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Potenza di pace (1)

Torniamo ad analizzare il ruolo del nostro Paese nelle missioni di pace internazionali. Per comprendere le motivazioni strategiche della costante e cospicua partecipazione dell’Italia della seconda repubblica nelle cosiddette “missioni di pace” e di quelle di lotta al terrorismo – storicamente le meno comprese e più vituperate dall’opinione pubblica – si deve forse fare lo sforzo intellettuale di figurarsi l’Italia nell’ambito dei players mondiali e il ruolo che il nostro paese ha giocato – o ha quantomeno ambito a giocare – nel sistema internazionale degli ultimi vent’anni

 

(Prima parte) UNA “NUOVA” POLITICA ESTERA – Con la fine della Guerra Fredda, la vittoria del liberalismo e la spiccata auto-referenzialitĂ  dell’Occidente nel farsi garante di un ordine globale votato alla diffusione della stabilitĂ  e della democrazia hanno imposto a quegli stati che avevano scelto, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, di cavalcare questa specifica “idea di mondo” una radicale riformulazione delle loro prerogative: definire la propria collocazione internazionale, proiettare potenza oltre i confini nazionali e acquisire credibilitĂ  tra gli attori globali è andato progressivamente a coincidere, nell’ultimo ventennio, con la capacitĂ  di orientare la propria politica estera verso le aree geopolitiche instabili al fine di “fornire sicurezza” e garantirne il mantenimento.

 

L’ITALIA SI ADEGUA – Se ripensiamo agli anni ’90, è in questa chiave che dobbiamo leggere l’attivismo internazionale italiano in Somalia, Bosnia, Albania e Kosovo: esso ha risposto, in altri termini, alla primaria necessitĂ  per l’Italia di integrarsi nel nuovo sistema globale e di farlo, non sotto le vesti di chi asseconda per inerzia il mutamento sistemico, ma con la specifica ambizione di esserne, in certa misura, promotrice. La primazia di questo obiettivo strategico negli ultimi due decenni è stata, d’altra parte, tanto forte da appiattire nella sostanza le divergenze in politica estera tra i governi di destra e di sinistra: entrambi, infatti, hanno puntualmente approvato la partecipazione dell’Italia nelle missioni militari internazionali. L’inizio del nuovo millennio non ha fatto che marcare la continuitĂ  con questa linea politica: la partecipazione alle missioni in Afghanistan, in Iraq e in Libano meridionale, che hanno disegnato lo scenario internazionale di questi ultimi 10 anni, ha avuto per l’Italia il senso di reiterare e rinvigorire la sua aspirazione a svolgere un ruolo chiave nel contesto globale, in primo luogo come paese dell’Alleanza Atlantica e, secondariamente, come attore europeo: in linea, cioè, con l’ambizione di Bruxelles nel voler proporre l’Europa come “security provider” d’eccellenza e fornitore di assistenza umanitaria nelle aree di crisi e conflitto.

 

COSA NON HA FUNZIONATO – Se, tuttavia, l’apertura dell’ultimo decennio sembrava accentuare la marca americana del nuovo ordine mondiale – entro cui, dunque, essere membro della NATO comportava un ritorno strategico non indifferente – è stata invece proprio l’inefficacia dell’interventismo militare promosso dagli Stati Uniti in Afghanistan e in Iraq, la crisi economica globale, l’emergere di potenziali sfidanti internazionali e di medie potenze regionali, a farci comprendere che “la fine della Storia” (come titolava un famoso libro di Fukuyama sulla presunta inevitabile e imperitura espansione del modello di democrazia americana) non è affatto così imminente, mentre l’egemonia statunitense è molto piĂą “mortale” di quanto pensassimo.   Sul fronte europeo, la crisi economica e politica in cui versa l’Unione dei 27, l’incertezza della coesione e la tentazione per i paesi europei piĂą forti di elaborare la propria politica estera in modo indipendente e sempre piĂą svincolato da Bruxelles, hanno reso il giĂ  fluido disegno della PESC (Politica Europea di Sicurezza e Difesa) ancora piĂą frammentato. In questo contesto globale, orientato verso una ridefinizione multipolare e in cui, per di piĂą, la crisi economica sta incoraggiando gli stati a sdoganarsi dall’ideale dell’ “interdipendenza”, rifugiandosi in politiche isolazionistiche (forse anacronistiche ma certamente piĂą rassicuranti) come si ri-posiziona una media potenza come l’Italia?

