martedì, 19 Marzo 2024

APS | Rivista di politica internazionale

martedì, 19 Marzo 2024

"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

Associazione di Promozione Sociale | Rivista di politica internazionale

Hot Spot – Europa e Islam contro il terrorismo

Uno speciale a 360 gradi in cui 7 autori diversi analizzano vari aspetti a partire dai fatti di Parigi. Charlie Hebdo e noi; Islam e politica, homegrown terrorism e foreign fighters; le grandi responsabilità dell’Europa in materia di politica estera ed economia; le reazioni possibili e le diverse opportunità strategiche: tutto qui, in unico focus

 Charlie Hebdo e noi

Mi chiedi di parlare, stavolta”. Senza entrare qui nel merito di tutto quello che scrive dopo, ci ha sempre colpito l’incipit della Fallaci, quando su invito del direttore del Corriere scrive “La rabbia e l’orgoglio” poco dopo l’11 settembre. “Di rompere almeno stavolta il silenzio che ho scelto (…). E lo faccio”.

Gli eventi di Parigi ci toccano da vicino e ci coinvolgono direttamente, è inevitabile e naturale. Quanto avvenuto è nel nostro mondo, e non possiamo esserne indifferenti. Davanti a questo, è come se per tanti di noi la realtà ci avesse detto “mi chiedi di parlare”. Quante parole, in questi giorni. Social network (dove siamo tutti volta per volta commissari tecnici, esperti di riforme elettorali, e a questo giro luminari di geopolitica o storia delle religioni), blog, giornali online, trasmissioni, live minuto per minuto. Il mondo dell’informazione fa il suo mestiere, ma mai come a questo giro, nel vortice del “bisogna dire qualcosa, tutto purché lo si dica subito” si è azzerata la distanza, anche temporale e cronologica, tra fatti e opinioni, conoscenza e giudizio. Non è una novità assoluta, ma questo percorso che porta ad una pressochè totale mancanza di riflessione genera, ha generato, tante parole vuote e prive di senso.

E al di là delle parole di politici che portano avanti aprioristicamente le posizioni dei propri partiti, soffiando sul fuoco per loro convenienze, tra gente comune e opinionisti abbiamo provato a leggere che tutti i terroristi sono musulmani, facilitando un’equazione che indignerebbe tra gli altri Ahmed, agente di fede islamica ucciso nell’assalto al Charlie Hebdo mentre tentava di fermare i terroristi, così come a suo modo Andres Breivik, autore della strage norvegese del 2011 con 77 morti.
Abbiamo letto di un 11 settembre europeo, che fa tanto sensazionalismo ma di fatto è un paragone che fatica a reggere (tra l’altro, dimenticandoci così degli attentati di Madrid 2004, 191 morti, e Londra 2005, 56 vittime).
Abbiamo letto difese assolute della satira, tanto che chi ha osato mettere in dubbio l’opportunità di questa su alcuni argomenti (religione, sì, ma anche omosessualità, razza, episodi con vittime) è stato tacciato di connivenza con i terroristi, spesso dai primi che si sono da indignati o hanno censurato la satira quando questa ha toccato il proprio gruppo sociale.
Abbiamo letto di guerre di religione, e allora anche su questo diventiamo tifosi: da una parte dicendo che l’Islam “non c’entra nulla con questo”, rischiando di nascondere questioni interne a questa religione e ad estremisti ad essa collegati, dall’altra con titoloni a 9 colonne che fotografano e descrivono una religione solo con i fatti di Parigi, come se ad esempio identificassimo il Cristianesimo solo con le crociate, e con buona pace dei tantissimi musulmani che ancor più di altre volte stanno dicendo pubblicamente #notinmyname.

matita charlie hebdoSui fatti di Parigi ci è mancata un po’ la dimensione del silenzio. Abbiamo subito detto la nostra, sentenziato, forse lavandoci così un po’ la coscienza, ma senza un vero momento di tristezza e com-passione, per quanto avvenuto. Ma per silenzio intendiamo anche altro. Quando vivevo a Gerusalemme, una frase ascoltata mi ha molto colpito: “Chi rimane a Gerusalemme una settimana torna e scrive un libro, chi rimane un mese torna e scrive un articolo, chi rimane per più tempo ritorna e non scrive nulla”. Sembra un paradosso, ma proprio davanti a quanto accaduto, occorre trovare spazio per momenti che vadano oltre un vociare isterico che dà pugni nell’aria, ma che siano possibilità per ascoltare, approfondire, formarsi una opinione, consapevoli anche che più si entra in un tema, più ci si rende conto che questo è complicato, ci sono tanti aspetti da considerare, tutt’altro che semplici da riassumere in due tweet che dicano bianco piuttosto che nero.

Infine, e per certi versi soprattutto, c’è un altro silenzio di cui vogliamo parlare. Boko Haram, Nigeria. Per quanto suoni sempre un po’ cinico fare paragoni sul numero di vittime, per l’ennesima strage si parla di 2000 morti. 2000. Duemila. Dovremmo parlare di genocidio organizzato, dovremmo muoverci per fermarli, e invece qui c’è un gran silenzio, che a questo giro vuol dire menefreghismo, disinteresse. Troppo lontano. Mesi fa, una persona conduttrice di un noto talk show italiano disse: “Catturate Boko Haram”, convinta che fosse un uomo e non una organizzazione terroristica: basti questo. Quanti Tg ne hanno parlato, ieri sera? Anche questo, di silenzio, ci fa dire che nel nostro parlare c’è qualcosa che non torna.

Come Caffè, ci siamo detti di aspettare un giorno prima di scrivere, anche per quanto abbiamo sottolineato qui. 30 ore dopo l’assalto al Charlie Hebdo, abbiamo pubblicato una analisi in cui con 5 domande e 5 risposte abbiamo provato a capirne di più, su cosa sta dietro ai fatti di Parigi. Oggi allarghiamo lo sguardo e proviamo a condividere le nostre conoscenze e competenze, con uno speciale sul Jihad in Europa. Il nostro prossimo approfondimento, poi, sarà proprio su Boko Haram.
Perché quel silenzio, a noi, fa un po’ venire voglia di urlare, e con i nostri mezzi e capacità vogliamo provare a dirlo.

di Alberto Rossi

Cruel
La vignetta che Cruel ha disegnato per Il Caffè Geopolitico

Islam, terrorismo, Europa

L’Islam vive in questi anni una grande crisi esistenziale sul suo territorio di origine. Subbuglio politico, religioso e ideologico i cui effetti, una parte dei quali negativi, raggiungono il territorio europeo. Vediamo come e perché

[tabs type=”horizontal”][tabs_head][tab_title]Islam politico[/tab_title][tab_title]Homegrown terrorism[/tab_title][tab_title]Foreign fighters[/tab_title][/tabs_head][tab] di Sara Brzuszkiewicz

In queste ore risulta arduo comprendere se, oltre al desiderio di vendetta, i due presunti attentatori Cherif e Said Kouachi si riconoscessero in un effettivo progetto politico, se e quanto i profili dei foreign fighters e dei lupi solitari in Europa, ma anche delle cellule organizzate, si possano inserire in un quadro di riferimento che si ispiri allo Stato Islamico e quanto invece la deriva jihadista dei singoli sia determinata da fattori individuali specifici. Ciononostante, è indispensabile riconoscere l’esistenza di un complesso dibattito sul rapporto tra Islam e politica, oggi più che mai in via di riconfigurazione. 

