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Tripoli bel suol d’amore

I perchè della guerra di Libia del 1911. Le difficoltà della Triplice Alleanza, la Francia che ci soffia la Tunisia da sotto il naso, in quello che sembrava una sorta di calciomercato coloniale. Le aspirazioni imperialiste: Libia terra di oasi o scatolone di sabbia? Breve viaggio dietro le quinte di un intervento militare che, sul campo, si rivelò un vero disastro. Con una considerazione da non sottovalutare: aveva ragione Gianni Brera. Su cosa? Leggete qui

 

ITALIANI BRAVA GENTE – “Un popolo di abatini“, diceva Gianni Brera dei suoi compatrioti, “incapaci di virile coerenza e fermezza, alieni alla grandezza di spirito, e per questa ragione poco inclini al Bene assoluto, così come, fortunatamente, anche al Male”. Gente non particolarmente virtuosa pertanto, ma sostanzialmente innocua. Un sillogismo che ha condotto alla coniazione del motto “Italiani, brava gente”, luogo comune tanto fortunato da divenire parola d’ordine della propaganda nazionale in tutte le epoche, e da condizionare irrimediabilmente qualsiasi tentativo di ricostruzione storica oggettiva. Un’emblematica esemplificazione dell’inconsistenza dell’immagine stereotipata dell’italiano buono – su cui certa intellettualitĂ , anche insospettabile, dell’epoca ebbe la colpa di indulgere – , nonchĂ© della drammatica interazione tra necessitĂ  geopolitiche, spinte irredentiste, e volontĂ  di potenza scaricata in una sconcertante forma di imperialismo di terz’ordine, è fornita dalle vicende della penisola nell’ultima fase della Triplice Alleanza, che portarono alla guerra di Libia, e al rapido sgretolarsi del trentennale trattato.

 

I DIFFICILI RAPPORTI IN SENO ALLA TRIPLICE – La nascita della Triplice Alleanza risale proprio alla frustrazione delle aspirazioni espansionistiche in Nord Africa della giovane nazione italiana, che si vide sottrarre da sotto il naso la Tunisia  dalla Francia (1881), con il tacito consenso della Germania bismarckiana. Dopo l’apertura del canale di Suez, il Mediterraneo tornava ad essere un’area di interesse commerciale. I diplomatici italiani vedevano nell’acquisizione dell’altra sponda del canale di Sicilia un passaggio fondamentale per amplificare il valore strategico della penisola e introdurla sul palcoscenico della grande politica internazionale, al contempo sottraendola all’isolamento dei primi anni post unitari. Pesò però la recisa volontĂ  dell’Impero britannico, che, in quel punto nevralgico sulle rotte tra mediterraneo orientale e occidentale, non ammetteva una presenza egemone. La Francia ottenne così il via libera all’occupazione della Tunisia, e la Germania non fece altro che ratificare una situazione sulla quale non intendeva intervenire, deviando le richieste italiane di una alleanza in funzione antifrancese verso un trattato con l’impero austro ungarico, giĂ  legato al kaiser in virtĂą della Duplice Alleanza.

 

Col progressivo modificarsi degli equilibri internazionali, nel corso degli anni, mutò anche l’atteggiamento dell’Italia nei confronti dei propri alleati, in particolare dell’Austria, che tornò a ricoprire il ruolo di avversario naturale: i rinnovi del trattato (1887, 1891, 1896, 1902) sono sistematicamente segnati dalla contrapposizione diplomatica delle due compagini. Da una parte l’Italia, agitata dai furori nazionalistici in merito alla questione delle terre irredente, e motivata da aspirazioni colonialiste, con i dichiarati obiettivi della Libia e dell’Etiopia; dall’altra l’Austria, preoccupata dalle interferenze della monarchia sabauda nei Balcani (confermate dal matrimonio dell’allora erede al trono Vittorio Emanuele con Elena di Montenegro, nel 1896), nonché dal rischio che un’offensiva italiana contro l’Impero turco, cui appartenevano i vilâyet della Tripolitania e della Cirenaica, incoraggiasse nuovamente l’espansionismo russo sul Mediterraneo.

