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La grande proletaria si è mossa. Male

L’espansionismo coloniale italiano abbraccia un periodo di quasi ottant’anni, dal 1869 al 1945, e coinvolge i territori africani di Eritrea, Somalia Italiana, Libia ed Etiopia Italiana e quelli europei del Dodecaneso e dell’Albania. Il giudizio dei posteri, sempre molto severo, lo valuta come un’esperienza fallimentare, ma rimane importante capire cosa spinse un’Italia appena unificata ad estendere il proprio controllo al di là dei nuovi confini

 

L’ITALIA SI AFFACCIA ALL’EUROPA – All’indomani del compimento dell’unificazione della nazione con la presa di Roma nel 1870, l’Italia si trovò inevitabilmente a confrontarsi con le altre grandi potenze europee che la circondavano, quali Francia, Inghilterra, Spagna e Portogallo, oltre che ad affrontare problemi interni di grande importanza. Infatti, la nuova Italia, quale somma di una moltitudine di realtà differenti e, in alcuni casi, a lungo nemiche, era priva di un sentimento nazionale e paralizzata da un grande divario economico tra Nord e Sud. Quindi, se da un lato l’espansionismo coloniale sembrava la soluzione a tutti i problemi, portando con sé prestigio e nuove opportunità economiche, dall’altro rappresentava un notevole rischio per un Paese così giovane e ancora pieno di debolezze interne.

 

I PRIMI PASSI, L’ERITREA – La questione, comunque, si ripropose con forza nel 1869 con l’apertura del canale di Suez, che, unendo Mar Rosso ed Oceano Indiano, evitava alle imbarcazioni europee la circumnavigazione dell’Africa. L’esperienza coloniale italiana iniziò proprio in questa circostanza, quando la società Rubattino affittò la baia di Assab che, primo porto per le navi italiane nel Mar Rosso, costituì il punto di partenza verso la completa occupazione dell’Eritrea. L’impatto sull’opinione pubblica fu enorme. Da una parte, la penetrazione in Eritrea fu accolta con grande entusiasmo dai sostenitori della propaganda, secondo la quale senza colonie l’Italia sarebbe stata inferiore alle altre grandi potenze europee, e fu celebrata dalla classe dirigente che si identificava in Crispi; dall’altra, la corrente mazziniana metteva in luce la relativa povertà di risorse economiche dello Stato africano.

 

LA POLITICA DELLE MANI NETTE – Fu proprio quest’ultima visione a emergere nel 1878 durante il Congresso di Berlino (immagine sotto) il cui fine era quello di dare un nuovo assetto agli stati balcanici e di risolvere così l’annosa questione d’oriente, anticipando l’imminente crollo dell’Impero Ottomano. Le potenze europee, infatti, stabilirono le zone coloniali d’influenza e ratificarono le occupazioni militari nel mondo. Il Presidente italiano Cairoli, garibaldino, non chiese nulla per l’Italia, attuando una strategia che successivamente definì “politica delle mani nette”, secondo la quale l’Italia non accettava colonie con cognizione di causa, rifiutando di sporcarsi le mani in occupazioni che troppo spesso sfociavano nel sangue. L’opinione pubblica, da anni immersa nella propaganda del “fardello dell’uomo bianco” e convinta che la grandezza di una nazione si misurasse anche dall’esportazione delle proprie istituzioni al di fuori dell’Europa, esplose.

 

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L’UMILIAZIONE DI ADUA – Un’ulteriore umiliazione seguì nel 1881 quando i Francesi occuparono la Tunisia, considerata per vicinanza geografica e culturale un diritto italiano. Per calmare l’opinione pubblica si riprese l’espansione coloniale, puntando alla Somalia, protettorato italiano dal 1889 e poi colonia dal 1905. La cosiddetta Somalia italiana era come un guscio tra Somalia inglese e francese, ma fu impiegata come base per la penetrazione verso l’Etiopia. Nel 1895 l’esercito italiano attaccò l’Etiopia soltanto sei giorni prima che l’imperatore Menelik sciogliesse come di consuetudine l’esercito per dare priorità ai lavori nei campi. L’attacco italiano terminò il primo marzo 1896 con la scottante e umiliante sconfitta di Adua.

 

LIBIA, SCATOLONE DI SABBIA – Per qualche tempo, si arrestarono le ambizioni coloniali italiane, salvo poi riprendersi nei primi del Novecento verso la Libia. Giolitti, che al momento si trovava a capo dell’Italia, era contrario all’invasione dello stato libico, che considerava ”uno scatolone di sabbia”, tuttavia i giornali lo descrivevano come un eden, gli intellettuali lo consideravano come una fonte inesauribile di occupazione ed opportunità economiche. Ancora una volta fu l’opinione pubblica a guidare la discesa italiana in Africa. Persino Pascoli scrisse un articolo, all’indomani dell’invio delle truppe, intitolato “La grande proletaria si è mossa”. La guerra che ne seguì, tra il 1911 e il 1912, vide l’esercito italiano sconfiggere l’Impero Ottomano, ormai considerato “il Grande Malato d’Europa”, e successivamente scontrarsi ferocemente con le tribù locali.

 

In generale però, l’Italia era rimasta fortemente indietro nella corsa coloniale rispetto alle altre nazioni, fatto che nella prima metà del XX secolo la poneva in svantaggio sia dal punto di vista strategico globale sia, soprattutto, da quello economico, non potendo contare su nuovi mercati o fonti di materie prime come gran parte degli altri paesi europei. Rimanevano solo le spese sopportate e la beffa, nel secondo dopoguerra, di scoprire non essersi nemmeno mai accorti in tempo della grande ricchezza di petrolio nascosto sotto le sabbie libiche.

 

Gloria Tononi

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