L’ISLAM TRA POLIS E POTERE – Analizzare gli attuali trend di pensiero e azione sul tema dell’Islam politico si rivela doveroso, considerato anche l’altissimo grado di strumentalizzazione al quale esso è esposto in Occidente come nel dār al-Islām, i territori a maggioranza musulmana.
La questione del rapporto tra Islam e istituzioni politiche si riallaccia a dibattiti come quello sulla relazione tra Islam e democrazia e sull’universalità o relatività della concezione di quest’ultima, alla storia dei rapporti tra Islam e Occidente, al tema delle libertà individuali, nonché ad altri interrogativi sollevati con forza già dagli schieramenti riformisti e modernisti nel diciannovesimo secolo, nel quadro di un ripensamento dei modi di vivere l’Islam moderno tra tradizione e innovazione.
Lungi dal costituire mere speculazioni dottrinali, questi interrogativi influiscono ancora oggi sulle religiosità di milioni di musulmani d’Occidente, che in Europa sono circa 17 milioni e in Francia rappresentano il 9% della popolazione.
Affrontare il tema dell’Islam politico in Europa significa attribuire a tale dicitura due significati primari. Il primo è quello relativo ad un Islam calato nella polis, attivo nella società civile e inserito nelle cittadinanze europee con scopi e ruoli di vario tipo, non necessariamente spinto dall’obiettivo di accedere al potere politico comunemente detto. In questa accezione l’Islam politico è quello delle molteplici organizzazioni islamiche europee, quali in Italia l’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia (UCOII) e in Francia quelle nate nell’alveo della Grande Moschea di Parigi, il Rassemblement des musulmans de France e l’Union des organisations islamiques de France.
Esse costituiscono realtà di sostegno alla cittadinanza, mobilitazione caritatevole per le vittime di violenza o disastri all’estero e in patria, svolgono azioni di advocacy e intrattengono relazioni con le istituzioni statuali rivendicando una piena possibilità di manifestare il proprio credo, come nel caso dell’intricata questione della costruzione della moschea a Milano, città nella quale previsti 2 milioni di visitatori musulmani per Expo 2015.
Nei giorni scorsi la reazione dell’UCOII è giunta già poche ore dopo l’assalto a Charlie Hebdo, per bocca del Presidente dell’organizzazione Izzeddin Elzir attraverso i media italiani, con un comunicato stampa e con la partecipazione alle manifestazioni di solidarietà al popolo francese davanti all’Ambasciata a Roma ed al Consolato a Milano.
Oltre all’operato delle organizzazioni islamiche, anche la spesso discussa azione di alcuni intellettuali musulmani in Europa si rifà a questa prima accezione di Islam politico. Si pensi al contributo del ginevrino di origine egiziana Tariq Ramadan, nipote del fondatore dei Fratelli Musulmani Hasan al-Banna, professore di studi islamici in alcune università europee e presidente della European Muslim Network (EMN), che ha a sua volta condannato duramente il gesto mettendo però in guardia dal potenziale rinvigorimento dell’islamofobia latente in alcuni bacini sociali europei.

GLI ODIERNI ESPERIMENTI DI ISLAM POLITICO – In secondo luogo, parlare di Islam politico significa affrontare il tema dell’unione tra religione ed istituzioni statuali, tra fede e potere temporale. Esso è un aspetto della questione assai più complesso del primo ed ha attirato le riflessioni della comunità intellettuale musulmana già dal 632 d.C, anno della morte del profeta Muhammad.
Proprio allora ebbero accesso al potere i primi califfi, da khilāfa, “successione”, in questo caso di Muhammad a capo della nascente comunità di credenti.
E proprio il famigerato califfato dello Stato Islamico costituisce il progetto di Islam politico di cui oggi più spesso si parla.
Alla fine del giugno scorso infatti, l’ISIS ha proclamato a Mosul l’istituzione del califfato con a capo Abu Bakr al-Baghdadi e la propria trasformazione in Stato Islamico.
Nel quadro delle differenti concezioni di Islam politico, nel settembre successivo più di cento sapienti islamici provenienti da più Paesi sono stati i firmatari di una lettera aperta ad al-Baghdadi nel quale rifiutavano le interpretazioni del Corano e della Sunna fornite dai seguaci dell’ISIS e la persecuzione degli yazidi.
Oggi e nei secoli scorsi infatti, non per tutti i musulmani l’Islam ha coinciso con dīn wa dawla, “religione e Stato”. Si pensi al pensiero del liberale egiziano scomparso due anni fa Muhammad Said al-Ashmawi, autore nel 1990 di un’opera che porta proprio il titolo L’Islam politico. Al-Ashmawi sosteneva, con altri, che la religione debba rappresentare soltanto il fondamento morale ed etico dello stato e che nell’Islam ci sia una linea netta e chiara di demarcazione tra l’azione divina e quella umana, quest’ultima incaricata del potere temporale.
Ma già molti decenni prima un altro intellettuale egiziano,’Ali ‘Abd al-Raziq nel 1925 pubblicava L’Islam e le basi del potere, evidenziando come la confusione tra Islam e potere politico fosse stata voluta storicamente dai detentori del potere in funzione dei loro propri interessi e che nella Rivelazione musulmana non ci siano sufficienti elementi per sostenere che l’Islam indichi una determinata organizzazione della società e forma di potere. Il califfato si sarebbe quindi arrogato indebitamente, e nel caso dell’IS si arroga tuttora, il carattere di governo islamico per eccellenza.
Assai diversa era invece la posizione del già citato Hasan al-Banna, fondatore nel 1928 in Egitto dei Fratelli Musulmani. L’insegnante di scuola primaria avvertiva di come l’Islam fosse l’Islam fede e culto, patria e nazionalità, religione e stato, spiritualità e azione, Libro e spada.
Nonostante gli Ikhwan (Fratelli) abbiano sempre costituito un’organizzazione eterogenea, nella quale non tutti sono stati a favore di un diretto coinvolgimento del gruppo in politica, i Fratelli Musulmani costituiscono oggi, dopo il Califfato, la seconda concezione di Islam politico di cui più si dibatte.
A completare il quadro dei maggiori esperimenti di Islam politico è poi il fenomeno Ennahda, il partito politico di matrice religiosa uscito sconfitto dalle ultime elezioni parlamentari in Tunisia dopo il successo del 2011.
Si autodefinisce e viene definito islamico e non musulmano, accogliendo la consuetudine sempre più diffusa che distingue i musulmani, ovvero fedeli alla rivelazione dell’Islam, dagli islamici, credenti convinti della necessità della non separazione tra religione e politica.
Come per le altre prospettive qui tracciate, anche seguire le prossime tappe dell’evoluzione storico-politica di Ennahda si rivelerà proficuo per l’Europa, in particolar modo considerando i consensi di cui il partito islamico moderato gode nel Vecchio Continente, avendo ad esempio battuto Nidaa’Tunis in Italia alle scorse parlamentari con un risultato che ribaltava quello conseguito in patria.

