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Perché non siam popolo, perché siam divisi

Miscela Strategica – Nel nostro editoriale di questo mese, qualche riflessione che, seguendo il filo conduttore di alcuni dei nostri contributi, ne amplia le prospettive.
Il riferimento del titolo all’inno italiano ben si applica, in questo periodo, alle vicende e alle scelte politiche dell’Europa. Le Organizzazioni internazionali di cui i Paesi europei sono parte (NATO, ONU, UE, OCSE, FMI) sono coinvolte nei principali conflitti in atto. Ma quali strategie i membri dell’Unione stanno seguendo, ammesso che ce ne siano?

EUROPA VS. MONDO – Non è certo una novità, come evidenziamo da tempo, che i Paesi europei non siano certo i più pronti, né tantomeno i più volenterosi a intraprendere operazioni militari. Dal punto di vista interno – dentro i confini di Schengen, per intenderci – possiamo dire con certezza che sono assenti elementi di conflittualità che potrebbero portare due Paesi dell’Unione a un confronto militare fra loro. Un successo su tutta la linea e nessuna particolare postura strategica richiesta. Passando alle minacce esterne, queste sono tante, ma percepite diversamente da un Paese all’altro per natura e importanza. Un insuccesso su tutta la linea. In barba all’obiettivo dichiarato decenni or sono di tendere all’aggregazione politica dell’Europa, l’idillio di pace e prosperità rappresentato dall’Unione è stato infranto dalla crisi finanziaria sul piano economico e dall’eruzione di una serie di conflitti alle porte sul piano strategico. In entrambi i piani gli shock subiti non hanno avuto un effetto aggregante, ma hanno evidenziato crepe profonde. Insomma, quando le congiunture internazionali erano positive si stava bene insieme, in tempi duri ciascuno tira acqua al proprio mulino.

IL PIANO STRATEGICO – Il piano strategico è quello che più soffre la frammentarietà dell’Europa. La NATO è per tutti gli Stati membri una specie di “assicurazione sulla vita” che garantisce serenità nel comprare grandi dosi di burro e far arrugginire un buon numero di cannoni (parafrasando il celebre dilemma, attribuito a Hermann Göring, tra burro-benessere e cannoni-potenza). In caso di minaccia diretta e simmetrica esiste ancora una deterrenza decente, considerando anche la scarsità di avversari classici nel nostro teatro di riferimento. Ma per tutto ciò che si collochi a un livello di conflittualità inferiore si è venuto a creare, da parte europea, un enorme vuoto. Come abbiamo mostrato questo mese, la Russia non prende in considerazione l’idea di attaccare direttamente la NATO (niente Guerra Fredda, rassegnatevi per favore), ma ha capito che può prendere una fetta di territorio di suo interesse impunemente – dal punto di vista militare – se questo si trova al di fuori dei confini della NATO – che a est coincidono con quelli dell’Unione europea. La percezione NATO e UE dei conflitti locali o a bassa intensità come minaccia è molto scarsa. La reattività pure.
Le agende nazionali europee si sono abituate a vedere il dilemma sicurezza come l’ultima delle priorità – per non dire uno spreco di denaro – in tempi in cui l’opinione pubblica chiede lavoro e riforme, ma non sicurezza – priva di coscienza in tal senso. L’incapacità delle Istituzioni dell’Unione a investire risorse nella Difesa, a renderla credibile e organizzare campagne militari quando necessario, scaturisce dalla reticenza dei singoli Stati membri ad ammettere – e tentare di spiegare alle proprie opinioni pubbliche – che la pace garantita negli ultimi 70 anni sul territorio europeo non è scontata e va difesa. A tutti i livelli di ostilità, anche quelli intermedi, come Ucraina e Iraq/Siria, e bassi, come il Nordafrica e il Sahel.
Paesi ambiziosi come la Russia e movimenti terroristici come lo Stato islamico hanno avuto successo nell’erodere e accaparrarsi, un pezzettino alla volta, gli spazi geopolitici di loro interesse (politica del carciofo) a causa della vulnerabilità relativa che i Paesi del continente europeo hanno sviluppato vivendo nell’illusione che il periodo di pace trascorso potesse durare in eterno per inerzia, senza sforzo ulteriore o, peggio, facendo finta di non vedere cosa accade attorno a noi (politica dello struzzo).

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STRATEGIA E AUTONOMIE LOCALI – La visione delineata si è radicata al punto da far illudere perfino le realtà locali che, nonostante il mondo globalizzato e l’ascesa di un nuovo gotha di medie e grandi potenze (economiche e militari), esse siano in grado di garantire ai propri cittadini gli stessi servizi e i vantaggi forniti dallo Stato, ma in maniera più efficiente. Autonomisti locali e Stati nazionali condividono l’errore di fondo di considerare la cornice di sicurezza collettiva un accessorio e non la condizione fondamentale senza la quale non sarebbe possibile continuare a parlare (non sempre opportunamente) di diritti, lavoro, crescita, sviluppo e altri mantra tanto in voga. Trascurare la sicurezza collettiva e lasciarla intendere come un mero indice di spesa, anziché come una garanzia, mette a repentaglio, nell’Europa dei “campanili”, l’esistenza stessa del nostro spazio geopolitico. Gli scozzesi e gli altri gruppi che in Europa chiedono l’indipendenza (o l’autonomia) non hanno mai affrontato l’argomento Difesa e non hanno mai spiegato come garantirebbero ai loro cittadini la protezione di base del loro “feudo felice” e la cornice di sicurezza necessaria per dedicarsi a crescita e sviluppo. Magari sperano, con un contributo minimo, di godere della protezione NATO. Ma se loro non intendono dividere alcunché con gli altri, perché tutti gli altri dovrebbero investire anche nella loro sicurezza a fondo perduto?
Tra diffidenze reciproche e visioni limitate, gli Stati nazionali quanto gli indipendentisti locali si sono rivelati impreparati e inadeguati a confrontarsi con l’argomento “conflitto”, anche se ormai giunto alle porte di casa. Questo trend che investe l’intero territorio europeo ha poi portato, quando si è stati costretti a decidere, a scelte ambigue per efficacia, costi, ma anche principi e valori, svenduti in cambio di un’ulteriore proroga alla necessità di rispondere in maniera pertinente alle minacce per la nostra sicurezza militare ed economica. Scendiamo nel dettaglio.

