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Un’Italia senza euro

In questi mesi si è spesso parlato dell’idea per l’Italia di abbandonare l’euro. I problemi dell’Europa sono molti e la gestione della moneta unica è sicuramente uno di questi tuttavia da più parti si propone un ritorno alla lira come soluzione, o parte di essa. Ma cosa succederebbe davvero in questo caso?

A sostegno del ritorno alla lira si cita la sovranità monetaria che si recupererebbe, ovvero la possibilità di una politica finanziaria più adatta al nostro Paese (soprattutto alle nostre casse) e si portano come esempio le nazioni che l’euro non l’hanno mai avuto. Mollare la moneta unica viene dunque proposto come una sorta di panacea dei nostri problemi, ma ci siamo chiesti cosa succederebbe se davvero lasciassimo l’euro e tornassimo alla lira? Spesso no. Ecco perché proviamo, con una mini-simulazione, a immaginare come sarebbe il ritorno alla nostra antica valuta: l’idea è ragionare in concreto, per quanto possibile, e non solo per sensazioni.

LA SITUAZIONE – Con una buona maggioranza, gli italiani hanno votato un ritorno alla lira e un’uscita dall’euro. Il Governo esegue gli step istituzionali necessari (tralasciamo i dettagli al riguardo, anche perché al momento non esiste una procedura per farlo, ma non è questo il focus della nostra simulazione) e fissa un cambio ragionevole e semplice da applicare anche a mente (per esempio: 1 euro=2.000 lire). Ovviamente il cambio non è fisso e dunque ci si attende una svalutazione a breve termine, peraltro auspicata da tutti proprio come soluzione ai problemi di budget e debito pubblico. Nel frattempo a tempo di record il Governo fa stampare banconote e monete e fornisce alle banche e ai consumatori tutte le informazioni per la conversione dei conti correnti. Per un primo periodo i negozi sono obbligati a mettere il doppio prezzo, così da ridurre truffe per quanto possibile. Dall’1 gennaio (o qualsiasi altra data, non è fondamentale ai fini di questo esempio) dell’anno successivo al referendum il Paese torna alla vecchia valuta. Nei conti correnti la conversione da euro a lira avviene automaticamente e i correntisti possono vedere chiaramente il cambio e la conversione, indicata nelle due valute. I bancomat ora distribuiscono solo lire e chi possiede ancora euro può cambiarli al tasso ufficiale presso qualsiasi sportello bancario.

Quale impatto tutto questo avrebbe sull’economia del Paese e, soprattutto, sulla vita comune delle persone?

SVALUTAZIONE – La lira era una moneta debole e anche la nuova lira sarà debole. È del resto uno degli obiettivi dei promotori dell’idea: una moneta che possa essere stampata e svalutata. Stampare moneta infatti permette di poter avere fondi governativi sempre disponibili, coprire potenzialmente il debito senza emetterne di nuovo e, tramite la svalutazione, far ripartire l’economia favorendo l’export dei nostri prodotti, grazie ai bassi prezzi che ciò comporterebbe. Questo in teoria.

Nella realtà tutto giro attorno a un problema chiave: i Paesi che non hanno mai avuto l’euro non sono più paragonabili a noi proprio per questo motivo. L’Italia, a differenza loro, ha adottato l’euro e dunque ha una struttura economica già adattata alla moneta unica. Tornare indietro comporta una serie di problematiche addizionali che quei Paesi non hanno e non hanno mai avuto. Quali? Vediamole insieme, in una lista che, tra l’altro, non potrà essere esaustiva, bensì sicuramente per difetto…

Partiamo dal fatto che, come pianificato, la lira viene svalutata rispetto all’euro, sia per effetto di scelte nostre, sia perché l’euro, avendo perso una “zavorra”, diventerà più forte, così come le altre monete, ovviamente parlando sempre rispetto alla nostra. Motivo semplice: se prima l’euro era una moneta privilegiata per gli scambi internazionali, come il dollaro, ora la lira non lo è. Gli altri Paesi, semplicemente, non hanno incentivi a considerare la lira una valuta rilevante per gli equilibri mondiali (del resto chiediamocelo: perché mai dovrebbe essere altrimenti?)