FUTURO PROSSIMOIslam politico è oggi un concetto estremamente ampio, dislocato lungo un continuum formato dai diversi significati che individui, organizzazioni della società civile e partiti politici costituiti attribuiscono all’idea. Al di là della coincidenza tra religione e politica che alcuni auspicano ed altri paventano, certo è che oggi l’Islam rappresenta un soggetto politico concreto dotato di agency crescente, dal quale l’Europa difficilmente potrà prescindere tanto in politica interna quanto estera. 

 

http://gty.im/2759542

Musulmani in preghiera davanti alla Grande Moschea di Parigi 

[/tab][tab] di Beniamino Franceschini

BREVE STORIA – Non è semplice riuscire a tracciare una storia dell’homegrown terrorism europeo, soprattutto perché la diffusa eterogeneità dei singoli casi si sovrappone alle specificità di ciascun Paese – basti considerare, per esempio, le diverse dinamiche migratorie. Un primo ingresso di jihadisti in Europa si ebbe già negli anni Ottanta, con molti combattenti o simpatizzanti della causa provenienti dal Nordafrica e dal Medio Oriente che ottennero lo status di rifugiati politici. Si trattava, comunque, di un contesto diverso da quello attuale: tra i gruppi estremisti nei vari Paesi spesso non c’erano contatti, mentre era riscontrata una rigida gerarchia interna connessa direttamente alla base centrale. Oltretutto, nonostante l’ostilità nei confronti del modello occidentale, l’obiettivo principale restava l’azione nei rispettivi Paesi d’origine, a meno che non si individuasse un nesso tra lo Stato e la lotta del loro gruppo (per esempio gli attentati organizzati da algerini in Francia negli anni Novanta). La situazione, però, ha subìto una modificazione col nuovo secolo, principalmente per tre ragioni:

  • E’ cambiata la demografia europea: se nei precedenti venti anni i gruppi jihadisti erano composti da immigrati di prima generazione, all’alba del Duemila c’erano già molti musulmani nati e cresciuti in Europa, perfettamente integrati e spesso – non in Italia, dove la legge è diversa – cittadini europei.
  • Numerosi militanti storici erano stati colpiti da provvedimenti d’espulsione.
  • L’avvento di al-Qaida aveva condotto a un superamento della divisione per nazionalità dei jihadisti, in favore di un network unico e sovranazionale ispirato alla comune lotta che i combattenti musulmani avevano condotto indipendentemente dalla propria origine in Afghanistan o Bosnia.

Le cellule europee ebbero un ruolo fondamentale per l’affermazione di al-Qaida, poiché ormai ben inserite nelle dinamiche occidentali e capaci di individuare obiettivi di grande impatto emotivo e mediatico. Non è una caso che gli attentatori dell’11 settembre siano passati da Amburgo. La reazione dei Paesi europei portò a un indebolimento del network di al-Qaida nel Vecchio continente ed è per questo che negli ultimi dieci anni sono cominciati a sorgere – in particolare nel Nord Europa – piccoli gruppi autonomi composti da giovani di cittadinanza europea che cercano di entrare in contatto con le maggiori organizzazioni (tuttora presenti) per recuperare risorse, mezzi, addestramento da impiegare nel jihad all’estero o contro il Paese d’origine.

I COLLEGAMENTI – Individuare il passaggio tra una persona che compie la vita di ogni giorno e un fanatico pronto a uccidere e morire è un’attività complessa e senza riferimenti precisi. Ogni jihadista ha la propria storia alle spalle, cosicché non è possibile tracciare un profilo medio del combattente islamico, né individuare alla sola osservazione un individuo inserito in determinati gruppi. Tuttavia è possibile trovare ambienti che potrebbero favorire fenomeni di radicalizzazione. Al giorno d’oggi è assai improbabile che un soggetto aderisca a una formazione estremistica tramite reclutamento. Non ci sono tanti casi di figure inviate a cercare proseliti e con il preciso incarico di “curare” i giovani per prepararli all’ingresso nell’organizzazione, sulla base del modello di alcuni gruppi nordafricani e mediorientali degli anni Ottanta. A quanto pare, invece, nell’Europa dei correnti anni Dieci la dinamica è diversa: la radicalizzazione avviene spontaneamente, spesso tramite contatto diretto e internet. Molti hanno il primo incontro con contesti radicalizzati tramite conoscenti, ma il percorso all’inizio è soprattutto interiore e psicologico, con la maturazione – vera o presunta – della propria identità di musulmano chiamato al jihad. E non è detto che il percorso sia affiancato da altre figure, anche se i gruppi estremistici hanno quasi sempre un riferimento religioso o giuridico islamico. È interessante notare che in Europa non esista un reclutamento in senso tradizionale, bensì un avvicinamento bottom-top del singolo alla formazione. Ci sono dei facilitatori, che operano con maggiore o minore margine d’azione per individuare soggetti già inseriti in network estremistici o aiutare i jihadisti a raggiungere la Siria o l’Iraq. E, contrariamente all’opinione pubblica, c’è uno scarso contatto con le grandi moschee e una predilezione per la dimensione interna al gruppo.

