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Il prezzo politico e sociale degli attacchi terroristici: il caso del Pakistan

Un attacco terroristico è un evento devastante. Spesso ci si sofferma sul numero di morti e feriti, sui colpevoli e sulla motivazione politica. Quasi mai si cercano le reali conseguenze di una tragedia che porta a inevitabili cambiamenti sociali e politici a breve e lungo termine. Analizziamo l’attacco alla scuola di Peshawar, per capire, a distanza di due mesi, come il Pakistan abbia reagito a questa tragedia.

IL MONDO SOTTO ATTACCO – Mai come in questi ultimi mesi il mondo è stato sconvolto da numerosi attacchi terroristici che riempiono i titoli dei più importanti quotidiani nazionali e internazionali. La Francia, come la Nigeria e il Pakistan, sono solo alcuni dei Paesi coinvolti in tragedie legate a violente rivendicazioni da parte di gruppi terroristici. Ma rincorrere tutte le notizie drammatiche in tempo reale lascia poco spazio per capire le vere conseguenze di un attentato che costringe i Paesi coinvolti a cambiare le priorità della propria agenda politica e che, soprattutto, sconvolge la vita quotidiana della popolazione, la quale improvvisamente vede mutare la percezione di sé e della propria sicurezza.
Un attacco terroristico, da un punto di vista di un’analisi politica e sociale, se ha provocato devastazione e morte è una vittoria totale dei militanti armati. Anche nel caso in cui i terroristi coinvolti dovessero essere stati tutti catturati o uccisi, decretando il successo dell’esercito governativo o della polizia che sono è intervenuti riportando l’ordine e una presunta tranquillità, niente può cancellare l’evento e le sue conseguenze.

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Una scolaresca pakistana nel distretto tribale di Jhanda

I TALEBANI ATTACCANO – Un caso emblematico, in questo senso, è l’attacco alla scuola militare di Peshawar, avvenuto il 16 dicembre 2014. La capitale della Provincia di Khyber Pakhtunkhwa è ormai da più di un decennio sotto il fuoco dei gruppi jihadisti pakistani e afghani, ma mai nessuno, fino a ora, aveva osato uccidere 132 bambini a sangue freddo, facendone assistere altri a efferatezze e violenze indicibili.
Questo attentato rappresenta, in qualche modo, il “superamento del limite” sociale, psicologico e politico che un Paese è disposto ad accettare ed è per questa ragione che la vita dei pakistani, dal 16 dicembre, è profondamente cambiata.

IL GOVERNO RISPONDE – All’indomani dell’attacco il Governo di Islamabad ha infatti messo in atto una serie di importanti provvedimenti politici, primo tra tutti l’istituzione di una corte militare per i civili sospettati di atti di terrorismo.
La prima dura risposta, in termini militari, è stata una lunga serie di attacchi a tappeto, sia via aria, sia via terra, nelle zone della Khyber Agency, dove molti terroristi vivono e operano indisturbati. Tra il 16 e il 29 dicembre si conta che siano state uccise circa 100 persone.
La seconda risposta annunciata dallo stesso primo ministro Nawaz Sharif è stata la ripresa delle esecuzioni capitali: sotto ordine del ministro degli Interni Chaudry Nisar sono state eseguite 20 impiccagioni in diversi carceri del Pakistan. Controlli capillari dell’esercito hanno portato, inoltre, all’arresto di circa 2mila persone accusate di fare parte o di appoggiare gruppi terroristici locali.
Un forte giro di vite è stato poi messo in atto sulla privacy della popolazione del Pakistan, visto che il Governo, tramite l’aiuto delle varie compagnie telefoniche del Paese, ha verificato e messo sotto controllo le sim card dei telefoni cellulari di milioni di persone.

