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Ki(vu) c’è dietro?

A partire dai primi giorni dello scorso aprile, si è assistito ad una intensificazione degli scontri nel Nord Kivu, regione orientale della Repubblica Democratica del Congo (RDC), al confine con il Ruanda. Protagonisti delle operazioni militari in questione sono l’esercito regolare congolese, da una parte, e un nuovo movimento ribelle chiamato “M23”, dall’altra. Ma le rivendicazioni portate dai dissidenti, di natura prettamente militare e politica, non sembrano sufficienti a fornire una spiegazione valida e completa della crisi che attraversa in queste ore il paese. Chi sono questi “nuovi” gruppi di ribelli e, soprattutto, cosa (e chi) c’è dietro?

NORD KIVU, 4 APRILE 2012 – Un gruppo di circa 300 soldati, in passato appartenenti alla milizia chiamata Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (CNDP), si distacca e si ribella all’esercito regolare congolese, le FARDC (Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo). Vi erano stati integrati soltanto nel 2009, con gli accordi di pace di Goma. Guidato dal colonnello Sultani Makenga, il nuovo gruppo dissidente, noto come M23 (“Movimento del 23 marzo”), chiede trattative con il governo di Kinshasa per completare la realizzazione di quegli accordi, firmati il 23 marzo 2009. In maggio, l’M23 muove verso Runyoni, punto strategico nel Parco Nazionale di Virunga, dove si incontrano i confini di Uganda, Ruanda e RDC. A metà giugno, un altro gruppo di dissidenti lascia l’esercito e si affianca all’M23, sotto la guida del generale Bosco Ntaganda, ex leader del CNDP ricercato non solo dal governo, ma anche dalla Corte Penale Internazionale, per crimini contro l’umanità. Gli scontri con gli uomini schierati dal presidente Joseph Kabila portano, dalla ripresa delle ostilità ad oggi, a circa 300.000 sfollati. Ma è lo scorso weekend che la situazione degenera ulteriormente, con i ribelli che occupano numerosi centri strategici, tra cui Bunagana (6 luglio), sul confine ugandese, e Rutshuru (8 luglio), capoluogo del distretto omonimo, che dista solo 70 km dalla città di Goma, capoluogo del Nord Kivu. Questi ultimi sviluppi ricordano da vicino quelli del 2008, quando il CNDP non fu molto lontano dal prendere il controllo di Goma. La risposta delle FARDC e dei caschi blu della Missione delle Nazioni Unite in Congo (MONUSCO), inizialmente presi di sorpresa, non si fa attendere, e giovedì 12 luglio alcune basi appartenenti ai ribelli vengono bombardate. L’M23, per bocca del suo leader, ha detto di voler evacuare le città occupate, con l’eccezione di Bunagana. Se, apparentemente, ciò potrebbe denotare una reale intenzione di riprendere i negoziati con Kinshasa, in realtà tale dichiarazione indica, non troppo implicitamente, che il gruppo è interessato a mantenere il controllo sul commercio minerario della regione, essendo Bunagana una centro di transito di primaria importanza.

COSA C’È DIETRO – La revisione dei negoziati del 2009 è infatti solo uno dei motivi alla base dei recenti combattimenti, la cui dimensione non può essere limitata all’ottica di un confronto tra milizie. L’elemento centrale è, di fatto, la disputa tra attori locali e regionali per l’accesso e lo sfruttamento delle risorse minerarie presenti nel sottosuolo. La RDC è, notoriamente, uno dei paesi dell’Africa e del mondo più ricchi di risorse naturali: oro, petrolio, gas, diamanti. Ciò è vero soprattutto in riferimento alle regioni orientali: ogni anno nel Kivu, per esempio, si estrae più dell’80% di tutta la produzione mondiale di coltan (fondamentale nella moderna tecnologia, dai telefoni cellulari ai sistemi d’arma). Il passo ad alimentare i circuiti illegali di contrabbando è breve: l’incapacità di amministrazione da parte di Kinshasa lascia infatti spazio a ingerenze di diversa natura. La RDC è un immenso stato multietnico, senza un’etnia dominante, neanche all’interno delle singole regioni. Su questo elemento, da solo sufficiente a generare tensioni, s’innesta una carente struttura istituzionale con un governo incapace di esercitare la propria sovranità sull’intero territorio nazionale. Questo vale, in particolare, per Goma e il Nord Kivu, separati dalla capitale Kinshasa, tra le altre cose, dall’impenetrabile foresta pluviale congolese e da infrastrutture pressoché inesistenti.