IL RAPPORTO CON LE MOSCHEE – Ci sono episodi di elementi considerati pericolosi che sono stati allontanati (anche pubblicamente) dalle moschee in quanto non graditi – sebbene la denuncia alle Autorità non sia sempre seguita. Allo stesso modo, però, ci sono molti aspiranti jihadisti che frequentano le moschee senza esprimere apertamente le proprie tendenze, proseguendo sul quel cammino di interiorizzazione e segretezza accennato poco sopra. In tal senso essi possono considerare corrotti anche i musulmani moderati. Ci sono esempi di moschee che tollerano e anzi incoraggiano il jihad, ma, paradossalmente, le inchieste in Europa dimostrano che di frequente i terroristi autonomi non frequentano le comunità musulmane (anche per la scarsa conoscenza dell’arabo), oppure preferiscono restare in silenzio dietro lo schermo di quelle moderate. In altre circostanze, invece, gli aspiranti terroristi non fanno mistero delle proprie intenzioni, dichiarando apertamente posizioni violente. Tra l’altro questo è anche uno dei motivi per i quali molti autonomi non riescono a integrarsi nei network maggiori: il loro atteggiamento metterebbe in rischio tutto il gruppo. Ecco quindi che gli aspiranti jihadisti, incapaci di resistere all’interno delle comunità islamiche o allontanati, si ritrovano nel mondo virtuale.

IL RUOLO DI INTERNET – Stiamo vivendo nell’era del completo fai-da-te: tramite le reti informatiche si cercano ormai tecniche di pittura, ricette gastronomiche, diagnosi mediche, video di predicatori yemeniti, istruzioni per costruire una bomba, tutto posto sullo stesso piano dal livellamento verso il basso e la massificazione della società di internet. Nei vuoti giuridici, nel confine tra libertas e licentia, nel parossismo della circolazione di informazioni a prescindere, gli individui procedono a un autonomo processo di radicalizzazione. Tramite il web si entra in contatto con persone che la pensano allo stesso modo e si accede a materiale dedicato. Ci sono decine di siti, directory, newsletter che permettono il diffondersi dell’ideologica estremistica, sfruttando gli stessi strumenti di persuasione e creazione del bisogno che pure essi ritengono peculiare del declino occidentale – lo Stato Islamico è maestro in questo. La nuova generazione di jihadisti non ha bisogno di conoscere l’arabo, perché è di madrelingua inglese, francese o tedesca, mentre i video dei grandi predicatori sono sottotitolati. Con i social network non è mai stato facile come oggi tenere i contatti, diffondere informazioni e recuperare conoscenze perdute. Ma, per esempio, proprio tramite Facebook emergono molti aspetti interessanti, ossia il doppio binario della vita degli homegrown terrorist o aspiranti tali: magari a fianco del nuovo comunicato di al-Baghdadi è pubblicato l’ultimo video di Beyoncé. L’estremismo diventa anch’esso un aspetto normalizzato da condividere con gli amici, che in qualche occasione cedono al “mi piace” – che, comunque, secondo la Legge italiana è giuridicamente rilevante. Certo, non è detto che da Facebook si passi all’azione (anzi, è molto raro), così come avviene per altri estremismi dilaganti virtualmente, ma il monitoraggio è fondamentale.

COME AVVIENE LA RADICALIZZAZIONE? – Non è facile da dirsi, perché il percorso è spesso individuale, una sommatoria tra background, propensione e ambiente esterno. Similmente è individuale la scelta di andare a combattere all’estero o di colpire in casa propria, dato che alcuni militanti hanno sostenuto il dovere islamico del jihad in Siria, ma la necessità islamica di non attaccare i civili occidentali. Una delle idee più diffuse è che l’homegrown terrorism abbia radici dirette nell’assenza di integrazione intesa come marginalità sociale e povertà economica. Tuttavia recenti studi dimostrano che, in fondo, questa connessione ha una scarsa incidenza statistica: tra i combattenti islamici ci sono tutte le classi sociali, non mancando soggetti benestanti e con un alto livello d’istruzione. Provocatoriamente ci si potrebbe chiedere, in questo senso, perché tra gli immigrati di religione islamica il fenomeno del terrorismo sia così ridotto. La questione è rilevante, perché il nesso tra marginalità e radicalizzazione esiste oggi con l’Islam come ieri col terrorismo politico. Eppure a incidere davvero è il vuoto che molti immigrati di seconda generazione percepiscono, restando in bilico tra la scelta delle famiglie e le società che essi non sentono come proprie. Spesso in questi casi subentra anche il rancore nei confronti dei genitori, che hanno abbandonato le proprie origini solo per il miglioramento delle condizioni economiche. Talvolta nella radicalizzazione c’è un senso di straniamento, l’idea che non vi sia coerenza tra l’essere e la realtà esterna. In poche parole, una crisi d’identità. Algerino di nazionalità francese o francese di origine algerina? Somalo relegato al ruolo di taxista a Helsinki o destinato a rendere Helsinki la propria Mogadiscio? Musulmano arrivato in terra cristiana con il fardello della Storia, quindi obbligato a rendere quella terra cristiana la propria terra musulmana? Detto ciò, ci son anche non musulmani convertiti e radicalizzati, come l’italiano Giuliano Delnevo, morto in Siria, il quale, comunque, prima di passare all’Islam aveva provato la via antisistemica dell’estrema destra. E questi sono processi interiori che risentono del contesto sociale nella propria interezza: un’Europa in crisi politica e morale, ancor prima che economica. In questo senso, non dimentichiamo che molti fenomeni di radicalizzazione avvengono in due dei fronti principali della marginalità psico-sociale contemporanea, ossia le periferie e le carceri (e sembra che gli autori del massacro alla rivista Charlie Ebdo si fossero radicalizzati proprio in un penitenziario): da un lato gravi errori di programmazione politica e urbanistica che rendono interi quartieri baratri sprofondati del nulla, dall’altro le galere sovraffollate e private sia del loro compito rieducativo, sia di quello punitivo, cioè trasformate in soste senza speranza. E anche se il fenomeno dell’homegrown terrorism in Italia è tuttora limitato, tenere un occhio su ambienti che favoriscano la marginalità psico-sociale è un dovere strategico.

 

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Oggi la radicalizzazione passa spesso per internet e l’Islam-fai-da-te piuttosto che dalle moschee

[/tab][tab] di Marco Arnaboldi

Il fenomeno dell’home-grown terrorism è radicalmente collegato a quello dei foreign fighters. Nel campo di analisi del jihadismo, la locuzione foreign fighter è utilizzata per indicare un individuo che prende parte a un jihad combattuto in uno Stato diverso da quello in cui vive. 

