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Algeria, i Mondiali e la solidarietà ‘Sud-Sud’ con la Palestina

La Nazionale algerina, eliminata dalla Germania lo scorso 30 giugno, ha deciso di donare il premio per la partecipazione alla Coppa del mondo ai bambini della Striscia di Gaza. L’altruistico gesto del quale si è resa protagonista la squadra, l’unica araba a qualificarsi, induce a chiedersi quali siano le attuali posizioni del Paese nordafricano sul conflitto tra Israele e Hamas e se siano plausibili nuovi sviluppi nelle relazioni tra l’Algeria e i due attori in lotta.

GAZA – Il gesto è stato annunciato nei giorni scorsi dall’attaccante ventiseienne Islam Slimani, il quale ha affermato «Loro hanno più bisogno di noi di questi soldi», in riferimento ai civili, in particolare ai bambini, della Striscia di Gaza.

L’esempio di fratellanza interaraba dato da “Les Fennecs”(soprannome della squadra)giunge in una delle fasi più nere della questione israelo-palestinese, caratterizzata da un numero di perdite tra i civili palestinesi maggiore di quello registrato a seguito dell’operazione “Colonna di Nuvole” del novembre 2012. Gli appelli al cessate il fuoco vengono ignorati da entrambe le parti e le vittime palestinesi sono oltre centosettanta.

Nella notte del 13 luglio l’operazione israeliana “Margine Protettivo” ha scatenato la prima offensiva di terra e truppe speciali della Marina sono penetrate a Gazadal confine settentrionale. In seguito, tutte le forze impiegate sono rientrate in territorio israeliano, ma il primo ministro Benjamin Netanyahu fa sapere che per ora esse rimarranno sul confine.

ALGERIA E PALESTINESI: SOLIDARIETÀ SUD-SUD – La decisione della Nazionale di calcio algerina ha fatto ben presto il giro del mondo, sebbene per i mass media arabi l’annuncio non fosse del tutto inaspettato. Poche settimane prima dell’eliminazione, infatti, la cantante emiratina Ahlam aveva offerto un pallone da calcio in diamanti alla squadra in caso di vittoria e 10mila dollari per ogni giocatore che avesse segnato. Prevedibilmente si era poi sentita rispondere di elargire invece questi premi a chi nel mondo arabo versa in condizioni di bisogno. Il gesto dei calciatori induce a riflettere sui significati vecchi e nuovi che il maggiore conflitto mediorientale assume nei diversi Paesi della macro-regione, a livello politico e socio-culturale.

Nell’area la causa palestinese, dal 1948 in avanti, ha sempre avuto la funzione di collante sociale transnazionale. Nelle diverse epoche tale funzione ha assunto connotati prevalentemente religiosi, connessi dunque all’identità musulmana sovranazionale della Umma, la comunità dei fedeli, o in riferimento al mito del panarabismo transnazionale, topos politico con scarse realizzazioni concrete, tra le quali il breve esperimento della Repubblica Araba Unita (RAU), condotto da Gamal Abd el-Nasser tra il 1958 e il 1961 tra Egitto, Siria e, per poco, l’allora Yemen del Nord.

Le bandiere di Palestina e Algeria
Le bandiere di Palestina e Algeria

L’Algeria non fa eccezione e in modo solo apparentemente paradossale nel Paese nordafricano la notizia della donazione a Gaza non ha avuto la stessa eco con la quale si è diffusa all’estero. In Algeria si dice: «Con la Palestina quando ha ragione, con la Palestina quando ha torto».

A uno sguardo approfondito, l’Algeria rappresenta probabilmente uno dei più strenui sostenitori arabi della causa palestinese, e ciò per fondamentali ragioni di carattere storico e geografico. Dal punto di vista storico, la Guerra di indipendenza (1954-1962) e le tecniche in essa impiegate dai combattenti contro la Francia hanno costituito un indubbio modello per la lotta dei palestinesi. Il 18 dicembre 1988, a un mese di distanza dalla Dichiarazione di indipendenza palestinese, l’Algeria è stata il primo Paese al mondo a riconoscere lo Stato palestinese e a stabilire con esso relazioni diplomatiche. A seguito degli Accordi di Camp David tra l’Egitto di Anwar al-Sadat e il premier israeliano Begin del 1979, inoltre, l’Algeria ha a lungo sospeso i rapporti diplomatici con Il Cairo. Ancora adesso Algeri non intrattiene relazioni ufficiali con Israele, sebbene siano verosimili rapporti commerciali incentrati probabilmente sull’importazione algerina di tecnologia militare israeliana.

Oltre alle ragioni storiche che hanno dettato la solidarietà algerina al popolo palestinese, anche il fattore geografico rende il rapporto stabile. Vista la lontananza dell’Algeria dai territori israeliani e palestinesi, infatti, appare evidente come il Paese di Bouteflika abbia un ruolo meno complesso di Stati quali l’Egitto o la Giordania, da sempre costretti a un delicato equilibrio tra interessi nazionali, alleati occidentali e opinione pubblica. Risulta inoltre necessario notare come Algeri si sia resa protagonista, animata probabilmente tanto da ambizioni umanitarie, quanto dalla volontà di recuperare consensi a livello continentale, di una sorta di solidarietà “Sud-Sud” che non si esaurisce alla sola Palestina: nel 2013, per esempio, in occasione del 50° anniversario della nascita dell’Unione Africana, l’Algeria ha annullato il debito di 14 Paesi africani, tra i quali il Mali, per un totale di 902 milioni di dollari.