UN ULTERIORE TASSELLO: L’ETNICITÀ – A complicare ulteriormente la già difficile situazione del Nord Kivu, la questione etnica. Dopo che i ribelli Tutsi del Fronte Patriottico Ruandese (FPR) rovesciarono il governo Hutu in Ruanda, in seguito al genocidio del 1994, centinaia di migliaia di Hutu, inclusi molti tra coloro che si erano resi protagonisti delle atrocità, attraversarono il confine verso il Congo orientale. Alcuni di questi diedero vita alle Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR), milizia che esiste ancora oggi, e che due volte ha spinto Kigali a inviare truppe in Congo. Le radici dell’M23, composte da soldati Tusi e guidate da ufficiali Tutsi, sono legate a doppio filo con questa storia. Uno dei leader, Bosco Ntaganda, combatté con il FPR durante il 1994, e servì come leader il CNDP, gruppo nato nel 2006 con l’intento dichiarato di proteggere i Tutsi del Nord Kivu dalle FDLR (che, a loro volta, hanno ripreso in mano le armi in questi giorni).

GLI INTERESSI DEL RUANDA – Il discorso etnico, unitamente a quello della debolezza statale e della disputa per il controllo delle risorse minerarie, introduce così il vero attore protagonista della regione, e cioè lo stato del Ruanda. Un M23 (che condivide l’appartenenza etnica con la leadership ruandese) a capo di Goma e del Nord Kivu non può essere che un beneficio per Kigali, abile, oggi come ieri, a sfruttare a suo vantaggio il vuoto di potere. L’ipotesi di un suo diretto coinvolgimento nel sostegno del movimento è sempre più avvalorata, se non certa. Rapporti dell’ONU, di Human Rights Watch e dei servizi di sicurezza congolesi sostengono che elementi di spicco nell’esercito ruandese, incluso il Ministro della Difesa James Kabarebe, stiano appoggiando l’M23, attraverso il reclutamento, l’addestramento e l’equipaggiamento dei suoi membri. Guarda caso, il Nord Kivu, con il coltan e tutte le sue materie prime, è collocato proprio al confine ruandese. L’idea di appoggiare le rivendicazioni dei ribelli congolesi, in cambio del controllo delle stesse risorse minerarie, non è nuova a Kigali. Anzi, storicamente, il Ruanda ha saputo sempre trattare con i ribelli del Congo, supportandoli ogniqualvolta Kinshasa o le FDLR diventassero troppo potenti, e ritirando il sostegno ad allarme cessato. I nuovi disordini hanno portato di certo ad un deterioramento dei rapporti tra i due presidenti, Kabila e Kagame, nonostante i due leader avessero firmato un accordo di collaborazione per combattere congiuntamente i ribelli delle regioni orientali. Ma l’attuale politica ruandese del “piede in due scarpe” (appoggio ai dissidenti congolesi e contemporanee trattative con il governo della RDC) è senz’altro funzionale agli interessi di Kigali: maggiore è la destabilizzazione del Kivu, più facili sono l’acquisizione illegale delle ricche risorse minerarie e il mantenimento della propria influenza nella regione.

Giorgio D’Aniello (da Freetown)

redazione@ilcaffegeopolitico.net

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Giorgio D'Aniello
Giorgio D'Aniello

Sono nato nel 1985 a Cuneo (sì, esiste davvero), dove vivo con mia moglie Agnese. Africano a tempo determinato, dopo la laurea magistrale in Studi Afro-Asiatici conquistata presso l’Università di Pavia, ho vissuto per un anno a Goma (Rep. Dem. Congo) e per un altro anno a Freetown (Sierra Leone), lavorando nel campo della cooperazione e, in particolare, dell’educazione dei giovani. Attualmente continuo a lavorare come educatore a stretto contatto con giovani cuneesi e immigrati di prima e seconda generazione. La mia Africa, adesso, si chiama Piemonte.

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