L’ORIGINE IN EUROPA – Il primo caso di jihad con una forte componente di combattenti europei è stato quello bosniaco del 1995. Da allora, minoranze di combattenti provenienti dal Vecchio Continente sono state osservate in maniera più o meno netta in tutti gli scontri a sfondo jihadista che seguirono, tra cui quelli in Mali, Cecenia, Somalia, Siria, Yemen e Iraq.
Quello dei foreign fighter è un tema di forte preoccupazione per le agenzie di sicurezza. Sono essenzialmente due le questioni più scottanti legate a loro: da un lato essi sono indice di una scena jihadista, formale o informale, presente sul territorio di partenza; dall’altro, una volta tornati nel Paese di origine, questi pongono un rischio alla sicurezza dello stesso. Cerchiamo di seguito di analizzare entrambe le questioni.
La prima ondata di partenze in direzione Europa – Levante, fra il 2011 e il 2013, è stata un fenomeno verticale, in cui aspiranti jihadisti europei, radicalizzati in maniera per lo più autonoma o in collettivi ristretti, cercavano sul proprio territorio individui in grado di rendere possibile il linkage: bridging person con un bagaglio di agganci e conoscenze adeguate per assicurare la riuscita dell’operazione.

DINAMICHE DI SCIAME – Gruppi quali Sharia4, Profetens Umma, Fursan al-‘Izza e Ansar al-Sunna sono stati funzionali alla maggior parte dei casi di collegamento, tanto che il loro coinvolgimento, in assenza di altri pattern operativi, è stato spesso dimostrato in maniera negativa: scarsi numeri di foreign fighters in determinati Paesi sarebbero dovuti alla poca penetrazione dei suddetti gruppi in quelle regioni. Seppure l’ importanza di questi network sia indiscutibile, oggi non sembra più reggere la comparazione fra alti numeri di foreign fighter e una sviluppata scena jihadista nello stesso Stato.
La nozione primaria da tenere a mente è che la dinamica di radicalizzazione e collegamento oggi tende sempre più all’orizzontalità: bottom – bottom, dal basso verso il basso. Questo tipo di meccanismo, in cui valgono sempre di più i giri di amicizia, la condivisione di materiale e la reciproca fiducia, porta con sé importanti conseguenze pratiche.
Per prima cosa, ci si svincola dalla necessità di una scena jihadista territoriale, abbandonando il concetto di gruppo a favore di quello aggregazione (o, come le agenzie di intelligence suggeriscono, di sciame). Questi sciami non conoscono gerarchia, sono estramemente fluidi, gli elementi al loro interno sono facilmente sostituibili, ed ogni membro è in grado di influenza e indirizzare il volo collettivo.
Seconda importante conseguenza: la condivisione totale di know-how e la facilità dei modelli replicativi offerta dai social network rende ogni potenziale destinatario/consumatore di materiale anche un potenziale mittente/produttore.
Terza conseguenza: la tendenza della propaganda online verso forme sempre più radicali di contenuti, e l’aumentata relativa facilità con cui si può passare dalla teoria (il jihadista da tastiera) alla pratica (dal sostegno dell’attivista, al versamento dei fondi, alla partenza), appiattiscono fortemente la differenza fra i due strumenti classici dell’islamismo, la da’wa e il jihad, profilando una pericolosa via mediana ibrida fra i due e sgretolando gli estremi del profilo del foreign fighter verso forme meno definite e ancor più subdole da monitorare. Si hanno così fighter sempre meno foreign, ma che anzi si radicano profondamente nella propria società, e foreigner sempre meno fighter, che apportano al gruppo di destinazione altri expertise e assolvono a funzioni extra-belliche. Da ultimo, in altri contesti ancora, in alcuni Paesi non europei è vero il contrario della tesi di partenza: sarebbero proprio l’assenza di piattaforme jihadiste interne e il clima di estrema repressione la causa della militanza all’estero.

I RISCHI – Per quanto invece riguarda il calcolo dei rischi posti dal ritorno dei foreign fighters, la situazione è, se possibile, ancora più complessa. Si calcola generalmente che di tutti i combattenti stranieri che sopravvivono al jihad e decidono di tornare indietro (e riescono a farlo), uno su nove tenta l’azione violenta anche nel proprio Paese. Se consideriamo quindi il caso del jihad siro-iracheno, con circa 3.000 combattenti europei e un tasso di fatalità del 20%, e poniamo che dei sopravvissuti l’80% voglia e riesca a tornare, l’Europa conoscerebbe 210 futuri casi di violenza di matrice islamica. Se consideriamo che nell’arco di 24 ore il monitoraggio di un individuo richiede dalle 20 alle 25 persone, si capisce che risulta utopico pensare alla sicurezza in termini assoluti. La comunità dei returnees porterà inevitabilmente a ulteriori prove di violenza come quella di Parigi.
Eppure, in termini assoluti, la minaccia è ben più ampia. Quello dei foreign fighter è un fenomeno che si auto-alimenta in un processo di continua partenza e ritorno di individui, che, quando in loco, creano legami, e quando indietro, li sfruttano per nuovi agganci. Ma esiste anche un rischio immateriale: quello della polarizzazione ideologica, della diffusione di un pensiero anti-democratico e politicamente estremista, e della segregazione settaria, espressione della tensione fra gruppi sciiti e sunniti all’interno di capitali europee, così come fra progressisti e salafiti, fra musulmani ed ebrei.

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Un combattente del fronte Al-Nusra in Siria 

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Le grandi responsabilità

L’Europa, intesa sia come Unione dei 28 Paesi UE che come insieme dei 47 Paesi del continente, ha la responsabilità di orientare le proprie scelte interne ed internazionali per far fronte alla minaccia, non solo sul campo. Due settori in particolare hanno mostrato lacune da colmare al più presto: politica estera ed economia

[tabs type=”horizontal”][tabs_head][tab_title]Politica estera[/tab_title][tab_title]Economia[/tab_title][/tabs_head][tab]

di Marco Giulio Barone

Il fenomeno del Jihad in Europa non è un trend a sé stante e autoprodotto. Esso si colloca piuttosto in un contesto più ampio che include quanto avviene in Africa e in Medio Oriente. I fatti di Parigi sottolineano quanto già risaputo: occorre una riflessione politica profonda sul ruolo dei Paesi europei in quelle regioni. L’Europa non può tirarsi indietro, è già coinvolta. Ma i leader europei devono avere il coraggio di scegliere tra l’abbandonare il campo e proseguire l’impegno seriamente. La via di mezzo attuale non aiuta a privare il jihadismo internazionale del background ideale per la propria proliferazione e alimentazione, da al-Raqqa a Parigi

