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“Perchè ho portato ad Auschwitz i miei studenti palestinesi”

Intervista al Prof. Mohammed Dajani, che ha organizzato la “storica” visita di un gruppo di studenti palestinesi ad Auschwitz. Pagandone anche le conseguenze

Uno dei maggiori ostacoli alla pace tra Israeliani e Palestinesi è che, paradossalmente, non si conoscono affatto. Ancor di più da quando, da quasi un decennio, c’è un muro tra di loro. Così essi rischiano di avere in mente solo gli estremi: per gli Israeliani, il Palestinese medio è il kamikaze che si fa saltare sul bus; per i Palestinesi, l’Israeliano medio è come quei coloni che lanciano pietre contro i bambini palestinesi che vanno a scuola. Più che con mille negoziati, la svolta per arrivare alla pace si avrà quando sui libri di testo dei ragazzi palestinesi ci sarà Israele sulla cartina, e sulle mappe dei libri di testo israeliani sarà disegnata la green line che delimita la Cisgiordania. Per questo, un professore universitario palestinese che nella primavera del 2014 decide di portare un gruppo di 30 suoi studenti ad Auschwitz, fatto mai accaduto in precedenza, più che una notizia è un vero e proprio evento, che per sua natura è destinata a lasciare un seme profondo, a far riflettere, ma anche a dividere. Mohammed S. Dajani Daoudi, che ho conosciuto personalmente a Gerusalemme nel 2008, racconta in questa intervista al Caffè i perché di questa visita e le conseguenze che questa ha portato.

 

Per quale motivo ha deciso di portare i suoi studenti ad Auschwitz? Qual è per lei il significato di un tale viaggio?

Accompagnare degli studenti palestinesi ad Auschwitz è stata una delle più grandi sfide del mio percorso personale e della mia carriera accademica. Conoscendo la natura altamente sensibile dell’Olocausto per l’identità nazionale palestinese, ho capito che camminare in un tale campo minato avrebbe comportato grandi rischi.

Prima della partenza per Auschwitz ho ricevuto pressioni per non partire, oltre ad una e-mail dal Rettore dell’Università Al-Quds nella quale si scoraggiava la partenza, e mi si chiedeva di informare gli studenti che mi avrebbero accompagnato che non si trattava di un progetto universitario, e che sia io che loro saremmo partiti sotto la nostra responsabilità. Ho informato i partecipanti di questo sviluppo, e ho fatto firmare loro moduli di consenso per poter viaggiare.

Ho realizzato che violare i codici della società e scavare in argomenti tabù comporta alti rischi. Molti leader palestinesi in precedenza erano stati assassinati per aver deciso di percorrere sentieri non battuti; tra loro anche un mio parente, Hassan Sidqi Omar al-Dajani (1890–1938), giornalista, avvocato, e politico, che si laureò in legge alla Università di Cambridge. Era una delle figure di spicco della fazione Dajani-Nashashibi, che si opponeva alla fazione Husseini nella lotta per la leadership della politica palestinese. Come molti degli illustri Dajani, sosteneva una visione moderata della politica palestinese, in opposizione alla stridente visione anti-ebraica di Hajj Amin al-Husseini, il Muftì di Gerusalemme. Fu assassinato a Ramallah a metà ottobre 1938 da Hajj Amin al-Husseini, dopo essere stato etichettato come “traditore” e “collaborazionista”. Il suo corpo fu trovato nelle vicinanze il giorno seguente: entrambe le mani erano state spezzate, e sulla sua fronte si vedevano due fori di proiettile. Il suo funerale ne dimostrò la popolarità: vi parteciparono rappresentanti di tutte le famiglie di spicco di Gerusalemme, e molta altra gente comune. Quando la processione funebre passò davanti al suo ufficio, i portatori della bara la innalzarono sulla punta delle proprie dita, un onore riservato ai più rispettati leader.

 

Come è nata l’idea di questo viaggio?