I RIFUGIATI AFGHANI PAGANO IL CONTO – Gravissime sono state le ripercussioni sui numerosi rifugiati afghani che vivono nei campi profughi del Pakistan: molti di loro sono stati arrestati o invitati a lasciare il Paese. Va ricordato che negli anni Ottanta, durante l’invasione sovietica, molti afghani sono fuggiti attraversando il confine e perdendo, di conseguenza, tutti i loro beni.
Dopo il 2001 parte dei rifugiati sono rientrati in patria, ma molti sono ancora in Pakistan, poiché le condizioni di povertà in cui versano non hanno permesso loro di tornare nei propri territori.
Il Governo pakistano ha annunciato, pochi giorni dopo l’attentato, un Atto nazionale per espellere tutti gli immigrati afghani illegali. Ma, secondo i dati dell’UNHCR, molti rifugiati che vivono nelle aree tribali della Provincia di Khyber Pakhtunkhwa, con regolare carta di permesso, hanno ricevuto un trattamento arbitrario da parte delle forze di sicurezza pakistane. L’Agenzia delle Nazioni Unite è quindi direttamente intervenuta, contattando il ministro delle Regioni di Frontiera e il risultato è stato l’invio di una lettera ufficiale ai dipartimenti provinciali della Regione secondo la quale sono da considerarsi illeciti gli arresti dei rifugiati registrati regolarmente. Ma i problemi permangono e quasi quotidianamente i rifugiati afghani continuano a essere arrestati pretestuosamente dalla polizia pakistana.
Tutti questi provvedimenti urgenti hanno mutato sensibilmente l’agenda politica del Governo di Islamabad, dando priorità alle misure di sicurezza e alle operazioni militari, allocando risorse economiche per queste attività e sottraendo, quindi, ingenti quantità di denaro a questioni sociali irrisolte e urgenti quali, ad esempio, l’occupazione, la sanità, l’istruzione.

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Rifugiati afghani in un campo dell’UNHCR nei pressi di Peshawar

LE CONSEGUENZE PSICOLOGICHE – Ancora più gravi sono poi le conseguenze psicologiche per un’intera popolazione, che, dopo un furo attacco terroristico, non percepisce più intorno a sé e ai suoi familiari un clima di sicurezza sociale. In questo specifico caso i bambini sono stati il bersaglio dei terroristi e i sopravvissuti devono ora fare i conti con traumi psicologi devastanti: primo tra tutti il “senso di colpa” di chi ha visto morire, sotto i propri occhi, i compagni di scuola e gli insegnanti. Le conseguenze a lungo termine potrebbero portare a un profondo cambiamento della personalità o a comportamenti borderline, se non addirittura delinquenziali, per tutti coloro che non siano stati in grado di accettare l’idea di essere scampati alla tragedia, a discapito delle persone che erano accanto a loro e che amavano.
Altra grave conseguenza psicologica può essere individuata in una seria forma dissociativa che si innesca quando si è vittime di un evento traumatico. A volte si presenta sotto forma di una perdita della memoria breve oppure dimenticando la propria identità. Questo è ciò che è accaduto ad alcuni dei bambini della scuola di Peshawar, visitati da un team di psicologi e di psichiatri dell’Università di Karachi alcuni giorni dopo l’attentato.
L’equipe medica ha riscontrato che alcuni dei bambini della scuola dimenticavano, in pochi istanti, i volti dei medici e delle persone con cui avevano appena parlato. Difficile valutare come e quando riusciranno a riacquistare l’integrazione della memoria.
Infine non va dimenticato che gli abitanti della città di Peshawar sono ora terrorizzati dalla prospettiva di permettere ai propri figli di continuare gli studi, poiché questa esperienza li induce a considerare la scuola come un obiettivo sensibile dei terroristi. Alcuni di loro hanno deciso di ritirare i loro bambini dai corsi scolastici, privandoli di fatto di un futuro migliore.
Questi esempi sono indicativi per capire che i morti lasciati sul campo non sono l’unico scopo di un attacco terroristico. In realtà il vero obiettivo è la destabilizzazione sociale e politica di un Paese che, alla luce del senso di insicurezza e di paura causato da un evento così drammatico, è costretto a compiere scelte politiche “armate” piuttosto che investire in infrastrutture o nel campo occupazionale. Ciò porta alla impossibilità di una crescita economica e culturale del Paese, che, investendo sulla guerra, priva la popolazione di un futuro costruito su principi pacifici e democratici.

Barbara Gallo

[box type=”shadow” align=”aligncenter” ]Un chicco in piĂą

Per approfondire le tematiche politiche del Pakistan vi consigliamo: Pericolo Pakistan, di Ahmed Rashid, Feltrinelli, 2013.

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Barbara Gallo
Barbara Gallo

Ha conseguito la Laurea in Sociologia con una Tesi sulle donne afghane. E ciò non ha fatto che aumentare la sua passione e il suo amore per quelle terre belle e selvagge e per quelle popolazioni fiere e coraggiose. Collabora con Archivio Disarmo perché sogna la pace e con la Fondazione Pangea perché sogna un futuro migliore per le donne. Attualmente vive e lavora come giornalista pubblicista a Roma.

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