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Chi ha paura della Cina?

Dopo la crisi del sistema bipolare con il crollo dell'Urss e gli scricchiolii del ventennio di unilateralismo statunitense, il 2012 sembra proprio essere l'anno dell'ascesa definitiva della Cina nel contesto asiatico. Dopo secoli un paese non bianco, non occidentale e non democratico sta diventando incredibilmente potente agli occhi del mondo. E noi, che non ci siamo più abituati, troviamo il fenomeno alquanto doloroso o perlomeno preoccupante per gli equilibri geopolitici. L'intervista a Michael Barr, autore di Who’s afraid of China?, ci aiuta a comprendere meglio cosa ci aspetta, anche se la Cina è uno specchio in cui vediamo riflesse le nostre paure, in realtà il Dragone non morde.

Tratto da  "China Files" 

SOFT POWER: POTERE E PRESTIGIO – È un libro che tenta di sfatare un po’ di luoghi comuni sul Celeste Impero, quello di Michael Barr, docente di Politica internazionale all’università di Newcastle. Affronta in Who’s afraid of China? (chi ha paura della Cina?) i vari aspetti del “Beijing consensus”, quella formula (coniata in Occidente), che descrive la conquista del nostro immaginario da parte di Pechino. Spesso i media occidentali ne parlano come dell’ennesima avvisaglia di un imperialismo che spazia dalla conquista dei mercati al riarmo militare per arrivare, appunto, agli aspetti ideologici e culturali. Soft Power – spiega Barr – è “la capacità di modellare le preferenze degli altri attraverso la forza d’attrazione dei propri valori e della propria cultura”. Un potere che dipende soprattutto dalla “reputazione” di chi intende esercitarlo. Ma la Cina non gode di buon marketing all’estero, anzi, è spesso un capro espiatorio pronto all’uso. Quindi, in che cosa consiste il suo presunto soft power?

C’è una tesi che percorre tutto il suo libro: gli allarmi che alcuni ambienti occidentali lanciano rispetto alla forza del soft power cinese sono eccessivi e forse strumentali. Insomma, si grida “al lupo”, ma la Cina non è ancora in grado di minacciare il predominio culturale e ideologico di Washington. È un’interpretazione corretta del suo pensiero?

Credo che la nostra percezione del “pericolo cinese” abbia più che altro a che fare con una paura più generale dell’ignoto, della gente diversa da noi, e quindi spiega soprattutto la perdita di potere e di sicurezza dello stesso Occidente. Il soft power cinese non fa così paura. Prendiamo il cibo cinese. Noi occidentali lo amiamo e non c’entra nulla con il Partito comunista, eppure si tratta pur sempre di cultura che si diffonde nel mondo. Preferiamo però concentrarci sulla minaccia cinese perché abbiamo una grande confusione in testa su come rapportarci alla Cina.

“Come pensate di diffondere la vostra cultura?” A questa domanda, una donna cinese ha risposto che siamo noi occidentali a farlo, a esercitare il soft power della Cina, semplicemente parlandone. Cosa ne pensa?

Mi sembra una grande risposta. Questo è forse il motivo per cui il governo di Pechino è ben contento che sempre più occidentali studino il cinese ed è sicuramente l’idea che sta dietro agli Istituti Confucio. Studiando il cinese, diventiamo una sorta di ambasciatori della Cina. La natura del soft power è che si diffonde secondo una reazione a catena.

Viaggia sulle ali della globalizzazione, insomma. E nel libro lei vede un legame stretto tra una funzione esterna e una interna del soft power…

Il governo cinese si sente insicuro e il Partito comunista vuole restare al potere. Quindi il soft power promosso dall’alto è una sorta di autopromozione verso l’esterno ma anche verso la propria gente. Un esempio sono state le grandi pubblicità luminose a New York che ritraevano noti personaggi cinesi. Ma la maggior parte dei passanti non li riconosceva neppure, mentre i cinesi vedevano che a New York risplendevano eccellenze cinesi. Era un messaggio rivolto sia all’esterno sia all’interno. Lo stesso discorso vale per le Olimpiadi del 2008: non sono state tanto uno show per il mondo esterno, quanto per gli stessi cinesi. Anche l’Expo di Shanghai andava nella stessa direzione. Il messaggio era: “possiamo portare il mondo in Cina e il mondo vuole venire in Cina”. Dietro questi messaggi bidirezionali c’è il Partito comunista che ricorda alla propria gente che in quarant’anni ha trasformato un Paese povero e senza potere in uno sempre più ricco e sempre più potente. Anche la promozione della lingua cinese ha questa funzione duale. All’interno, la diffusione del putonghua[“lingua comune”, è il cinese che viene insegnato a scuola e che in occidente viene chiamato “mandarino”,ndr] ha il compito di raffreddare le tensioni etniche e di creare un sentimento nazionale comune.