 

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OBIETTIVO LIBIA – In questo scenario di estrema tensione nei confronti dell’alleato austriaco, le aspirazioni imperialiste, frustrate qualche anno prima dalla disfatta di Adua, ripresero vigore, e si incanalarono naturalmente verso l’obiettivo libico, scatenando il piĂą sconsiderato fanatismo verso l’impresa militare: alcuni leader dell’Associazione Nazionalista Italiana, come Enrico Corradini, arrivarono addirittura a magnificare la favolosa fertilitĂ  delle oasi di Tripoli! Si aggiungevano a questa azione di palese propaganda, le illusioni dell’opinione pubblica, che vedeva nella conquista di terre agricole uno strumento per alleviare la crescente pressione sociale, che fino ad allora aveva avuto come unico sfogo l’emigrazione di masse di diseredati verso gli Stati Uniti. A nulla valse, in tal senso, la prudenza di statisti e pensatori come Luigi Einaudi, Gaetano Mosca, o dello stesso Gaetano Salvemini, che definì la Libia “un’enorme voragine di sabbia”, che avrebbe ingoiato per anni uomini e denaro.

 

Lo stesso Presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, contrario per temperamento ad abbandonarsi a imprese rischiose, freddo, cinico e per nulla passionale, sorprese tutti quando decise per l’intervento. Le motivazioni razionali potevano anche non mancare: una su tutte la volontà di offrire, con l’Africa, alle dilaganti tendenze nazionalistiche un diversivo alle aspirazioni più pericolose, ovvero quelle irredentistiche e balcaniche.

 

LE DISASTROSE OPERAZIONI SUL CAMPO – Sin dal momento dello sbarco, successivo a un ultimatum risibile per la genericitĂ  e vaghezza delle lagnanze, il corpo di spedizione al comando del generale Carlo Caneva, per quanto in grado di assestarsi con relativa facilitĂ  nelle piazzeforti strategiche di Tripoli, Homs, Bengasi, Derna e Tobruq, sperimentò quanto era stato escluso dai diplomatici: a Homs, a dare manforte a 500 ottomani, c’erano addirittura 1000 arabi. Questo fatto avrebbe dovuto mettere in allarme i consiglieri militari, che invece mantennero un atteggiamento facilone e incomprensibilmente ottimistico. Errore fatale. In prossimitĂ  del villaggio di Sciara Sciat, il 23 ottobre 1911, un’offensiva congiunta turco araba, annientò il contingente italiano, provocando almeno 500 morti. Invece che rilevare gli errori strategici dello stato maggiore, l’opinione pubblica italiana gridò al tradimento della popolazione araba nei confronti dei supposti liberatori, e insigni intellettuali riproposero la consueta minestra dell’ingratitudine dei selvaggi nordafricani, e della bontĂ  innata e mal corrisposta degli Italiani; così Filippo Tommaso Marinetti, “Abbiamo subito la sanzione fatale del nostro stupido umanitarismo coloniale”. Ebbene, l’umanitarismo coloniale non tardò a far sentire i suoi effetti sulla popolazione locale: spietate rappresaglie, impiccagioni di massa, e la deportazione alle Tremiti, a Ustica e a Lampedusa di almeno 4000 libici, tra donne, vecchi, bambini e innocenti.

 

Nonostante ciò, dopo un anno, e l’aumento del contingente italiano a 100.000 unità, pochi passi avanti erano stati compiuti nell’occupazione dell’interno della Libia, quando a Ouchy, in Svizzera, Italia e Turchia firmavano il trattato di pace. La “passeggiata militare” era costata all’Italia 3431 morti e 4200 feriti. La guerra era peraltro ben lungi dall’essere finita. Scacciati i Turchi, restava il 90 % del territorio libico da conquistare, infestato dai ribelli della resistenza senussita. Il logorante e feroce scontro che ne seguì, sotto il comando del generale D’Ameglio, si risolse nella più classica delle azioni di occupazione. A fronte della guerriglia indigena, le truppe italiane rispondevano con rappresaglie continue ed esecuzioni sommarie.

 

Tale immensa spesa di sangue però, non valse agli Italiani la vittoria. Anzi. Con la drammatica e precipitosa ritirata dal Fezzan del 1915 tramontavano nell’ignominia e nel disonore le aspirazioni coloniali del paese. Da alcune stime del Ministero delle Colonie del 1920, la ritirata segnò circa 10.000 morti. Una cifra dunque superiore a quella di un’altra epica disfatta, quella di Adua.

 

Così finiva, nel sangue e nella vergogna, il primo tentativo di occupare la Libia. Era durato quattro anni. Per raggiungere l’occupazione integrale della “quarta sponda” sarebbero occorsi altri diciassette anni e l’annientamento, in combattimento e nei campi di sterminio, di un ottavo della popolazione libica.

 

Ulisse Morelli

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