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In alto i pugni

Road to London – Nella nostra rubrica "E' solo un gioco?" torniamo a raccontarvi storie belle di sport, in cui le gesta eroiche degli atleti vanno ad intrecciarsi con la politica internazionale. Un binomio tante volte visto nella storia delle Olimpiadi, e che vogliamo presentarvi da qui fino ad agosto, quando inizierà la prossima edizione dei Giochi. Dopo Berlino 1936, si vola a Città del Messico, trentadue anni dopo, per un racconto dove si mescolano pugni chiusi, apartheid e pantere nere. Insomma, non diteci che non riconoscete questa foto… ma sapete cosa ci sta dietro?

È la notte del 16 ottobre 1968. Siamo a Città del Messico, per la diciannovesima edizione dei giochi olimpici. È da poco terminata la gara dei duecento metri piani. Con una rimonta strepitosa Tommie Smith, afroamericano, si assicura la medaglia d'oro davanti all'australiano Norman e al connazionale John Carlos, afroamericano anch'esso. I due atleti statunitensi aspettano da tempo l'occasione per poter stupire. Sembra che quel momento sia arrivato. Stupire, non facile in un Olimpiade come quella messicana e, più in generale, in un anno come il 1968.

OLIMPIADI E APARTHEID – Problemi di razzismo, che purtroppo si presentano sotto qualsiasi latitudine, scuotono la lunga vigilia olimpica. In febbraio a Grenoble, durante la decima edizione della rassegna invernale, il Presidente Brundage, lo stesso che diede l'assenso alla partecipazione della delegazione USA alla famigerata rassegna berlinese, tenta di far rientrare nel CIO il Sud Africa, espulso dal comitato alla vigilia dei giochi olimpici di Tokyo 1964. Non c'è posto per chi discrimina, apartheid e sport sono inconciliabili. Immediato e prepotente rimbomba il dissenso di molti paesi, primi tra tutti quelli del continente nero. In piena condanna contro un paese che «tratta i suoi atleti di colore come scimmie da vestire di velluto il giorno della festa, ma da ricacciare subito dopo nella foresta», 32 Paesi africani annunciano, 26 febbraio 1968, la loro volontà di boicottare qualora fosse concessa la partecipazione alla compagine sudafricana. Al coro si uniscono anche alcuni comitati olimpici europei, tra cui il CONI: “lo statuto olimpico non permette di invitare ai Giochi i concorrenti di nazioni che consentono distinzioni di razza e di religione.”

BLACK PANTHERS: WHAT WE WANT! – Nel frattempo, le rivolte studentesche impazzano in tutto il mondo. L'offensiva del Tet, il capodanno vietnamita, nel Gennaio 1968 non fa altro che aumentare il disappunto pubblico nei confronti della «sporca guerra» del Vietnam. L'obiettivo johnsoniano di politica interna di «raggiungere i neri e integrarli nel sistema politico urbano» non porta a concreti risultati. In un contesto sociale tanto movimentato il Black Panther Party,sorto nel 1966, si fa espressione, purtroppo non sempre pacificamente, dell'estrema ricchezza di fermenti della comunità afroamericana. Messe da parte le «estati calde» che incendiarono le città americane – New York e Los Angeles solo per citare le più importanti – e la morte del leader afroamericano Malcom X, tale ricchezza si trasfuse dal sociale in letteratura, arte, musica,politica. E, naturalmente, sport.

A PUGNI CONTRO L'OPPRESSIONE – Eccoci di ritorno ai nostri protagonisti: Smith e Carlos. Li abbiamo lasciati esultanti per la vittoria,è ora che ritirino la loro medaglia. Come anticipato, i due atleti afroamericani hanno intenzione di stupire. Non hanno ancora digerito gli assassini di Martin Luther King, premio Nobel per la pace quattro anni prima per la sua battaglia non violenta a favore dei diritti civili della gente di colore, e Robert Kennedy, candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti sensibile ai temi dell'uguaglianza sociale, avvenuti rispettivamente il 4 aprile e il 4 giugno 1968. In protesta a quanto avvenuto, alcuni candidati afroamericani della spedizione olimpica statunitense minacciano il boicottaggio. Su tutti, Smith e Lee Evans, formidabile quattrocentista. Ricordiamoci questo nome, ne sentiremo ancora parlare. A guidarli è un professore universitario, Harry Edwards: « l'oppressione cui i neri sono sottoposti negli Stati Uniti è grave come quella cui devono sottostare i neri sudafricani. È assurdo che atleti di colore debbano essere utilizzati come animali ammaestrati». La voglia di disertare è tanta, ma comunque inferiore a quella di stupire.

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IL COLPO DEL K.O. – È giunto il momento della premiazione. Una premiazione che nessuno dimenticherà più. Smith e Carlos si avviano verso il podio. È giunta l'ora di mettere in scena quanto preparato. Ci vuole tanto coraggio. La sera prima, in occasione della premiazione dei 100 metri piani, Jim Hines, loro compagno, non se l'è sentita. «Chiedo scusa. Non riesco». Ma per loro è diverso, sono in due.Consegna delle medaglie. Prima Smith, poi tocca a Norman. L'australiano, forse prevedendo l'importanza di quella premiazione, indossa una spilla simboleggiante la libertà per esprimere vicinanza ai rivali. Quindi Carlos, bronzo. È tutto pronto. Le note di Stars Spangled Banners risuonano nello stadio e i due afroamericani, di scatto, alzano al cielo il pugno guantato di nero, rivendicando dinanzi al mondo il «diritto all'autodifesa», motto delle Pantere Nere. I due dimostrano di non essere «animali buoni solo per correre» ma sanno bene che pagheranno a caro prezzo il loro gesto. Payton Jordan, capodelegazione Usa, minaccia i due atleti appena scesi dal podio e le conseguenze non tardano ad arrivare. Nella notte al villaggio olimpico scoppia una rissa gigantesca, ma Smith e Carlos sono già lontani: espulsi dal villaggio olimpico con effetto immediato.