LA FUCINA DELL’ISLAMISMO – Dal 2011 in poi il Medio oriente, il Nord Africa e l’Africa sub-sahariana rappresentano un’area di grande instabilità alle porte dell’Europa. Le crisi più importanti, ancora in corso, riguardano la Siria, la Libia, il Mali e la Nigeria. L’elemento principale che contraddistingue questi conflitti è l’estrema frammentarietà del panorama politico locale. Nessuna forza ha preso il sopravvento sulle altre in maniera preponderante e, falliti i tentativi dei rispettivi Governi di reprimere ed eliminare le forze di opposizione, i modelli di Governo che si sono creati sui territori ormai spaccati si rifanno perlopiù a rapporti tribali o di connivenza tra elemento religioso estremo e feudi locali. Inoltre, gli Stati adiacenti che sono sopravvissuti agli scossoni della cosiddetta Primavera araba – come Algeria, Tunisia, Libano – sono precari e sotto la continua minaccia che i fenomeni più violenti come quello dell’islamismo militante penetrino anche nel proprio territorio e nel proprio tessuto sociale. Per l’Europa, contesti del genere non rappresentano una minaccia diretta in senso militare. Anzi, la caduta di regimi come quello di Gheddafi e l’indebolimento degli attori più forti come l’Egitto o l’Algeria ha del tutto annullato la possibilità di trovarsi di fronte a forze armate vere e proprie con capacità operative di rispetto. Questo non ha portato all’annullamento delle minacce alla sicurezza dei Paesi europei, ma ad un cambio nella loro fisionomia. Un nemico chiaramente identificabile, con bandiere e divisa, è facile da contrastare con un minimo di pianificazione strategica. Tuttavia, la minaccia che oggi proviene all’Europa dalle aree di crisi e dai Paesi rimasti in piedi ma instabili non si palesa immediatamente. E’ molto più subdola e corrode la sicurezza dei cittadini europei lentamente. La minaccia proveniente da quei territori comprende oggi il flusso di combattenti jihadisti intenzionati a colpire sul suolo europeo ma anche traffici di armi, organi, ed esseri umani. A sud del Mediterraneo si è formata una grande fucina di idee e azioni pericolose sia per i territori su cui insistono che per il nostro continente. Sotto osservazione i questi giorni la diffusione dell’islamismo militante. Questo esisteva anche prima che il Medio Oriente e parte dell’Africa andassero in pezzi, ma la situazione attuale consente ad Emiri e Califfi – come i capi dei gruppi più importanti si autodefiniscono – di spadroneggiare su territori molto più estesi, reperire risorse economiche prima impensabili e, soprattutto, allargare a dismisura il loro bacino di reclutamento. Impresa particolarmente facile in regioni dove larghe fasce della popolazione sono alla disperazione e la militanza in formazioni come lo Stato Islamico, Ansar al-Sharia o Boko Haram rappresenta addirittura un’opportunità rispetto alla prospettiva di una morte per stenti. Nonostante ciò, questa enorme fucina non ha la capacità di attaccare l’Europa frontalmente. Eppure i macro-trend e le capacità che vi si sviluppano corrodono la sicurezza europea giorno dopo giorno. Soprattutto se le idee radicali trovano terreno fertile anche tra le fasce emarginate della popolazione dei Paesi europei, e non solo tra la popolazione islamica (si pensi al fenomeno delle conversioni). In questo periodo di depressione economica, la quantità di persone e ambienti sociali che possono essere preda dei modelli e delle prospettive jihadiste è in aumento, creando un’ulteriore vulnerabilità per il nostro spazio geopolitico.

EUROPA E INTERVENTISMO – E’ stato detto tante volte: l’Europa deve fare di più in Medio Oriente e Africa. Ma cosa significa fare di più? L’Unione Europea e i singoli Stati membri sono già impegnati su più fronti per contrastare il terrorismo di matrice islamica. Ma l’impegno è ambiguo. Il problema reale è che i singoli Paesi membri stanno intervenendo in maniera individuale e con poca coordinazione, oltreché in modo poco incisivo. Una delle ragioni per cui la Francia è un obiettivo particolarmente gettonato è data dal suo corposo impegno internazionale, che si estende dall’Africa occidentale all’Iraq del nord. Tuttavia, qualche migliaio di uomini e un pugno di cacciabombardieri rappresentano un contributo importante alle coalizioni nelle quali la Francia opera, ma non risolutivo. Lo stesso si può dire per gli altri contributi, compreso quello italiano, alle campagne internazionali contro Boko Haram, Ansar Dine, lo Stato Islamico, ecc. Ciascun Paese vuole dimostrare di fare la propria parte, nessuno però si vuole compromettere troppo di fronte alla comunità internazionale e, soprattutto, all’opinione pubblica. Quest’ultima da un lato chiede che si faccia qualcosa, dall’altra difficilmente appoggia gli interventi all’estero. Ma urgono scelte di campo.
Se i Paesi europei intendono fermare il trend attuale in maniera attiva, si deve intervenire direttamente nelle aree che generano flussi di terroristi, armi, schiavi e quant’altro. Farlo non significa mostrare la bandierina e mandare due aerei e qualche soldato nel goffo tentativo di ottenere credito internazionale senza appesantire il bilancio nazionale (per non scontentare nessuno, minimo sforzo e massimo risultato). Voler invertire la tendenza in Medio Oriente e Africa potrebbe significare, ad esempio, imbastire operazioni militari complesse, magari a livello europeo viste le risorse e le capacità necessarie, sopportarne il costo economico e le perdite umane. Successivamente, accompagnare le aree bonificate verso la costruzione di modelli di governance che non calpestino le strutture sociali locali ma che garantiscano stabilità politica e sviluppo socio-economico.
Oppure, giocare sulla difensiva. In questo caso i servizi di intelligence interna andrebbero potenziati, le truppe all’estero ritirate, la protezione delle linee di comunicazione marittime e aeree demandata a Paesi instabili, che si dovrebbero quindi sostenere perché possano affrontare in autonomia le necessarie operazioni per schermare l’Europa. Insomma, i costi non sarebbero inferiori, con la differenza che non verrebbe versato sangue europeo. Inoltre, per seguire una via tendenzialmente isolazionista bisognerebbe rivedere tutto ciò che riguarda il concetto di sicurezza collettiva sia in sede UE che presso le Nazioni Unite. Uno sforzo politicamente non minore che assumersi la responsabilità di intervenire nello scacchiere internazionale ma che presenta alcuni vantaggi, ad esempio non si avrebbero perdite umane e le opinioni pubbliche sarebbero più accomodanti. I soggetti che rappresentano una minaccia continuerebbero ad esistere, ma forse ci contrasterebbero con meno accanimento. In ogni caso, dovremmo continuare a difenderci sine die.

