese, è stato completato nel corso dell’estate. Eppure, una legge introdotta nel 2013 che ha emendato i regolamenti sull’immigrazione ha permesso la creazione di centri di identificazione aperti, da cui i richiedenti asilo si allontanano facilmente per proseguire il loro cammino verso l’Europa occidentale. Alla stazione di Keleti, nel centro di Budapest, si sono ammassate centinaia di persone in attesa di raggiungere le altre capitali europee. Il traffico dei treni è stato dapprima dirottato e in seguito sospeso nelle sue tratte internazionali. Da alcuni giorni l’Ungheria ha chiuso le sue frontiere e arresta chiunque sosti illegalmente nel Paese. Nel frattempo la Germania ha dichiarato la sospensione della convenzione di Dublino, garantendo il diritto di asilo anche a quanti fossero già stati registrati all’ingresso negli altri Paesi europei. Il Primo ministro ungherese Viktor Orbàn, da sempre ferreo su posizioni ultra conservatrici, l’ha espresso chiaramente: i profughi sono un problema dell’Europa. La stessa Europa che si è vista di colpo richiamata a porre in discussione i propri principi fondanti e la propria credibilità politica. Il vertice di lunedì 14 settembre tra i rappresentanti degli Interni di tutti gli Stati membri non ha sortito gli effetti sperati. Si fatica a trovare un accordo, non tanto sulla creazione di hotspot lungo le frontiere esterne dell’area Shengen che permettano una più veloce identificazione delle persone, quanto sulla redistribuzione dei rifugiati. La risposta dei singoli Stati è stata intermittente e poco decisa. Per questo mai come ora è necessario trovare una soluzione condivisa per un’emergenza largamente prevedibile. E, intanto, centinaia di persone disperate stanno camminando verso il confine, per raggiungere l’Europa a piedi.

Elena Bellitto

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Un chicco in più

Per chi volesse approfondire la questione delle rotte migratorie che interessano l’Europa, consigliamo di consultare il sito di Frontex, il servizio di controllo esterno delle frontiere europee, qui.

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Foto: FreedomHouse

Foto: Diego Cupolo

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Elena Bellitto
Elena Bellitto

Classe 1989, ho fatto in tempo a nascere in una cittadina tedesca vicino a Colonia poco prima della caduta del Muro. Laureata in Scienze Internazionali e diplomatiche con una specializzazione in Cooperazione allo Sviluppo, mi occupo principalmente di sviluppo sostenibile, migrazioni e geopolitica nell’area Mediterranea.  Dopo diverse esperienze all’estero, ora vivo a Torino sotto la Mole e non disdegno la fotografia  e il design. Un giorno parlerò 10 lingue e imparerò a cucinare le lasagne.  Per ora, scrivo.

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