Nel febbraio 2010 sono stato invitato dalla organizzazione Aladdin a Parigi per visitare Auschwitz, a fianco di 150 leader religiosi di tutto il mondo. Il viaggio ha aperto gli occhi ad un arabo palestinese musulmano moderato come me, cresciuto in una cultura che nega le atrocità dell’Olocausto o lo vede come la causa della propria catastrofe nazionale del 1948, o crede che sia stato uno sforzo congiunto di nazismo e sionismo per obbligare gli Ebrei a supportare lo stabilimento di uno Stato ebraico in Palestina. La bestialità di ciò che ho visto mi ha fatto decidere di non essere solo uno spettatore e di riportare il messaggio con me in Palestina. Due mesi più tardi, ho scritto un articolo con Robert Satloff intitolato “Perché i Palestinesi dovrebbero sapere dell’Olocausto?”, poi ho scritto con altri autori un libro in arabo sull’Olocausto. In seguito, come parte di un progetto condiviso con l’Università Freidrich Schiller di Jena e sovvenzionato dalla Fondazione di Ricerca tedesca, abbiamo iniziato uno studio sull’impatto dell’empatia sui sentimenti per la riconciliazione e la risoluzione dei conflitti.

 

Perché lei e i suoi studenti siete stati accusati di tradimento? Si aspettava tutto questo?

Non eravamo preparati alle accuse di tradimento e ad altri insulti contro di noi e la nostra classe. Noi abbiamo visto tutto questo da una prospettiva educativa, mentre i critici hanno osservato quanto accaduto da una prospettiva politica, immaginando che questo fosse un aiuto alla promozione della causa sionista contro i Palestinesi. La visita degli studenti israeliani al campo profughi che è avvenuta prima della nostra visita non ha invece causato una reazione altrettanto forte, perché c’erano stati altri viaggi simili compiuti da Israeliani mentre questo era il primo viaggio per i Palestinesi.

 

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Il Prof. Dajani ad Auschwitz

Come si è svolto il viaggio?

La maggior parte degli studenti palestinesi che hanno partecipato al viaggio frequentavano un corso di riconciliazione/pacificazione all’Istituto di Studi Americano presso l’Università Al-Quds. Abbiamo annunciato il viaggio a voce ed abbiamo ricevuto 70 candidature, tra cui abbiamo selezionato 30 studenti. Abbiamo comprato loro i biglietti ed ottenuto i visti. Due ragazze si sono ritirate, ed un sostenitore di Hamas non è stato autorizzato a viaggiare dalle autorità israeliane. Abbiamo passato due giorni a Cracovia, in Polonia, per saperne di più sulle condizioni di vita degli Ebrei in quelle zone prima dell’Olocausto, poi abbiamo passato tre giorni ad Auschwitz, due dei quali per visitare il campo e l’ultimo per scambiarsi opinioni riguardo alla visita. È stato molto impressionante per gli studenti vivere un’esperienza del genere. Hanno posto molte domande ed imparato molto dalle risposte. La visita di Auschwitz ha cambiato profondamente le loro percezioni dell’Olocausto, fornendo loro nuove informazioni di cui non erano a conoscenza. Ci vorrà tempo per sedimentare bene tutto questo, ma alla fine i semi porteranno frutto.

Sfortunatamente, notizie distorte sulla visita pubblicate dalla stampa palestinese hanno dato il via all’incitamento contro questo viaggio, affermando che era stato organizzato dalle università israeliane e finanziato da organizzazioni ebraiche. Gli studenti hanno iniziato a preoccuparsi e a rimanere sulla difensiva, sottolineando che la visita aveva carattere puramente educativo, senza alcun altra implicazione, tantomeno quella di rinunciare a pretese di autodeterminazione ed aspirazioni nazionali a divenire uno Stato.

 

Perché dal suo punto di vista per Israeliani ed i Palestinesi è così difficile giungere ad un accordo di pace?

È così difficile riconoscere i diritti dell’altro perché entrambi fanno parte di un gioco win-lose, ognuno pronto a contrastare l’altro, lottando per spazzarlo via e per essere il più dominante. Io credo che se ognuno rispettasse i diritti dell’altro senza doversi necessariamente arrendere all’altra parte, potremmo ottenere pace e coesistenza.

 

Come vengono percepite le sue visioni “moderate” dai Palestinesi?

Quando ho stabilito il Centro di Studi Americani nel 2002, i miei critici dissero che era un’operazione della CIA per reclutare studenti, affinché lavorassero per loro. Quando ho creato la Wasatia Initiative nel 2007 per promuovere un Islam moderato, i critici dissero che ero stato finanziato dagli Stati Uniti per promuovere un Islam “occidentale”. Adesso un viaggio educativo si è trasformato in un malvagio schema politico per fare il lavaggio del cervello alla gioventù palestinese. Se avessi voluto ascoltare i miei critici, avrei finito per essere un vegetale.