Ma il vero problema è scegliere! La situazione attuale è la peggiore possibile. Al di là dei problemi di frammentarietà delle politiche europee, i singoli Paesi sono accomunati da un modo errato di gestire i propri rapporti con le aree di crisi. Paesi come l’Italia, la Francia e l’Inghilterra sono presenti abbastanza negli scacchieri a sud del Mediterraneo per poter essere identificati come nemici da entità ostili, statali e non. Non sono presenti abbastanza per evitare che queste possano nuocere.

L’EUROPA COME SOLUZIONE – L’attendismo politico non paga. Progetti ambiziosi come l’Euro sono stati inficiati dalla reticenza dei Governi nazionali di turno a perseguire la strada tracciata, anche a costo del fallimento collettivo. Per quanto riguarda difesa e sicurezza, si sta commettendo un errore simile. Le minacce esterne rappresentano un ulteriore incentivo alla fusione effettiva di capacità e strumenti militari che possano dare una risposta univoca e non fraintendibile alle minacce che si profilano nel prossimo futuro. Il carattere transnazionale delle minacce e la convenienza di dividere rischi e costi di azioni politiche pesanti ma ormai imprescindibili aggiunge un ulteriore elemento a favore di un percorso europeo unico. Se la minaccia dividesse i Paesi e li impaurisse al punto da rifiutare trattati come quelli di Schengen, il terrorismo internazionale avrebbe colto a Parigi una grande vittoria con uno sparuto manipolo di combattenti e pagando un prezzo umano relativamente esiguo. Un grandissimo risultato per il Jihad internazionale, una sconfitta disonorevole per l’Europa.

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Soldati francesi assegnati all’operazione Barkhane in Mali, lanciata ad agosto 2014 e ancora in corso

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di Davide Tentori

Gli attacchi di Parigi, seppur messi in atto su piccola scala e con un numero estremamente ridotto di persone, rivelano l’esistenza di un’organizzazione ben collaudata alle spalle: pensiamo all’addestramento fornito in Siria, alle armi di cui erano dotati gli attentatori, alla rete di fiancheggiatori le cui dimensioni non sono state peraltro ancora accertate.

I FLUSSI DI DENARO – Un modo per tentare di contrastare il terrorismo, che questa settimana si è riaffacciato con prepotenza in Europa, è quello di ostacolarne – e se possibile chiudere – i canali di finanziamento. Come abbiamo visto in un precedente articolo del “Caffè”, l’ISIS è riuscito ad ottenere ingenti finanziamenti, grazie a saccheggi, alla gestione dei proventi della vendita del petrolio sul mercato nero, e ai contributi di privati cittadini soprattutto dall’Arabia Saudita. Gli attentatori del “Charlie Hebdo”, tuttavia, hanno dichiarato di essere affiliati ad AQAP (Al-Qaeda in the Arabian Peninsula), che ha sede in Yemen, mentre il terrorista che ha preso in ostaggio i clienti di un negozio ha rivendicato la propria affiliazione all’IS. AQAP è meno dell’ISIS, che tra Siria e Iraq ha messo in piedi strutture simili a quelle di un vero e proprio Stato, ma si finanzia comunque con mezzi simili: riscatti, rapine, donazioni anche in questo caso dall’Arabia Saudita, che avrebbero fruttato all’organizzazione un giro di affari di 10 milioni di dollari l’anno.

IL RICICLAGGIO – Un modo che può aiutare a ridurre le aree grigie in Europa, che permettono alle cellule terroristiche di ritorno dai periodi di addestramento/combattimento in Medio Oriente, può essere quello di aumentare la trasparenza in materia fiscale. L’UE ha già diversi strumenti volti a combattere il riciclaggio di denaro: l’unico però con un valore giuridico vincolante è una direttiva del 2005sulla prevenzione dell’uso del sistema finanziario per i propositi del riciclaggio di denaro e del terrorismo”. Tale direttiva si occupa di argomenti come l’individuazione del titolare effettivo di una determinata attività, ovvero colui che beneficia dei proventi di tale business. Un principio molto importante, che è stato recepito anche a livello del G20 e che ha portato all’adozione, al vertice di Brisbane del novembre scorso, degli “High Level Principles on Beneficial Ownership Transparency”. Come si è visto, gli Stati europei hanno già fatto parecchi passi avanti in materia, si attende ora che uno Stato come l’Arabia Saudita, membro del G20, dia rapida e completa applicazione a queste norme.

LE CONTROMISURE – Tuttavia, una recente valutazione delle misure europee effettuate dal Parlamento Europeo, dimostra che i risultati sono finora difficili da stimare per l’insufficiente trasparenza delle istituzioni. Tra EU e Stati Uniti è in vigore dal 2010 un Terrorist Finance Tracking Programme (EU-US TFTP), che ha portato alla luce oltre tremila denunce. Tale meccanismo andrebbe potenziato in Europa, migliorando il collegamento tra UE e Stati membri, e potrebbe essere proposto anche a Stati nei quali il terrorismo ha fiancheggiatori e finanziatori, vedi l’Arabia Saudita. Dato che è necessario parecchio tempo per rendere operativi tali accordi, e che di tempo purtroppo non ve ne è molto, la comunità internazionale, ad esempio il G20, potrebbero iniziare ad occuparsene subito.

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Le attività economiche dei gruppi terroristici hanno acquisito dimensioni mai conosciute prima 

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Quale reazione, adesso?

di Lorenzo Nannetti

L’analisi di ciò che è avvenuto a Parigi, delle possibili conseguenze e delle minacce ulteriori di cui quest’azione può rappresentare un campanello d’allarme può essere fatta semplicemente in termini di “cosa è andato storto” oppure può rappresentare l’opportunità per una riflessione più profonda su come modificare l’intera prospettiva strategica europea sul come affrontare tali temi. In altre parole lo shock di quanto è successo a Parigi e il rischio di ulteriori eventi simili potrebbero essere la leva per, finalmente, giungere a una vera e propria strategia europea di contrasto al fenomeno del terrorismo – quello islamico in primis, ma non solo. Si tratta cioè di spostare il dibattito politico nazionale ed europeo dal monolite tematico dell’economia e dei problemi interni alla gestione delle sfide presentate da un mondo che è inestricabilmente legato a ciò che avviene anche fuori dai nostri confini. Mai come oggi infatti è possibile impiegare la spinta (anche emotiva) dei fatti di Parigi per cogliere finalmente quelle opportunità strategiche che, da troppo tempo ignorate, stanno invece diventando sempre più pressanti. Volendo riassumere in 2 concetti chiave, dovremmo parlare di pianificazione e coordinazione. Affrontare le sfide del terrorismo di matrice islamica non significa limitarsi a proteggere gli obiettivi sensibili, ma richiede strategie più complesse che vanno pensate e poste in atto. Allo stesso tempo, nessun Paese europeo può pensare di fare da solo o agire indipendentemente dagli altri, chiuso in quei confini e quei pregiudizi che costituiscono barriere per noi ma sono invece ignorate (o perfino sfruttate a proprio vantaggio) dai terroristi. Più in particolare questi due concetti vanno declinati in una serie di iniziative concrete o, meglio, di opportunità strategiche da cogliere. Eccole di seguito.

