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Yemen: la fine non è in vista

Dopo cinque mesi di bombardamenti l’Alleanza guidata dall’Arabia Saudita ha festeggiato la prima vera vittoria in Yemen. Aden, trasformata in città fantasma dopo i combattimenti, è stata liberata.
I messaggi di vittoria di Riyadh sono però prematuri: la milizia Houthi non è stata sconfitta e le crepe nell’alleanza saudita stanno mostrando le prime falle.

LA BATTAGLIA DI ADEN – Agosto ha visto un cambiamento fondamentale nella guerra: le forze Houthi sono state costrette a ritirarsi per la prima volta dall’inizio del conflitto, incalzate dalle forze leali all’ex Presidente Hadi. Decisivo  è stato l’intervento di truppe degli Emirati più che delle milizie yemenite. Una divisione corazzata è penetrata in Yemen con centinaia di mezzi e almeno tremila uomini tra sauditi e soldati del Golfo. Queste forze, che hanno permesso la riconquista delle province di Lahj e Ibb e della città di Lawder, potrebbero però non essere sufficienti per mettere la parola fine al conflitto.

DEBOLEZZE DELLA COALIZIONE – La promessa di una veloce liberazione di Sana’a (otto settimane) e il rifiuto di considerare anche solo la possibilità di un negoziato con gli Houthi è stata prematura, sia per ragioni strategiche che per la fragilità stessa dell’alleanza. Per quanto riguarda le prime, la forza degli Houthi non è mai stata nel sud del Paese, ma nel nord, dove hanno il sostegno di buona parte della popolazione (complici le azioni saudite). Dopo cinque mesi di bombardamenti su aree civili e la distruzione deliberata di monumenti storici, anche coloro che si opponevano agli sciiti sono disposti a unirsi a loro pur di cacciare le truppe di Riyadh. La battaglia per Sana’a, se non ci saranno accordi tra le parti, si annuncia, secondo le parole di Ibrahim Fraihat, analista politico del Brookings Doha Centre, «lunga, brutale e mortale». Gli Houthi, infatti, hanno compensato la perdita di territori nel sud lanciando attacchi in suolo saudita anche con lancio di missili Scud. Questo, tra l’altro, potrebbe rallentare o addirittura bloccare il tentativo di Riyadh di aprire un fronte a Marib, dal quale – secondo alcune fonti – gli uomini di Hadi potrebbero tentare un attacco alla capitale stessa.

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Fig. 1 – Un deposito di munizioni degli Houthi colpito dagli aerei della coalizione

SPACCATURE TRA ALLEATI – L’alleanza anti-Houthi è nata con l’obiettivo di espellerli da Aden, ma è sempre mancata una visione comune sull’obiettivo finale. Riyadh e i suoi alleati internazionali vorrebbero un ritorno allo Stato nato nel 1990 con Hadi come presidente. Su questo, soprattutto i sauditi, hanno scommesso la loro immagine di potenza regionale, e fermarsi prima sarebbe una sconfitta. D’altra parte al-Hirak (il Movimento indipendentista del sud), i cui membri hanno combattuto ad Aden negli ultimi cinque mesi, non ha alcun interesse a raggiungere la capitale. Come molti commentatori hanno fatto notare, i cittadini di Aden non combattevano per Hadi o per i Sauditi ma per le proprie case. È quindi probabile che al-Hirak sia più interessato a consolidare la propria posizione nel sud che a combattere gli Houthi a Sana’a o, peggio ancora, nel loro territorio, a Sa’ada. La notizia dell’espulsione dalla città portuale di combattenti pro-sauditi rafforza tale ipotesi.
La perdita di quest’alleato, importante non solo per i suoi numeri ma per la conoscenza del territorio, si aggiunge alla riluttanza di buona parte degli alleati internazionali a ricoprire un ruolo più attivo nella campagna. Fino a oggi le uniche truppe sul campo sono saudite ed emiratine e sono composte perlopiù da coscritti, non da soldati professionisti. Gli altri membri della coalizione si limitano a dare supporto aereo e/o contribuire al blocco navale. Questa scelta esaspera i sauditi, che sanno bene che cinquemila uomini (tremila uomini tra sauditi ed emiratini più duemila yemeniti in corso di addestramento) non sono sufficienti per la riconquista del Paese.

I VINTI – Mentre nessun vincitore è ancora emerso chiaramente, gli sconfitti sono evidentemente i civili. Il conto dei morti è a oggi fermo alle 4500 unità di cui almeno la metà civili. Inoltre, secondo l’ONU, almeno l’80% della popolazione ha bisogno di aiuto: da marzo l’Arabia Saudita ha imposto il blocco navale impedendo l’arrivo di medicinali, acqua e cibo. Il bombardamento di porti e aeroporti per impedire l’eventuale arrivo di armi iraniane, ha reso impossibile l’arrivo anche degli aiuti umanitari. Stando a Medici senza Frontiere, almeno tredici dei ventuno milioni di abitanti soffrono la fame e il rischio di carestia è altissimo. La popolazione sta soffrendo enormemente anche a causa dei bombardamenti indiscriminati (o comunque molto imprecisi) che colpiscono anche zone residenziali, ospedali e moschee. La distruzione dell’ospedale di Hodeydah, il 25 agosto, ha fatto decine di vittime e ne è un triste esempio.