(L’intervista continua sotto la gallery, nella quale trovate alcune foto del gruppo di studenti ad Auschwitz)

Non pensa che la sua lettera di dimissioni dall’Università al-Quds sia una sorta di resa ai suoi critici ed oppositori? 

Dimettermi ha significato portare la battaglia ad un livello più alto. La mia lettera di dimissioni dall’Università al-Quds è stata una sorta di cartina di tornasole, per vedere se davvero l’amministrazione universitaria supportasse come diceva di affermare la libertà accademica, di azione e di espressione, o se non fosse così. I miei studenti rientrati da Auschwitz sono stati presi di mira dagli studenti leader nel campus, dai membri della facoltà e dall’unione dei dipendenti – che mi ha cacciato dalla membership nonostante non vi appartenessi – e tutti loro hanno segnalato me e gli studenti alle massime cariche dell’Università, accusandoci per la visita ad Auschwitz. Per tali ragioni, volevo che il Rettore dell’Università rifiutasse le mie dimissioni per mandare un chiaro messaggio, in particolare ai dipendenti dell’Università ed agli studenti, e in generale alla comunità palestinese: supportare come Università la libertà accademica, e considerare la visita come un viaggio educativo in cerca di conoscenza, con il quale non erano state infrante politiche universitarie, regole o norme alcune.

Accettando le mie dimissioni, il loro messaggio era invece ovvio: non c’è posto per le idee di Dajani nel nostro campus/sede, e quelli che seguiranno il suo stesso percorso faranno la stessa fine. Non è lo stesso messaggio che gli Ateniesi volevano inviare agli studenti di Socrate condannandolo a morte?

 

In definitiva, cos’ha ottenuto dalla sua visita ad Auschwitz?

Non volevo restare uno spettatore, anche se le vittime delle sofferenze per cui mostravo empatia erano miei persecutori ed occupanti. Odio, razzismo, intolleranza si diffondono quando domina un regno del terrore, e la paura blocca le brave persone che si “congelano” come spettatori, non facendo nulla per protestare contro il male, e rendendo così il male sempre più potente. Ecco perché mi sono preso la responsabilità di non essere uno spettatore. In questa lotta di politica corrotta, religione deviata e moralità perduta, ho deciso di non essere uno spettatore.

Andando ad Auschwitz, eravamo alla ricerca di conoscenza. Volevamo sapere cosa fosse successo, perché fosse successo, e come si può evitare che succeda ancora. Credo sia molto importante rompere questo muro di fanatismo, ignoranza e razzismo che ci ha separato, per fare un salto in avanti ed andare verso qualcosa di nuovo. Quando uno dei miei studenti mi ha chiesto perché avremmo dovuto imparare cosa è stato l’Olocausto, quando gli Israeliani vogliono bandire persino l’uso della parola “Nakba”, la mia risposta è stata semplice: “Perché facendo così, farai la cosa giusta”.

Ci vogliono sia la pioggia che il sole, per fare un arcobaleno. Allo stesso modo, servono sia fanatismo che sottomissione per realizzare Wasatia. Sebbene il vento dell’avversità stia tentando di spazzare via i nostri valori, la nostra audacia e la nostra determinazione sono così forti e vigorose che continueremo a muoverci perchè questi valori crescano e si diffondano, raggiungendo nuove mete. Il fatto che gli sforzi per la pace siano falliti significa solo che dobbiamo raddoppiare i nostri sforzi. Abbiamo ereditato questo conflitto dai nostri nonni, e vogliamo che i nostri nipoti ereditino la pace da noi.

Alberto Rossi

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Alberto Rossi
Alberto Rossi

Classe 1984, mi sono laureato nel 2009 in Scienze delle Relazioni Internazionali e dell’Integrazione Europea all’Università Cattolica di Milano (Facoltà di Scienze Politiche). La mia tesi sulla Seconda Intifada è stata svolta “sul campo” tra Israele e Territori Palestinesi vivendo a Gerusalemme, città in cui sono stato più volte e che porto nel cuore. Ho lavorato dal 2009 al 2018 in Fondazione Italia Cina, dove sono stato Responsabile Marketing e analista del CeSIF (Centro Studi per l’Impresa della Fondazione Italia Cina). Tra le mie passioni, il calcio, i libri di Giovannino Guareschi, i giochi di magia, il teatro, la radio.

Co-fondatore del Caffè Geopolitico e Presidente fino al 2018. Eletto Sindaco di Seregno (MB) a giugno 2018, ha cessato i suoi incarichi nell’associazione.

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