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In Occidente molti pensano che dietro queste operazioni ci sia un tentativo “imperiale” e un atteggiamento aggressivo…

Bisogna considerare i tempi. Negli anni Ottanta la Cina ha cominciato a crescere e negli anni Novanta ha addirittura preso il volo. Poi c’è stato l’11 settembre, quando l’Occidente ha cominciato a interrogarsi su se stesso e gli Stati Uniti, ma forse ancor più l’Europa, si sono posti domande sul proprio ruolo nel mondo. Hanno messo in dubbio l’universalità delle proprie idee e qualcuno ha assunto un atteggiamento cinico verso l’economia di mercato e il sistema democratico. Nel frattempo siamo stati testimoni del boom della Cina, che non è democratica. La messa in discussione dei valori liberali non è nuova in assoluto, ma per la prima volta ci chiediamo che cosa ne sarà del nostro futuro mentre un Paese non bianco, non occidentale, sta diventando incredibilmente potente. E non ci siamo più abituati da secoli, per cui lo troviamo molto doloroso.

Possiamo dire che la Cina è una specie di specchio di noi stessi?

I cinesi di fatto non sono molto diversi dalla maggior parte di noi: vogliono pace e prosperità. A volte proiettiamo l’immagine di noi stessi nella descrizione della Cina: le nostre idee, speranze, paure, tra cui quella dell’ignoto, dell’altro, di una lingua che non capiamo, del governo che ci sta dietro. Penso che sia decisamente uno specchio molto utile.

La strategia del soft power cinese sembra molto “quantitativa”. Si investe sull’agenzia di stampa Xinhua, sulla televisione Cctv, le si fa diventare colossi multinazionali. Si creano più di 350 Istituti Confucio in tutto il mondo. In economia funziona, ma per quanto riguarda la conquista di cuori e menti è lo stesso?

Ci vorrà più tempo. Parte del problema risiede nella lingua, perché l’inglese continua a essere la più parlata nel mondo. Ma ci deve essere anche una trasformazione interna, perché la stessa Cina sta vivendo la propria crisi. Ai Weiwei scrive un bestseller ed è amato dalla gente, gli lasciano esprimere certe idee eretiche per anni e poi lo mettono in prigione. Il Paese, che va così veloce, deve quindi capire in fretta in che cosa crede e come vede il proprio futuro. Penso che il soft power cinese non avrà un grandissimo impatto finché la Cina non si sentirà più sicura e stabile al proprio interno, finché non risolverà i propri problemi di identità. La Cina attuale assomiglia un po’ agli Stati Uniti di inizio Novecento: una nuova potenza che cerca di capire quale dev’essere il proprio ruolo nel mondo. Ho l’impressione che la lunga transizione del potere da Occidente a Oriente – perché oltre alla Cina va considerata anche l’India – sia già in corso. Forse noi stiamo assistendo al suo inizio.

Henry Kissinger dice che si va verso un mondo multipolare più che verso un mondo segnato da una sola superpotenza.

Forse ha ragione, ma secondo me, parlando di “poli” pensa soprattutto a Cina e India. E quello, appunto, è l’Oriente.

Quali aspetti della cultura cinese sono più facilmente esportabili?

Ogni cultura è sempre sincretica. La stessa Cina sta assorbendo elementi delle culture occidentali: valori liberali, un po’ di cristianesimo e così via. È un processo dinamico. Personalmente, vorrei che avesse successo nel mondo uno degli aspetti più tipici della cultura cinese: l’idea olistica, cioè che le cose sono interconnesse e che ogni azione ha delle conseguenze a livello di sistema. È molto importante, lo comprendiamo se osserviamo per esempio la crisi ambientale. A mio avviso questo aspetto è molto più potente del confucianesimo.

Gabriele Battaglia redazione@ilcaffegeopolitico.net

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