[toggle title=”Le diverse opportunità strategiche” state=”close” ]

  • Costruzione ed implementazione di un programma (nazionale, europeo) di resilienza civile. In pratica, dopo Parigi si rende urgente fare in modo che attacchi di questo genere provochino l’impatto più limitato possibile nei nostri sistemi sociali e politici. Se gli attentati non provocano terrore o tensioni sociali perdono gran parte della loro efficacia e in molti casi diventano una strategia inadeguata per gli stessi potenziali perpetratori. Approfittando dei riflettori accesi sugli argomenti legati al terrorismo internazionale – di cui si parla poco e male nel nostro Paese – cogliamo l’opportunità di lavorare alla costruzione di queste capacità in maniera sistematica e costante.
  • Maggiore coordinazione dei servizi di intelligence. In linea teorica questo già avviene, tuttavia ogni servizio di intelligence nazionale di fatto agisca indipendentemente (e a volte con sospetto verso) i servizi dei Paesi alleati. Ipotizzare un servizio di intelligence europeo appare difficile per le resistenze nazionali, tuttavia eventi come quelli recenti rendono più facile spingere per strumenti di coordinazione più stretta, fino al punto di aiuto reciproco per monitorare gli individui sospetti se non si hanno sufficienti risorse. E’ un bel bagno di umiltà per tutti, perché significa dichiarare di non essere in grado di fare da soli, ma Parigi ha dimostrato proprio come la mancanza di coordinamento REALE abbia fatto viaggiare indisturbati i perpetratori e le loro armi, pur sapendo i loro precedenti e legami con elementi di spicco del terrorismo islamico. Procedure comuni per lo screening agli aeroporti, porti e dogane è ugualmente necessaria, pur essendo consapevoli che non è possibile fermare tutti.
  • La creazione di un database comune dei foreign fighters e dei loro spostamenti. Anche in questo caso, in parte esiste già ma ogni nazione tende a concentrarsi solo sui propri. Con l’esistenza dello spazio Schengen, tale settorializzazione non ha senso. Ovviamente è legata al punto precedente.
  • Deradicalizzazione. Allocazione di maggiori risorse ai programmi di deradicalizzazione e reinserimento sociale. Questo dovrebbe avere anche il beneficio di portare sollievo alle fasce della popolazione più colpite dagli strascichi della crisi economica. I “banlieux” di Parigi come le periferie – intese in senso sociale più che fisico – in generale devono assottigliarsi sempre di più ed essere riqualificate, perché è nella miseria, mancanza di opportunità di sviluppo personale e dall’esclusione sociale che il terrorismo trova le reclute migliori. E’ una grande opportunità di rilanciare l’Unione Europea come istituzione dedicata ai cittadini in primis.
  • Definizione di una strategia comune sulla sicurezza euro-mediterranea, con particolare focus sulla prevenzione dei safe-haven terroristici (tipo Emirato di Derna in Libia). Un’iniziativa del genere, a cura dell’Alto Rappresentate EU Federica Mogherini è già previsto per maggio-giugno 2015: la chiave di tutto è far sì che non si tratti solo di una definizione di intenti generici, ma coinvolga una più chiara definizione degli ambiti dove l’UE deve considerare prioritario intervenire, sia dal punto di vista economico-culturale, sia da quello di intervento militare nel caso la situazione locale non abbia prospettive di soluzione autonoma a breve termine. In altre parole, laddove un intervento mirato all’estero possa causare l’eliminazione di una minaccia prima che essa varchi i nostri confini, la strategia EU dovrebbe prevedere la possibilità di farlo in maniera chiara (tramite un sistema di “triggers”, ovvero situazioni di allarme che, se avvenute/in procinto di avvenire in Paesi esteri considerati chiave l’UE considera particolarmente pericolose).
  • Ridurre veti agli interventi armati: Per quanto riguarda quest’ultimo punto, l’UE ha già uno strumento di intervento adeguato, anche senza chiamare in causa la NATO: l’istituzione dei Battlegroups europei.
    Tuttavia il problema nel loro uso è l’impossibilità di accordarsi politicamente circa la necessità di intervento. I fatti di Parigi e la definizione di una più concreta strategia comune dovrebbero portare a definire gli ambiti ove l’UE intera consideri prioritario l’intervento (e dunque un iter approvativo più snello e meno sensibile a veti dell’ultimo minuto). In altre parole, vanno definiti presto quegli ambiti ove la sicurezza UE risulta più importante dei differenti fini di politica estera dei singoli Paesi membri, dove tutti i Paesi concordano a priori sulla necessità di intervenire, così da evitare che una posizione divisa fermi ogni azione – come già successo in molti casi (ad esempio in Mali). Anche in questo caso, significa rinunciare a parte della sovranità nazionale sulle proprie truppe – e proprio per questo solo ora esiste la spinta emotiva per far passare una tale misura.

In realtà però tutto questo – e in particolare le misure militari – richiedono un passo preliminare. Lo indichiamo qui in fondo ma in realtà dovrebbe essere all’inizio, perché è da esso che dipende un po’ tutto: il coinvolgimento dell’opinione pubblica nella comprensione delle complesse dinamiche geopolitiche che, dall’estero, influenzano la sicurezza del nostro Paese e dell’Europa intera a tutti i livelli.
Lo sappiamo bene: l’opinione pubblica non approverebbe mai l’impiego di forza senza la comprensione di come le dinamiche estere (in Medio Oriente, in Nord Africa, altrove…) influenzino in realtà anche la vita in casa, sia dal punto di vista del terrorismo, sia dal punto di vista delle minacce, ad esempio, ai rifornimenti energetici. In altre parole l’UE e i singoli Paesi devono sforzarsi di far comprendere tutte quelle dinamiche che oggi sono causa dei rischi di sicurezza del nostro continente, per rendere il dibattito pubblico più maturo e consapevole. L’alternativa è una classe politica immobile, così costretta dalla necessità di appagare un’opinione pubblica che da un lato chiede di fare qualcosa, ma dall’altro non è poi mai disposta a farlo.

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