Eurozona nel 2011. Nel 2014 si è unita la Lettonia
Eurozona nel 2011. Nel 2014 si è unita la Lettonia

COSTO DEI PRODOTTI – Abbiamo detto che si svaluta per abbassare i costi dei nostri prodotti e quindi permettere maggiori vendite soprattutto all’estero. Dunque maggiori entrate e l’economia riparte. Nella realtà però questo non avverrà, o almeno non nei primi anni. Perché? Perché l’Italia non è un Paese autosufficiente, ovvero non ha in casa tutte le risorse necessarie per la propria industria, manifatturiera e artigianale.

Perciò tutte le produzioni che usano materie prime, componenti o altro che venga importato dall’estero (inclusi l’hi-tech, una buona parte dell’alimentare perché le produzioni interne non sono sufficienti per il nostro fabbisogno, o anche solo la plastica, dato che gli idrocarburi vanno in gran parte importati) dovranno pagare tali importazioni a prezzi più alti, oppure non produrre, oppure parzialmente sostituire con componenti più scadenti, ma comunque a prezzi più alti di oggi. Il risultato è che molti nostri prodotti, soprattutto quelli lavorati, invece di costare di meno e dunque essere favoriti nell’export costeranno di più o circa uguale – e dunque non solo non si avrà il vantaggio sperato, ma al contrario questo andrà a innestarsi in un contesto sociale più povero. Le imprese perciò non si risolleverebbero, perché guadagnerebbero uguale o meno di oggi (cioè rimarrebbero in crisi) e i lavoratori avrebbero anche minore potere d’acquisto.

Prima di spiegare perché, è però corretto notare come ci siano effettivamente delle produzioni che guadagnerebbero dalla situazione, in particolare quelle totalmente autoctone (come l’allevamento, l’agricoltura, l’alimentare con materie prime solo italiane, il vitivinicolo…).

Questi settori, non richiedendo prodotti esteri, potrebbero effettivamente vendere a prezzi più bassi all’estero e dunque diventare più competitive grazie alla svalutazione… ma questo difficilmente porterebbe a un vantaggio per la popolazione. La tendenza sarebbe proprio quella di vendere quanto più possibile all’estero, non in Italia, perché è il cambio di valuta che dona tale vantaggio e non la vendita nel mercato italiano, dove anche il potere d’acquisto sarebbe più basso e dunque i prezzi dovrebbero adeguarsi. E anche se le aziende coinvolte possono guadagnare da questo export, per mantenere vantaggiosa questa dinamica i salari non possono crescere troppo – dunque i lavoratori non ne beneficerebbero se non per il mantenimento del posto di lavoro (cosa comunque importante!).

Dunque alle aziende conviene vendere all’estero e non in Italia, soprattutto per i prodotti made in Italy ad alta richiesta nei Paesi emergenti. A noi rimarrebbero prodotti troppo costosi o più economici (ma badate: anche prodotti cinesi costerebbero di più, sempre per via del cambio) a qualità più scarsa.

POTERE D’ACQUISTO – Perché parliamo di potere d’acquisto più basso? Perché di contesto sociale più povero?

Perché la svalutazione della moneta e l’aumento dei prezzi di qualsiasi cosa provenga dall’estero impattano sulla vita comune delle persone che, nel mondo globalizzato odierno, tendono – a volte senza nemmeno accorgersene – a dipendere proprio da ciò che viene importato. Basti pensare che qualsiasi oggetto di plastica o gomma deriva dalla petrolchimica, che ha le proprie materie prime importate da Paesi ricchi di petrolio e gas naturale. Che si pagano in dollari: non è l’euro, ma comunque una valuta di riferimento che rimarrebbe più forte della lira in rapida svalutazione. Oggetti, hi-tech, ma anche prodotti alimentari (soprattutto quelli fuori stagione), automobili, pneumatici, elettrodomestici… Con una lira che vale di meno, la quantità di lire necessarie per comprare aumenta, soprattutto in Italia, che, come detto, non è un Paese autosufficiente. E non basterà “comprare italiano” proprio per le basse quantità disponibili di tante produzioni e la tendenza di vendere all’estero il made in Italy.