 

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QUALE RUOLO PER L’ITALIA? – L’analisi delle due missioni internazionali in cui l’Italia è ancora, tuttora, impegnata – quella in Afghanistan, cominciata nel 2001 nel quadro istituzionale della NATO e quella nel Libano meridionale, cominciata nel 2006, sotto l’egida delle Nazioni Unite – ci dice molto sulle ricadute negative e positive di cui l’Italia ha beneficiato o patito negli ultimi dieci anni ma anche su quanto il rapido mutamento dell’ordine globale metta a rischio la sua collocazione  internazionale. La missione afghana “Enduring Freedom” e la partecipazione all’ISAF (International Security Assistance Force), approvata nel 2001 dal secondo governo Berlusconi con il sostegno di buona parte del centro sinistra (che negli anni immediatamente precedenti aveva accelerato un processo di metamorfosi in direzione filo-atlantista), nonostante fosse chiaramente una risposta agli eventi dell’11 settembre 2001, il simbolo di un’America ferita, nasceva sotto gli auspici di quello che si prefigurava come un “millennio americano”. Lo scacco inflitto all’Occidente con l’attacco al World Trade Centre di New York, inoltre, non avrebbe potuto che raccogliere allora un incontestato supporto da parte dei governi europei. La partecipazione dell’Italia alla missione in Afghanistan serviva, dunque, a  confermare la lealtĂ  di Roma verso il Patto Atlantico, espressa in realtĂ  ancor meglio due anni dopo, con la partecipazione militare all’operazione contro Saddam Hussein, a fronte di consenso europeo che stavolta svelava, invece, tutta la sua reale frammentazione. La volontĂ  italiana di rendere l’Afghanistan uno dei suoi “relevant abroad” fu effettivamente premiata in ambito NATO: i contingenti italiani sono, dall’inizio della missione, responsabili del comando regionale occidentale; tra il 2005 e il 2006 l’Italia ha avuto per 9 mesi la responsabilitĂ  dell’intera missione atlantica e tra il 2007 e il 2008 quella di Kabul.

 

DIFFICOLTA’ POLITICHE INTERNE – Dopo l’invasione dell’Iraq, tuttavia, la missione in Afghanistan cominciò ad avvertire i contraccolpi di un’opinione pubblica ostile alla guerra contro Saddam (in particolare dopo la strage di Nassiriya). Ciò nonostante, se osserviamo l’andamento della politica estera italiana – anche e soprattutto in questi ultimi travagliati anni di frammentazione del sistema politico italiano – l’impressione è che soltanto sulle missioni militari all’estero si sia sempre ed effettivamente materializzato un consenso bipartisan. Per i governi di centro-sinistra – anzi – la visione del ruolo italiano nel mondo ha avuto l’effetto di accrescere lo scollamento tra la sinistra moderata e quella radicale: il secondo governo Prodi approvò il rifinanziamento delle missioni all’estero il 28 luglio 2006 con una maggioranza risicata, proprio per l’ostruzionismo del PRC e dei Comunisti Italiani; il 21 febbraio 2007, invece, in occasione del voto sul rifinanziamento della missione in Afghanistan, proposta dalla senatrice Finocchiaro, il quorum non fu raggiunto per il mancato consenso della sinistra radicale. Durante l’ultimo governo Berlusconi l’impegno italiano nella missione in Afghanistan ha continuato a seguire il trend che era stato dominante fin dall’inizio della missione del 2001: non ci sono state significative riduzioni nel finanziamento mentre i nostri contingenti sono stati rafforzati nel 2009 di oltre 1000 unitĂ .

 

Marina Calculli

(continua)

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