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Charlie e le grandi responsabilitĂ  europee

Il fenomeno del Jihad in Europa non è un trend a sé stante e autoprodotto. Esso si colloca piuttosto in un contesto più ampio che include quanto avviene in Africa e in Medio Oriente. I fatti di Parigi sottolineano quanto già risaputo: occorre una riflessione politica profonda sul ruolo dei Paesi europei in quelle regioni.

L’Europa non può tirarsi indietro, è già coinvolta. Ma i leader europei devono avere il coraggio di scegliere tra l’abbandonare il campo e proseguire l’impegno seriamente. La via di mezzo attuale non aiuta a privare il jihadismo internazionale del background ideale per la propria proliferazione e alimentazione, da al-Raqqa a Parigi

LA FUCINA DELL’ISLAMISMO – Dal 2011 in poi il Medio oriente, il Nord Africa e l’Africa sub-sahariana rappresentano un’area di grande instabilità alle porte dell’Europa. Le crisi più importanti, ancora in corso, riguardano la Siria, la Libia, il Mali e la Nigeria. L’elemento principale che contraddistingue questi conflitti è l’estrema frammentarietà del panorama politico locale. Nessuna forza ha preso il sopravvento sulle altre in maniera preponderante e, falliti i tentativi dei rispettivi Governi di reprimere ed eliminare le forze di opposizione, i modelli di Governo che si sono creati sui territori ormai spaccati si rifanno perlopiù a rapporti tribali o di connivenza tra elemento religioso estremo e feudi locali. Inoltre, gli Stati adiacenti che sono sopravvissuti agli scossoni della cosiddetta Primavera araba – come Algeria, Tunisia, Libano – sono precari e sotto la continua minaccia che i fenomeni più violenti come quello dell’islamismo militante penetrino anche nel proprio territorio e nel proprio tessuto sociale. Per l’Europa, contesti del genere non rappresentano una minaccia diretta in senso militare. Anzi, la caduta di regimi come quello di Gheddafi e l’indebolimento degli attori più forti come l’Egitto o l’Algeria ha del tutto annullato la possibilità di trovarsi di fronte a forze armate vere e proprie con capacità operative di rispetto. Questo non ha portato all’annullamento delle minacce alla sicurezza dei Paesi europei, ma ad un cambio nella loro fisionomia. Un nemico chiaramente identificabile, con bandiere e divisa, è facile da contrastare con un minimo di pianificazione strategica. Tuttavia, la minaccia che oggi proviene all’Europa dalle aree di crisi e dai Paesi rimasti in piedi ma instabili non si palesa immediatamente. E’ molto più subdola e corrode la sicurezza dei cittadini europei lentamente. La minaccia proveniente da quei territori comprende oggi il flusso di combattenti jihadisti intenzionati a colpire sul suolo europeo ma anche traffici di armi, organi, ed esseri umani. A sud del Mediterraneo si è formata una grande fucina di idee e azioni pericolose sia per i territori su cui insistono che per il nostro continente. Sotto osservazione i questi giorni la diffusione dell’islamismo militante. Questo esisteva anche prima che il Medio Oriente e parte dell’Africa andassero in pezzi, ma la situazione attuale consente ad Emiri e Califfi – come i capi dei gruppi più importanti si autodefiniscono – di spadroneggiare su territori molto più estesi, reperire risorse economiche prima impensabili e, soprattutto, allargare a dismisura il loro bacino di reclutamento. Impresa particolarmente facile in regioni dove larghe fasce della popolazione sono alla disperazione e la militanza in formazioni come lo Stato Islamico, Ansar al-Sharia o Boko Haram rappresenta addirittura un’opportunità rispetto alla prospettiva di una morte per stenti. Nonostante ciò, questa enorme fucina non ha la capacità di attaccare l’Europa frontalmente. Eppure i macro-trend e le capacità che vi si sviluppano corrodono la sicurezza europea giorno dopo giorno. Soprattutto se le idee radicali trovano terreno fertile anche tra le fasce emarginate della popolazione dei Paesi europei, e non solo tra la popolazione islamica (si pensi al fenomeno delle conversioni). In questo periodo di depressione economica, la quantità di persone e ambienti sociali che possono essere preda dei modelli e delle prospettive jihadiste è in aumento, creando un’ulteriore vulnerabilità per il nostro spazio geopolitico.

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Il ministro degli interni francese Bernard Cazeneuve presiede un meeting internazionale l’11 gennaio, pochi giorni dopo l’attentato