I salari dunque, non aumentando, avranno un potere d’acquisto minore rispetto al passato recente. Chi vende in Italia dovrebbe vendere a prezzi più bassi (ricavi ulteriormente minori a ora) o tenere prezzi alti e non vendere (perché la gente avrebbe meno soldi).

A questo si aggiunga un aumento dei prezzi dell’energia (gas per riscaldamento, elettricità), che in gran parte viene importata dall’estero, come energia o come materia prima, rendendo molto più costoso scaldarsi d’inverno o rinfrescarsi d’estate. Ciò ovviamente peggiorerebbe il potere d’acquisto delle famiglie. Teniamo inoltre presente che un completo riordino energetico del Paese (più rinnovabili, connessioni alle reti estere…) richiede anni e costi molto elevati e comunque non ci libera totalmente dalle importazioni. L’Italia, infatti, importa gran parte del petrolio e del gas naturale che utilizza.

L'Italia importa gran parte del petrolio e del gas naturale che utilizza
L’Italia importa gran parte del petrolio e del gas naturale che utilizza

Il risultato che ne deriva è un forte incremento dell’inflazione, anche fino a due cifre. Il maggior contante circolante a causa del continuo stampare moneta porta infatti a un aumento dei prezzi (indipendentemente dalla qualità dei prodotti), senza che questo comporti un aumento degli stipendi. Nonostante la derivante difficoltà dei commercianti a vendere, è poi plausibile che nemmeno nel lungo periodo ci possa essere una diminuzione dei prezzi. Questo perché la spirale inflazionistica, per definizione, risucchia il sistema: nel lungo periodo si avrebbe un aumento del costo di beni e servizi, con l’aumento dei costi di produzione e l’aumento del costo del trasporto (in questo caso il costo di petrolio e derivati aumenterebbe ben oltre il livello di inflazione medio).

Nel caso meno probabile nel quale, invece, dopo un certo periodo, i prezzi tendano ad abbassarsi – perché a fronte dei mancati consumi i negozianti infine accettano sacrifici pur di vendere – si avrebbe al contrario la temuta stagflazione, ovvero un abbassamento dei prezzi (deflazione) che impedisce un guadagno significativo per chi produce e vende

In entrambi i casi si avrebbe una stagnazione economica (fino ad arrivare a una recessione) perché molte imprese continuerebbero a dover chiudere o ridurre molto produzione e occupazione. In entrambi i casi il contrario di quanto qualcuno spera possa avvenire lasciando l’euro.

DOPPIA VALUTA – Chi avrà euro contanti in tasca tenderà a tenerli perché, come succede in casi simili (Paesi con valute bloccate a tasso di cambio fisso che “sbloccano” tale cambio, il caso più simile al nostro), varranno sempre di più. E il rischio, non sicuro, ma da non ignorare, è la circolazione della doppia valuta – ufficialmente la lira, però con l’euro e, in misura molto più scarsa, il dollaro a essere accettati in molti posti e con due cambi: quello ufficiale con quantità limitate e solo per cambiare in lire e quello “da mercato nero”, generalmente più alto. Il problema è che la grande richiesta di euro a più alto valore e l’impossibilità per molti di recuperarli potrebbe portare a un rischio addizionale: che il giro di affari dell’euro residuo e i cambi clandestini siano gestiti dalla malavita. A questo si aggiunga il probabile smercio di euro falsi in Italia: senza più moneta corrente, dopo qualche anno in quanti si accorgerebbero di piccole differenze?

FUGA DI CAPITALI ALL’ESTERO – Tale questione porta a un altro fenomeno che si verificherà poco prima dell’abolizione dell’euro in Italia, poiché comunque, per motivi tecnici di organizzazione, anche riducendo i tempi al minimo passerà qualche mese tra il referendum e l’effettivo cambio di valuta. Chi potrà trasferirà prima del termine i propri conti correnti all’estero, o in banche estere che mantengano l’euro, o chiederà conti correnti in valuta estera. Quest’ultima cosa è possibile anche ora se si guardano i tanti conti correnti disponibili dalle banche. Perché? Perché se si aspetta il cambio, tutto ciò che è nel conto corrente verrà cambiato in lire e dunque verrà svalutato – dato che questo è l’intento principe del cambio di valuta.

