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La strategia del filo di perle

Nuova puntata del nostro speciale. Questa volta vi spieghiamo la strategia, puramente geopolitica, che Pechino sta silenziosamente, ma inesorabilmente adottando in Asia sud-orientale, per tessere una fitta rete di alleanze in grado di proteggere i propri interessi strategici ed economici. Il tutto a spese dell’altro “gigante” geopolitico dell’area, l’India

 

AVANTI PIANO – Un’avanzata silente, ovattata e quasi inavvertibile è quella che il grande Stato continentale cinese sta muovendo da oriente verso occidente, insediando propri distaccamenti nei porti Thailandesi, in quelli birmani di Bassein e Akyab, sulle Coco Islands, in quello di Chittagong in Bangladesh, in quello di Gwadar nel Baluchistan pakistano. Come in un intreccio di trama e ordito, la Cina tesse pazientemente il suo “filo di perle”, consolidando la partnership strategica con alcuni Stati rivieraschi asiatici attraverso la cooperazione nel settore infrastrutturale e nel commercio, lungo un’invisibile linea marittima che connette il Mar Cinese Meridionale al Golfo del Bengala, quindi all’Oceano Indiano e al Mar rosso. È lungo questo filo impercettibile che si concretano le proiezioni marittime del Dragone e le sue ambizioni geopolitiche.

 

STRING OF PEARL STRATEGY – Il caposaldo della Far Sea Defence Strategy cinese e la sua nuova politica oceanica sembrano ricalcarsi sulle teorie di Mahan sulla strategia marittima: per consolidare il proprio Sea Power è necessario conquistare punti di appoggio, porti dai quali poter controllare le rotte e incoraggiare la flotta alla navigazione.  Attraverso il finanziamento e la partecipazione alle grandi opere infrastrutturali, Pechino ha conquistato nell’ultimo ventennio il suo “posto al sole” nello scacchiere marittimo asiatico, incuneandosi nelle aree costiere e portuali di maggiore rilievo geostrategico, trasformando queste basi di supporto dapprima in importanti snodi commerciali, poi in teste di ponte e sicuri avamposti militari per la propria Marina, perle sospese lungo il filo.

 

Si stima che oltre i 2/3 degli approvvigionamenti energetici asiatici che sostengono le nuove economie in ascesa, ma soprattutto Cina e Giappone, giungano dal Medio Oriente tramite i corridoi marittimi attraversando l’Oceano Indiano e lo Stretto di Malacca, ed è proprio su questi importanti nodi geostrategici che si riflettono gli orientamenti geopolitici cinesi.  Proprio come la politica di contenimento promossa durante la guerra fredda dagli Stati Uniti per limitare l’espansione sovietica, la strategia cinese del filo di perle punta sostanzialmente a circoscrivere e isolare l’India, rafforzando le relazioni commerciali con i suoi vicini d’oltreconfine, assicurandosi i diritti di navigazione e la protezione delle petroliere che giungono dal Medio Oriente, esercitando dapprima un’influenza economica sui nuovi partners, poi trasposta in condizionamento politico e militare. Perle che pendono già nel filo cinese, i porti di Akyab e Sitwe in Myanmar, quello di Gwadar in Pakistan e di Hambantota in Sri Lanka, consentono al Paese di Mezzo di accerchiare l’India sul fianco occidentale, su quello orientale e meridionale, garantendole un accesso sicuro all’Oceano Indiano. Le aree portuali rispondono certamente ad una duplice esigenza funzionale: da una parte fungono come basi di scalo commerciale, dall’altra estendono l’opportunità alla Marina militare cinese di utilizzarle come centri di rifornimento e di monitoraggio delle rotte marittime. Dal canto suo, l’India gioca d’astuzia e per regolamentare l’accesso cinese all’Oceano, assicura già dal 2010 alla Cina la difesa della sicurezza navale delle rotte marittime solcate dalle sempre più numerose petroliere cinesi perché, come ha affermato Pallam Raju, Ministro per la difesa indiano, “comprende che [la Cina] deve proteggere i suoi interessi petroliferi”. Tuttavia, nel progetto strategico cinese sono state previste anche alcune alternative per bypassare l’Oceano Indiano e lo Stretto di Malacca. È sufficiente concentrare l’attenzione sui numeri per intuire gli orientamenti cinesi. I 200 milioni di dollari investiti da Pechino nella costruzione della strada che congiunge Gwadar a Karachi e gli 8.500 lavoratori cinesi impiegati nelle opere infrastrutturali pakistane, ci indicano l’alternativa terrestre al percorso marittimo: il porto di Gwadar diviene una sicura base per lo scarico di merci e petrolio giunte dal Golfo Persico che poi vengono incanalati via terra verso il Xinjiang.