PROXY WARS – Quanti di voi conoscono il significato di questo termine? Sicuramente meno di quanti, direttamente o indirettamente, ne favoriscono la diffusione. Le proxy wars potrebbero essere definite come “guerre per procura”, ovvero conflitti nei quali lo scontro tra i contendenti è alimentato e/o spalleggiato da parti terze che non vogliano o non possano intervenire direttamente. Comune durante la Guerra Fredda, quando USA e URSS si fronteggiavano indirettamente armando soggetti opposti, questa pratica approda oggi nell’Europa che non può evitare di avere a che fare con il fenomeno guerra, ma che non può o non vuole combattere in prima persona. Questo tipo di strategia può essere molto utile per influenzare gli equilibri di forza molto lontano da casa, dove un impegno diretto sarebbe troppo oneroso e rischioso. Alle porte di casa, invece, un gioco di questo genere è un azzardo, soprattutto se portato avanti con leggerezza. Armare gli ucraini – a qualunque titolo, un elmetto ha un significato simbolico e politico non troppo diverso da una granata, non nascondiamoci dietro al dito – significa schierarsi dalla loro parte, contro la Russia. Ma se l’Ucraina, che ha istituzionalizzato l’uso di falangi neo-naziste, mostrasse in un futuro vicino tendenze autoritaristiche o non abbracciasse i valori pan-europei che oggi proclama a gran voce, i Paesi europei risulterebbero in prima istanza incoerenti con il proprio sistema di valori. In seconda istanza, impotenti o poco credibili. A meno che non si intervenga direttamente, sottolineando però l’incoerenza con quanto contestato in questi giorni a Mosca.
Discorso analogo vale per i curdi. Quale sarà il prezzo del sangue che i guerriglieri verseranno per combattere, oltre che per se stessi, per i Paesi dell’Unione europea? La stessa UE che proclama a gran voce diritti universali, ma non combatte per essi in prima persona. E ancora, quali saranno i rapporti tra curdi, UE e Turchia – presi a due a due nell’ordine che preferite – se i curdi vincessero sull’ISIS? Quali i rapporti con Assad? E con Rohani e Maliki? E quindi, con Netanyahu? E come ci mettiamo d’accordo tra “noi europei” in tempi ragionevoli? Sarebbe infine interessante capire cosa ne penserebbe la Scozia indipendente , che pure non avrebbe voluto rinunciare alle Organizzazioni internazionali (NATO in testa) che le avrebbero fatto comodo, le quali però con tali soggetti devono dialogare.
Ai cultori della costo-efficienza al di sopra di valori e principi si dovrebbe, per concludere, chiedere: il costo totale di strategie del genere è davvero inferiore a una buona dose di pragmatismo e coerenza nell’affrontare le minacce al proprio spazio geopolitico come tali? E compromessi fumosi di questo tipo sono davvero efficaci nel lungo periodo?
Ovviamente non auspichiamo la soluzione militare come quella prioritaria o risolutiva di qualunque conflitto, anzi. Tuttavia il messaggio politico che coloro che minacciano il nostro spazio geopolitico dovrebbero percepire è che, se necessario, applicheremmo tale soluzione senza se e senza ma. Reputiamo a tal proposito indispensabile che le aree di crisi siano gestite abilmente e che le Organizzazioni internazionali che garantiscono la sicurezza dell’Europa debbano avere la possibilità di scegliere tra le opzioni più adeguate, piuttosto che tra quelle più gradite. Nel merito, va presa coscienza che non è possibile dialogare con attori decisi e pragmatici come quelli di cui sopra a costo zero, e i costi del tipo di interventi descritti possono essere di molto superiori – in termini economici, politici e di credibilità – a quelli di un comportamento simmetrico (che includa anche opzioni militari serie sul tavolo decisionale) alla minaccia, senza peraltro garantire la sicurezza dell’Europa. Questi sono temi che ci appassionano, di cui torneremo a occuparci molto presto.

Marco Giulio Barone

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Marco Giulio Barone è analista politico-militare. Dopo la laurea in Scienze Internazionali conseguita all’Università di Torino, completa la formazione negli Stati Uniti presso l’Hudson Institute’s Centre for Political-Military analysis. A vario titolo, ha esperienze di studio e lavoro anche in Gran Bretagna, Belgio, Norvegia e Israele. Lavora attualmente come analista per conto di aziende estere e contribuisce alle riviste specializzate del gruppo editoriale tedesco Monch Publishing. Collabora con Il Caffè Geopolitico dal 2013, principalmente in qualità di analista e coordinatore editoriale.

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