È come perdere improvvisamente il 25%, il 50%, il 75% (a seconda delle decisioni prese, ma anche di come reagisce il mercato) di ciò che si possiede. Chi lo vorrebbe? Chi può cercherà di evitarlo. E si avrà il curioso fenomeno di uno Stato che cambia valuta a furor di popolo mentre lo stesso popolo prova a tenersi stretta la vecchia moneta per non perdere i propri risparmi.

Chi guadagna in valuta estera tenderà a tenere nascosti i capitali all’estero, ove possibile, aumentando l’evasione imprenditoriale. Chi è onesto tenderà comunque a richiedere che i risparmi vengano tenuti in valuta estera, pagando però ogni volta il cambio e favorendo il fenomeno della doppia valuta visto sopra (chi è vicino alla frontiera, in particolare, preleverà all’estero e porterà in patria la moneta forte per avere maggiore potere d’acquisto in patria). L’eventuale tassazione di tale fenomeno favorirà il mercato nero.

TITOLI DI STATO E DEBITO PUBBLICO – Il cambio di valuta non avrà effetti positivi nemmeno sul debito. Perché? Perché il nostro debito è in euro… e non può essere modificato in lire senza il permesso di chi, quei bond, li possiede. Dunque, non si può unilateralmente decidere che un bond da 1.000 euro da domani varrà 1.000 lire. Innanzi tutto varrà l’equivalente in lire di 1.000 euro. Ma se la lira si svaluta, la quantità di lire necessarie per coprire quel debito salirà vertiginosamente.

È vero, l’Italia ora può stampare moneta. Ma stampare moneta è proprio ciò che si fa per svalutarla – dunque più stampiamo per pagare il debito, più il debito aumenta. La speranza è che la moneta si svaluti meno di quanto la stampiamo. Ma noi siamo l’Italia, non gli USA, o la Cina, o anche solo la Germania: la nostra valuta non è un riferimento e non è un bene rifugio che altri possano comprare per farne alzare il valore (è così che si ridurrebbe la svalutazione). Anzi, è la più chiara carta d’identità di un piccolo Paese che vuole correre da solo senza avere un’economia solida – e che quindi non è affidabile. L’esperienza di altri Paesi in situazioni simili (Argentina, per esempio) mostra come generalmente questo porti a un peggioramento del cambio. Del resto, se cambiamo valuta per svalutarla e poi contiamo sul fatto che non si svaluti troppo, forse dovremmo prima pensare bene a quale è il nostro obiettivo principale… Il risultato sarebbe un debito in breve tempo non sostenibile. In Argentina è successo così e senza avere avuto i benefici sperati.

Possiamo convincere i nostri creditori a utilizzare un cambio fisso? Beh, bisogna convincerli… ma perché mai questi dovrebbero accettare? Significherebbe perdere grandi quantità di rendita, di cui, probabilmente, hanno loro stessi bisogno. E poi pagare di meno di quanto teoricamente richiesto sarebbe equivalente a chiedere una ristrutturazione del debito – ovvero una dichiarazione di default. E non potremmo chiedere al “Fondo salva Stati” di aiutarci, perché è solo per i Paesi dell’area euro e noi ne siamo appena usciti!

E poi se cambiamo valuta proprio per evitare il default, e però andiamo incontro a questo destino, che senso avrebbe avuto fare il cambio? Chi pensa alla situazione di Paesi che non hanno mai avuto l’euro si ricordi di questa differenza: il problema è proprio il fatto di cambiare valuta dopo aver utilizzato l’euro per il nostro debito. Chi non ha mai aderito, invece, si trova in una situazione molto diversa.