I VINCITORI – Al-Qaeda al momento è l’unico vincitore di questa campagna. A causa delle pecche della gestione saudita, talvolta volontariamente indifferente al problema, il gruppo si è rafforzato nella regione dell’Hadramawt, confinante col Regno, conquistandone la capitale al-Mukalla. Lì ha cominciato a distruggere monumenti storici come il Santuario Habib ibn Saleh. Più preoccupante ancora è la notizia della caduta in mano qadeista di alcuni quartieri di Aden. La decisione di tollerare la presenza di Aqap (Al-Qaeda nella penisola arabica) ricorda la situazione siriana, dove i Sauditi hanno apertamente sostenuto il gruppo al-Nusra, affiliato ad Al-Qaeda, contro Assad. La decisione potrebbe ritorcersi con Riyadh, perché da lì i jihadisti potranno facilmente lanciare attacchi contro il Regno stesso.

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Fig. 2 – Evacuazione di civili da un ospedale in Yemen

CONCLUSIONI – La situazione è solo apparentemente cambiata con l’uscita dei lealisti da Aden. Gli Houthi non sono stati messi alle corde e i sauditi non hanno al momento i numeri sul campo per condurre un attacco su Sana’a e conquistarla. Portare nuove truppe sul campo confermerebbe quanto la maggioranza degli yemeniti già pensa, ovvero che l’intervento saudita diventi una vera occupazione. L’alternativa potrebbe essere una nuova divisione in due del Paese e il raggiungimento di un cessate il fuoco tra le parti. Tuttavia una soluzione politica appare al momento improbabile perché entrambe le parti vorrebbero poter partire da una vittoria sul campo per iniziare i colloqui in posizione favorevole. È possibile, dunque, che solo se la battaglia per Sana’a non sarà risolutiva, Houthi e Hadi saranno disposti ad accordarsi. Il rischio è che alla fine chiunque vinca si troverà a governare solo su macerie.

Veronica Murzio

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Un chicco in più

Una delle cose che colpisce di più del conflitto in Yemen è il silenzio assordante dei media e dei Governi occidentali riguardo le vittime non combattenti, circa 2300.
«Gli Houthi controllano il terreno. E se stai combattendo tra i civili, disseminando ovunque i tuoi checkpoint, allora sei responsabile delle vittime». Con queste parole il generale Saudita Ahmed Assiri scaricava l’intera responsabilità delle morti civili sulle spalle dei ribelli Houthi. Se un altro generale, ad esempio israeliano o occidentale, avesse liquidato la questione con questa frase, le ripercussioni a livello mediatico sarebbero state enormi.
In Yemen, secondo i rapporti di Amnesty International e Human Right Watch, l’uccisione dei civili è deliberata. Distruzioni di ospedali, moschee e scuole sono state giustificate dal fatto che “era risaputo “ che i ribelli usassero quegli edifici come depositi d’armi. La devastazione di luoghi ben lontani dalla linea del fronte come Sa’ada, roccaforte degli Houthi nel profondo nord del Paese, dichiarata “obiettivo militare” in maggio, ha più un sapore punitivo che strategico.
L’uso di armi particolarmente nocive e non selettive come le bombe a grappolo o gli ordigni al fosforo e al cloro usate a Sana’a, Saada e Haja, ha portato alla denuncia degli attacchi da parte di numerose ONG. Ma l’Arabia Saudita non ha firmato né la Convenzione ONU che bandisce le cluster bombs, né quella che bandisce l’utilizzo di armi chimiche ,ed è pertanto difficile limitarne l’utilizzo. Inoltre, il mancato intervento del Consiglio di Sicurezza non aiuta di certo a garantire una buona condotta. L’uccisione indiscriminata di civili al di fuori della linea del fronte, come successo a Mokha (65 persone di cui 10 bambini) e Taiz (21 persone) non ha prodotto alcun tipo di proteste.
In parte la differenza di attenzione ricevuta da queste stragi rispetto, per fare un parallelo, a quelle di Gaza nel 2014, può essere spiegata da una parte con la decisione dei maggiori media arabi di accettare la vulgata saudita della vicenda, per scelta o per pressioni politiche, e dall’altra con la voluta cecità occidentale. Quest’ultima è dovuta, a livello governativo, dalla corresponsabilità di alcuni Paesi (Stati Uniti e Gran Bretagna in primis) che hanno venduto e continuano a distribuire armi ai sauditi dietro assicurazione – da parte saudita – che non sarebbero state usate in Yemen. A livello di opinione pubblica la guerra è sentita come lontana rispetto alla Libia e alla Siria e lascia molti indifferenti. Questa poca lungimiranza, però, potrebbe diventare un boomerang ,giacché la guerra in corso avrà come primo risultato una nuova ondata migratoria verso il Nord del mondo. E in questi giorni la notizia che in Libia è stato proibito l’ingresso dai profughi provenienti dallo Yemen è un segno che il primo flusso è in arrivo.  L’imposizione di un cessate il fuoco e l’invio immediato di aiuti per la ricostruzione potrebbe arginare tale situazione e impedire che il flusso di migranti in arrivo in Europa si arricchisca anche dei profughi yemeniti.

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Veronica Murzio
Veronica Murzio

Sono nata nel 1979 e mi sono laureata presso l’Università di Padova con una tesi sui rapporti tra il tribalismo e l’Imamato nello Yemen contemporaneo. Ho vissuto lì per sette mesi studiando l’arabo e la cultura locale dopo la laurea. Partire e lasciarlo mi ha spezzato il cuore nonostante sia uno dei Paesi più problematici dell’area.Ho lavorato come traduttrice letteraria al mio rientro in Italia prima di completare i miei studi con un Master in Studi Mediterranei presso l’Università di Firenze dove ho approfondito la Geopolitica della regione MENA e mi sono addentrata nello studio della Legge Islamica. Ora lavoro per i Musei della mia città, Vicenza.

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