 

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IL CANALE DI KRA PER BYPASSARE LO STRETTO DI MALACCA – Per evitare il “collo di bottiglia” nello Stretto di Malacca, un choke point naturale, poco sicuro e infestato dai pirati, i cinesi hanno garantito alla Thailandia il finanziamento della costruzione di un canale lungo l’istmo di Kra (nella foto, il progetto), che collega la Malaysia al Ranong Thailandese. Il canale metterebbe in comunicazione il Golfo della Thailandia con il Mar delle Andamane, consentendo di bypassare lo Stretto e riducendo di 1500 miglia la rotta marittima. Inoltre, al progetto del Canale è corredato il Southern Strategic Energy Land Bridge, una sorta di condotto petrolifero che solcherà l’istmo di Kra. Se si pensa che oggi il 90% del petrolio arriva in Cina attraverso il passaggio per lo Stretto di Malacca, si può ben capire il potenziale rivoluzionario del canale di Kra, che neutralizzerebbe perfino le minacce indiane di bloccare lo Stretto per affamare i cinesi di petrolio in caso di un conflitto. Il costo del canale asiatico, la cui importanza sarebbe pari a quella di Suez e Panama, ammonterebbe attorno ai 30 miliardi di dollari ma i benefici politico-economici per la Thailandia, la Cina, il Giappone e per gli altri Paesi del Pacifico supererebbero di gran lunga i costi.

 

PHUEAN BAAN”: CINA E THAILANDIA, DUE PAESI VICINI – Tenuto in conto il notevole peso acquisito dalla Cina nello spazio geopolitico asiatico, la Thailandia, consapevole della necessità del Canale per realizzare i propri interessi geostrategici, richiamare gli investimenti esteri, incoraggiare l’economia del Paese ed ascendere come potenza marittima, ha rinvigorito le relazioni politico-economiche con Pechino. Tra i due Paesi i rapporti diplomatici sono ripresi solo nel 1975, in concomitanza con la riduzione dell’impegno statunitense nella regione e la fine del supporto cinese al Partito Comunista della Thailandia. Oggi la Thailandia ha il più alto numero di uffici consolari all’estero proprio in Cina e lo scambio commerciale fra i due è stato stimato intorno ai 12 miliardi di dollari. Quello tra Cina e Thailandia è un partenariato strategico, votato all’opportunismo pragmatico e finalizzato soprattutto alla cooperazione militare, allo scambio di tecnologia e armamentario bellico, alla preparazione del personale e alla condivisione di esercitazioni antiterrorismo.

 

Prima che Pechino stabilisse legami con l’ASEAN e il Myanmar, si poteva affermare senza alcuna remora che la Thailandia fosse il suo principale alleato. Non si sono mai frapposti tra i due Paesi veri e propri contenziosi territoriali, a differenza di quelli perduranti con Vietnam e Filippine per la sovranità sulle Spratly, o interetnici. La comunità cinese in Thailandia che rappresenta il 15% della popolazione, dopo aver superato la furia anticinese esplosa negli anni trenta, è oggi integrata e partecipa alla vita politica ed economica del Paese (lo stesso ex Primo Ministro Thaksin Shinawatra è sino-thailandese). A far convergere gli interessi thailandesi con quelli cinesi è anche la comune lotta contro il terrorismo di matrice islamica e l’esercizio della sua influenza sui movimenti separatisti e nazionalisti Malay nel Pattani thailandese e Uiguri nello Xinjiang cinese.

 

Le relazioni tra la Cina e la Thailandia, due Paesi vicini,phuean baan”, due “Paesi fratelli”, come ama definirli la retorica pubblica governativa, pendolano tra identità di interessi e cooperazione. La Thailandia cerca di conquistare un posto di rilievo nell’arena asiatica, mentre la grande Cina si affaccia con determinazione nello spazio marittimo, intrecciando le antiche vie della seta con le nuove rotte commerciali oceaniche.

 

Chi domina sul mare, domina sul commercio. Chi domina sul commercio mondiale domina sulle risorse mondiali e, di conseguenza, domina sul mondo intero”.

 

E pensare che a pronunciare queste verità fu Sir Walter Raleigh della Marina militare britannica nel lontano XVII secolo.

 

Dolores Cabras

redazione@ilcaffegeopolitico.net

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