L’ALGERIA VISTA DA ISRAELE – All’avvio del quarto mandato presidenziale di Abdelaziz Bouteflika alla fine dello scorso aprile, in Israele ci si interrogava su ciò che il non-cambio di potere in Algeria avrebbe potuto significare per lo Stato ebraico. Con tutta probabilità la scelta algerina di puntare sullo status quo senza affrontare malcontento, stagnazione economica e corruzione ha allarmato Israele, alla luce di uno sguardo retrospettivo sulle sorti degli altri Paesi arabi che condividevano simili scenari. Dal punto di vista israeliano, le rivoluzioni delle “Primavere” hanno innescato un effetto domino che ha portato caos e instabilità, con un incremento della circolazione di armi incontrollata. Si pensi in tal senso alla rotta che dalla Libia veicola i traffici illeciti verso il Nord del Sinai e la Striscia di Gaza, insieme con un’accresciuta libertà di manovra jihadista nell’intera regione. Esasperare il malcontento del popolo algerino pertanto potrebbe danneggiare, seppur indirettamente, Israele stesso, sebbene fino a oggi l’Algeria sia rimasta pressoché immune alle cosiddette “Primavere”.

In aggiunta a un simile effetto domino, alcuni episodi hanno preoccupato gli analisti di Tel Aviv, come l’attentato al bus di turisti israeliani sul Mar Nero del 2012, di cui è sospettato un algerino addestrato da Hezbollah in Libano.

Il tweet di Rohani per la Nazionale iraniana
Il tweet di Rohani per la Nazionale iraniana

ISLAM E CALCIO: NON SOLO ALGERIA – L’identità musulmana e le tematiche a essa connesse sono state tra le protagoniste dei campionati mondiali di calcio appena conclusisi non solo in riferimento alla donazione algerina. Un altro tema su cui l’attualità si è sovente concentrata è stato l’opportunità per i calciatori di fede musulmana di seguire i dettami riguardanti il mese di Ramadan, in cui quest’anno si è svolta la competizione. Molti giocatori, primo tra tutti il francese Bacary Sagna, hanno semplicemente deciso di non digiunare, mentre altri si sono concentrati su alcune categorie di persone esentate dal precetto di non assumere cibo o liquidi dall’alba al tramonto, quali gli infermi, le donne in gravidanza e chi si trova in viaggio. Proprio l’esenzione per i viaggiatori sarebbe quella individuata da alcuni, come il difensore algerino Djamel Mesbah.

Il fatto che l’Islam non abbia un clero unitario che deliberi su lecito e illecito ha sempre fatto sì che su molti aspetti della vita quotidiana l’ijtihad (“interpretazione”) aprisse dibattiti fecondi e caratterizzati da una molteplicità di posizioni. Lo dimostra il parere ancora diverso di Mohammed Mekerkab, leader dell’Associazione degli Ulema algerini, il quale afferma che non sarebbe stato lecito per i giocatori astenersi dal digiuno, poiché l’esenzione per i viaggiatori è riservata a coloro che si spostano in cerca di sapere, per motivi di salute o per combattere il jihad. Un altro sapiente musulmano, il saudita Abd al-Rahman al-Barrak, si è reso protagonista del dibattito su Islam e calcio, vietando con una fatwa il gioco. La proibizione deriva dalla capacità di questo sport di creare divisioni sociali dettate dal tifo per squadre differenti e di diffondere “mode degli infedeli” tra i credenti musulmani. In aggiunta alla decisione della Nazionale algerina, alla questione del Ramadan e alla fatwa saudita contro il calcio, anche dall’Iran sono giunti i venti del confronto tra pensiero musulmano e Coppa del Mondo.

Il Presidente iraniano Hassan Rouhani, infatti, con una mossa che non ha precedenti nella storia del Paese, ha mostrato al mondo, per di più attraverso Twitter, un’immagine che lo ritrae intento a guardare una partita della Nazionale iraniana indossando una maglia della squadra. Oltre a essere una delle prime fotografie non ufficiali di un capo di Stato iraniano, il ritratto ha suscitato scalpore anche per il fatto che l’Autorità religiosa non è in abiti tradizionali.

Solo apparentemente notizia di costume, questo e altri espedienti mediatici sembrano confermare l’operazione di comunicazione che la Presidenza iraniana ha inaugurato da alcuni mesi.

Sara Brzuszkiewicz

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Sara Brzuszkiewicz
Sara Brzuszkiewicz

Sono nata nel 1988 e ho cominciato a conoscere il mondo molto presto grazie a due folli amanti dei viaggi, i miei genitori. Laureata in Mediazione Linguistica e Culturale nel 2010 ed in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale nel 2012, sono junior researcher su Nord Africa e Medio Oriente alla Fondazione Eni Enrico Mattei e dottoranda in Istituzioni e Politiche all’Università Cattolica di Milano. Nutro una smisurata passione per la lingua araba, una delle più ricche al mondo, e per la cultura arabo-musulmana in tutte le sue forme: dalla storia alla cucina, dalla geopolitica alla letteratura, dall’attualità alla danza orientale. Appena ho potuto, per migliorare il mio arabo o per piacere personale, ho viaggiato tra Egitto, Marocco, Siria, Tunisia, Emirati Arabi Uniti, Oman. Cittadina del mondo troppo sensibile, mi lego per sempre ad ogni luogo vissuto, che poi è immancabilmente difficile lasciare.

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