EUROPA E INTERVENTISMO – E’ stato detto tante volte: l’Europa deve fare di più in Medio Oriente e Africa. Ma cosa significa fare di più? L’Unione Europea e i singoli Stati membri sono già impegnati su più fronti per contrastare il terrorismo di matrice islamica. Ma l’impegno è ambiguo. Il problema reale è che i singoli Paesi membri stanno intervenendo in maniera individuale e con poca coordinazione, oltreché in modo poco incisivo. Una delle ragioni per cui la Francia è un obiettivo particolarmente gettonato è data dal suo corposo impegno internazionale, che si estende dall’Africa occidentale all’Iraq del nord. Tuttavia, qualche migliaio di uomini e un pugno di cacciabombardieri rappresentano un contributo importante alle coalizioni nelle quali la Francia opera, ma non risolutivo. Lo stesso si può dire per gli altri contributi, compreso quello italiano, alle campagne internazionali contro Boko Haram, Ansar Dine, lo Stato Islamico, ecc. Ciascun Paese vuole dimostrare di fare la propria parte, nessuno però si vuole compromettere troppo di fronte alla comunità internazionale e, soprattutto, all’opinione pubblica. Quest’ultima da un lato chiede che si faccia qualcosa, dall’altra difficilmente appoggia gli interventi all’estero. Ma urgono scelte di campo.
Se i Paesi europei intendono fermare il trend attuale in maniera attiva, si deve intervenire direttamente nelle aree che generano flussi di terroristi, armi, schiavi e quant’altro. Farlo non significa mostrare la bandierina e mandare due aerei e qualche soldato nel goffo tentativo di ottenere credito internazionale senza appesantire il bilancio nazionale (per non scontentare nessuno, minimo sforzo e massimo risultato). Voler invertire la tendenza in Medio Oriente e Africa potrebbe significare, ad esempio, imbastire operazioni militari complesse, magari a livello europeo viste le risorse e le capacità necessarie, sopportarne il costo economico e le perdite umane. Successivamente, accompagnare le aree bonificate verso la costruzione di modelli di governance che non calpestino le strutture sociali locali ma che garantiscano stabilità politica e sviluppo socio-economico.
Oppure, giocare sulla difensiva. In questo caso i servizi di intelligence interna andrebbero potenziati, le truppe all’estero ritirate, la protezione delle linee di comunicazione marittime e aeree demandata a Paesi instabili, che si dovrebbero quindi sostenere perché possano affrontare in autonomia le necessarie operazioni per schermare l’Europa. Insomma, i costi non sarebbero inferiori, con la differenza che non verrebbe versato sangue europeo. Inoltre, per seguire una via tendenzialmente isolazionista bisognerebbe rivedere tutto ciò che riguarda il concetto di sicurezza collettiva sia in sede UE che presso le Nazioni Unite. Uno sforzo politicamente non minore che assumersi la responsabilità di intervenire nello scacchiere internazionale ma che presenta alcuni vantaggi, ad esempio non si avrebbero perdite umane e le opinioni pubbliche sarebbero più accomodanti. I soggetti che rappresentano una minaccia continuerebbero ad esistere, ma forse ci contrasterebbero con meno accanimento. In ogni caso, dovremmo continuare a difenderci sine die.

Ma il vero problema è scegliere! La situazione attuale è la peggiore possibile. Al di là dei problemi di frammentarietà delle politiche europee, i singoli Paesi sono accomunati da un modo errato di gestire i propri rapporti con le aree di crisi. Paesi come l’Italia, la Francia e l’Inghilterra sono presenti abbastanza negli scacchieri a sud del Mediterraneo per poter essere identificati come nemici da entità ostili, statali e non. Non sono presenti abbastanza per evitare che queste possano nuocere.

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Soldati francesi assegnati all’operazione Barkhane in Mali, lanciata ad agosto 2014 e ancora in corso

L’EUROPA COME SOLUZIONE – L’attendismo politico non paga. Progetti ambiziosi come l’Euro sono stati inficiati dalla reticenza dei Governi nazionali di turno a perseguire la strada tracciata, anche a costo del fallimento collettivo. Per quanto riguarda difesa e sicurezza, si sta commettendo un errore simile. Le minacce esterne rappresentano un ulteriore incentivo alla fusione effettiva di capacità e strumenti militari che possano dare una risposta univoca e non fraintendibile alle minacce che si profilano nel prossimo futuro. Il carattere transnazionale delle minacce e la convenienza di dividere rischi e costi di azioni politiche pesanti ma ormai imprescindibili aggiunge un ulteriore elemento a favore di un percorso europeo unico. Se la minaccia dividesse i Paesi e li impaurisse al punto da rifiutare trattati come quelli di Schengen, il terrorismo internazionale avrebbe colto a Parigi una grande vittoria con uno sparuto manipolo di combattenti e pagando un prezzo umano relativamente esiguo. Un grandissimo risultato per il Jihad internazionale, una sconfitta disonorevole per l’Europa.

Marco Giulio Barone

 

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Un chicco in piĂą

Questo articolo è parte dello speciale Hot Spot – Europa e Islam contro il terrorismo, uno speciale a 360 gradi in cui 7 autori diversi analizzano vari aspetti a partire dai fatti di Parigi.

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Foto: Saeima

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Marco Giulio Baronehttps://ilcaffegeopolitico.net

Marco Giulio Barone è analista politico-militare. Dopo la laurea in Scienze Internazionali conseguita all’Università di Torino, completa la formazione negli Stati Uniti presso l’Hudson Institute’s Centre for Political-Military analysis. A vario titolo, ha esperienze di studio e lavoro anche in Gran Bretagna, Belgio, Norvegia e Israele. Lavora attualmente come analista per conto di aziende estere e contribuisce alle riviste specializzate del gruppo editoriale tedesco Monch Publishing. Collabora con Il Caffè Geopolitico dal 2013, principalmente in qualità di analista e coordinatore editoriale.

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