MUTUI & CO. – Altro aspetto da monitorare è legato ai mutui per le case e i prestiti. Contratti in euro potrebbero sicuramente essere ripagati in lire, ma il cambio variabile (e almeno da subito variabile in peggio per l’attesa svalutazione) si andrebbe ad aggiungere alle altre spese e renderebbe ogni rata più cara. Probabilmente le banche opererebbero una ristrutturazione delle rate stesse per evitare di soffocare i clienti, ma difficilmente vorranno rimetterci: la cifra finale sarà dunque più alta.  E a nulla servirà la famigerata lex monetae che viene invocata in questi casi da molti fautori dell’uscita dall’euro: essa infatti indica chiaramente (art.1278) che la valuta si cambia solo al momento del pagamento di ogni singola rata (rimanendo soggette dunque al cambio progressivamente peggiore) e non è un caso che i suoi proponenti infatti auspichino apertamente improbabili iniziative politiche per farla funzionare diversamente da ciò che è tramite deroghe.

EU ED EUROZONA – A questo proposito è interessante la questione delle relazioni con l’EU. Ovviamente l’Italia può restare in Europa anche senza euro, nessun problema qui. Inoltre, uscendo dall’euro, che diventerebbe ancora più forte avendo perso un punto di debolezza, effettivamente il nostro export autoctono (e solo quello!) come detto diventerebbe più competitivo rispetto, per esempio, a quello della Germania. Ma avremmo perso ogni possibilità di influenzare il cammino della moneta unica e se la nostra uscita dovesse effettivamente convincere i Paesi dell’euro a modificarne la governance, noi non parteciperemmo alla discussione e saremmo ovviamente esclusi da ogni beneficio risultante. Avremmo insomma dato il via al cambiamento tanto sperato solo per esserne esclusi e continuarne a pagare il prezzo.

CONCLUSIONI – Si potrebbe andare aventi con esempi di altri aspetti, ma credo sia chiaro ormai come pensare «niente euro=soluzione dei problemi» sia un po’ illusorio. I precedenti di Paesi che hanno affrontato esperienze simili (alto debito, passaggio da valute a cambio fisso – che è come la nostra situazione – a cambio variabile per svalutare) ci mostrano come questa misura non aiuti se non vengono fatte le riforme. Invece sembra si pensi che tornare alla lira sia la bacchetta magica che risolve i problemi senza dover fare altro. Ma non è così. Per l’Italia innanzi tutto esiste un problema di riforme e di burocrazia: senza quelle, ogni svalutazione rimanda solo il problema, non lo risolve. Se poi si cambia valuta, addirittura le criticità, come visto, vengono accelerate. Il problema infatti non è l’euro in sé, ma come viene gestito: per cambiare questo, nell’eurozona bisogna rimanerci. Il centro studi di Confindustria stima che la perdita del PIL in caso di ritorno alla lira possa essere di almeno il 25%. Prima o poi la situazione si stabilizzerebbe, ma sarebbe una stabilità con molto meno benessere di adesso, nonostante stiamo attraversando un periodo di crisi.

Al di là del valore preciso sulla diminuzione di PIL, ovviamente soggetto a interpretazione, questo breve lavoro vuole far emergere le criticità che esistono ed esisterebbero in caso di abbandono dell’euro: dovranno verificarsi tutte? Molto probabilmente sì. Ma anche se qualcuna dovesse farsi sentire in maniera meno marcata, nessuna di esse può ignorata o considerata impossibile. È importante essere coscienti che lasciare l’euro ha un prezzo, e che questo prezzo è molto più caro del rimanerci e provare a cambiarlo.

Lorenzo Nannetti

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Lorenzo Nannetti
Lorenzo Nannetti

Nato a Bologna nel 1979, appassionato di storia militare e wargames fin da bambino, scrivo di Medio Oriente, Migrazioni, NATO, Affari Militari e Sicurezza Energetica per il Caffè Geopolitico, dove sono Senior Analyst e Responsabile Scientifico, cercando di spiegare che non si tratta solo di giocare con i soldatini. E dire che mi interesso pure di risoluzione dei conflitti… Per questo ho collaborato per oltre 6 anni con Wikistrat, network di analisti internazionali impegnato a svolgere simulazioni di geopolitica e relazioni internazionali per governi esteri, nella speranza prima o poi imparino a gestire meglio quello che succede nel mondo. Ora lo faccio anche col Caffè dove, oltre ai miei articoli, curo attività di formazione, conferenze e workshop su questi stessi temi.

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