DAL PUGNO AL BASCO – Ma le sorprese non sono terminate. Il giorno dopo è in programma la gara dei quattrocento metri piani. Ai blocchi di partenza si presenta, reduce dalla scazzottata notturna al villaggio olimpico e con un occhio nero, Lee Evans. Stravince, demolisce il record del mondo, ma non gli basta. Arriva il momento della premiazione. Ad affiancarlo sul podio ci sono James e Freeman. Neanche a dirlo, afroamericani. Si teme il bis del giorno precedente e,infatti, i tre si presentano a ritirare il simbolo di tante fatiche indossando il basco nero, emblema delle Black Panthers. Nessun pugno guantato questo volta, eppure accade qualcosa di particolare. Lee Evans non riesce a smettere di ridere: “ Pensavo mi avrebbero sparato, e allora mi sono imposto di ridere. È più difficile uccidere chi ride.

NON SOLO SMITH E CARLOS – Ma Città del Messico 1968 non è solo Tommie Smith e John Carlos. La rassegna messicana passerà alla storia come la prima che vide competere cecoslovacchi contro sovietici, in seguito all'intervento armato dell'Urss per reprimere la rivolta esplosa in primavera a Praga e, per la prima volta, tedeschi contro tedeschi. Fu la Germania dell'Est, convinta della propria supremazia sportiva (supremazia che tra l'altro verrà confermata dai medaglieri), a chiedere di poter partecipare separatamente durante una sessione del CIO svoltasi a Madrid, 1965. Ma fermenti e turbolenze non terminano qui. Pochi mesi dividono la rassegna olimpica dal maggio parigino e le proteste studentesche, scoppiate in ogni parte del mondo, giungono sino al sud America.

NELL'OCCHIO DEL CICLONE – In Messico, è la politica ultraconservatrice del presidente Gustavo Diaz Ordaz a provocare la rivolta. I miliardi di Pesos investiti nell'organizzazione dell'importante rassegna non riescono ad irretire la tensione sociale che culminerà, il 28 luglio 1968, a soli tre mesi dall'accensione della fiaccola olimpica, con la morte di 8 universitari. Nei giorni a seguire la situazione non migliora, tutt'altro. A poche ore di distanza migliaia di studenti, capitanati dal rettore Barros Sierra, sfilano per le vie di Città del Messico chiedendo, invano, al governo la destituzione di chi ha permesso che il massacro avvenisse e lo scioglimento del famigerato corpo speciale dei granaderos. Seguono proclamazioni di scioperi e disagi, ma nessuno poteva prevedere quel che accade il 3 ottobre: le forze dell'ordine intervengono per disperdere un affollato ritrovo studentesco in piazza delle Tre Culture, nel quartiere di Tlatelolco, sotto gli occhi inorriditi di giornalisti accorsi da tutto il mondo in vista della rassegna olimpica. In sole due ore, dalle sei alle 8 di sera, numerosi studenti perdono la vita. Quanti? Difficile rispondere con certezza. Poche decine secondo le autorità, tra i duecento e i trecento secondo la stampa internazionale.

LO SGUARDO OLTRE IL PODIO – L'Olimpiade messicana rappresenta, a detta degli storici, un «giro di boa per l'olimpismo moderno»,sicuramente alludendo alle sempre più strette implicazioni politiche dei giochi. E pensare che sarebbero potute passare alla storia come le olimpiadi mancate. Le turbolenze e i gravi incidenti che caratterizzarono i giorni immediatamente antecedenti alla rassegna rischiarono di provocare l'annullamento dell'Olimpiade. Fu l'ormai famoso Brundage,proprietario di un locale interdetto ai neri, a perorare, a tutti i costi, la causa olimpica. Se a Berlino fu Jesse Owens a rovinargli la festa, a Città del Messico ci pensarono i pugni neri di Tommie Smith e John Carlos, infilati nel costato dell'America razzista. «Il pugno chiuso, come dire solidarietà. Il capo chino e offeso. Niente scarpe, calze corte e nere, il simbolo della povertà e delle radici. La medaglia olimpica rappresenta molto per me, ma nella vita ci sono cose più importanti di una vittoria o di un primato». Questo è Tommie Smith, Come dargli torto?

Simone Grassi redazione@ilcaffegeopolitico.net

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Simone Grassi
Simone Grassi

Fiero membro della cosiddetta generazione Erasmus, ho studiato in  Italia e in Francia. Laureato magistrale in Relazioni Internazionali (UniversitĂ  degli Studi di Milano),  frequento  ora un Master di ricerca in Economia Politica all’UniversitĂ  di Bristol. Convinto europeista, sono stato stagista alla Rappresentanza in Italia della Commissione europea. Oltre all’economia e alla politica internazionale, mi affascina il mondo della cooperazione allo sviluppo, un mondo che ho maggiormente scoperto durante un tirocinio in UNICEF.

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