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Repubblica Centrafricana: i molti attori di una crisi

A marzo 2013, la coalizione di ribelli Séléka ha rovesciato con un colpo di Stato il regime di Bozizé, in carica dal 2003, trascinando il Paese in una disastrosa crisi umanitaria in cui molteplici attori regionali e internazionali hanno una posta in gioco.

 

I GRUPPI – Il capo di Séléka, Michel Djotodia, dopo essersi autoproclamato Presidente, ha formalmente sciolto le milizie ribelli. Tuttavia, i loro comandanti sono stati riciclati ai vertici dell’esercito, mentre una molteplicità di raggruppamenti militari minori, sorti dalle ceneri della coalizione e svincolati dal potere centrale, ha ripartito il territorio in zone di influenza e compiuto scorribande, uccisioni e stupri a danno della popolazione. Per contrastarli, si sono formati dei gruppi di autodifesa, i cosiddetti “Anti Machete”, capaci di respingere la presenza delle schegge impazzite di Séléka dal Sudovest del Paese, dove prosegue parallelamente la caccia al leader del Lord Resistence Army di Joseph Kony.

 

IL GOLPE – Lo slancio di Séléka era motivato inizialmente dalla volontà di rovesciare il presidente Bozizé, colpevole di non essersi attenuto all’accordo di Libreville, concluso all’inizio del 2013 con i ribelli. In cambio del ritiro di Séléka dalle città occupate e della cessazione delle ostilità, la coalizione avrebbe dovuto ottenere la reintegrazione dei propri ex combattenti all’interno dell’esercito regolare e una propria rappresentanza in un Governo di unità nazionale di 12 mesi. Il fatto che entrambi gli impegni siano stati disattesi motiva solo in parte la ripresa delle ostilità da parte dei ribelli.

 

Francois_Bozize
L’ex presidente Bozizé

I DIAMANTI – È stata la gestione profondamente corrotta e personalistica del settore minerario, in particolare di quello diamantifero, fondamentale per l’economia del Paese, ad aver accresciuto il risentimento locale. Il monopolio di Bozizé – e dei suoi predecessori – nella gestione da un lato dei permessi di estrazione e di esportazione e dall’altro delle rendite, gli ha consentito di sviluppare solide reti clientelari e di favorire il gruppo etnico Gbaya, di cui lo stesso Presidente fa parte. La mancanza di un’equa distribuzione di ricchezze nel Paese ha poi spinto gli esclusi ad arruolarsi con i ribelli, per subentrare nella rete informale che controlla la produzione e il commercio di diamanti e potersi affrancare dalla miseria.

 

I MERCENARI – Adesso che Bozizé è fuggito in Camerun, la legittimità parziale di cui gode Djotodia è insufficiente a guidare la fase di transizione in cui versa il Paese. Lo scioglimento delle milizie è servito ad accondiscendere gli Stati Uniti, ma il nuovo Presidente non ha ancora incassato il placet dell’Unione Africana. Il ruolo inconsistente al quale è stato relegato il Primo Ministro, Nicolas Tiangaye, ha agevolato il potenziamento di Séléka: le sue fila contano ora 20mila effettivi, tra cui anche mercenari musulmani – provenienti dal Ciad e dal Sudan – che hanno liberato e arruolato criminali locali e detenuti dalle carceri.

 

ETNIA E RELIGIONE – Gli scontri si stanno caricando di significati etnico-religiosi. Tra le milizie si nascondono pedine di estrazione sunnita-wahabita, finanziate da alcuni Paesi del Golfo e manovrate da gruppi jihadisti installati nella regione del Sahel. Il loro obiettivo è attentare alla dimensione cristiana del Paese – fino a ieri in pace con quel 15% di musulmani presenti sul territorio – per trasformarlo in uno Stato islamico. Ma si registrano attacchi anche a scapito di un’etnia nomade della popolazione musulmana: i Peuls. A riguardo, Emergency ha denunciato in questi giorni che vengono presi di mira soprattutto i bambini, brutalmente mutilati con i machete.

 

IL SUDAFRICA – Sulle sorti del Paese pendono anche gli interessi, ben lontani da quelli religiosi, di diversi attori regionali e internazionali, in primis il Sudafrica. Il suo intervento militare a sostegno di Bozizé – ormai abbandonato dai francesi – era stato motivato, secondo il partito d’opposizione del Paese, più da interessi sui diritti di sfruttamento di materie prime minerarie nella Repubblica Centrafricana, che dal nobile intento di mantenere la pace e la stabilità del Paese. Inoltre, a seguito delle perdite inferte a un suo distaccamento da parte delle milizie Séléka, la South African Defense Force si starebbe riorganizzando per rovesciare i ribelli al Governo. Attualmente, i soldati sudafricani sono stanziati in Uganda, in attesa di direttive da Pretoria.

 

Nella Repubblica Centrafricana sono arrivati 1.600 soldati francesi
Nella Repubblica Centrafricana sono arrivati 1.600 soldati francesi

IL CIAD – Già artefice della salita al potere di Bozizé, il Ciad è stato suo fidato alleato finché si trattava di arginare i flussi di rifugiati provenienti dal Sudan. Nel dicembre 2012, preso atto dell’incompatibilità della sua presenza militare con quella sudafricana, e dell’incapacità di contrastare i ribelli ciadiani attivi sul territorio della RCA, il Ciad ha deciso di voltare le spalle al proprio vicino. Non vi sono dubbi che il Paese sia stato tra i sostenitori occulti della coalizione che ha rovesciato Bozizé. Ora, messo di fronte al pericolo del terrorismo islamico, anche il presidente ciadiano Déby è costretto a riaggiustare la propria posizione, denunciando l’insostenibilità di un vuoto di potere che potrebbe costare caro alla stabilità interna del Paese.

 

LA FRANCIA – Nonostante la frattura con Bozizé – per via del suo crescente avvicinamento alla Cina tramite accordi di cooperazione bilaterale, – Parigi risponde ancora agli appelli della Françafrique. La Francia era già presente militarmente nella RCA per impedire che i giacimenti di uranio a Bakouma, gestiti dal gruppo francese Areva, cadessero in mano ribelle. Il numero dei suoi soldati è salito a 1.600, dopo l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU a entrare nel Paese il 5 dicembre. Lo scopo è sostenere l’operazione di peacekeeping MISCA, che incorpora la forza multinazionale africana FOMAC e la missione dell’Unione Africana, i cui effettivi saliranno a 6mila. Un intervento rapido ed efficace – ma con quasi 400 vittime – per portare il Paese al disarmo e a elezioni libere. Lo stesso obiettivo per cui i Paesi africani, nel corso del summit per la Pace e la Sicurezza in Africa tenutosi all’Eliseo, hanno chiesto una conferenza per gli aiuti, per evitare alla RCA il collasso. Come in Mali, l’inadeguatezza delle forze locali rende ancora impossibile affrancare il continente dal prezioso sostegno della vecchia madrepatria.

 

Paolo Napol

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Paolo Napol
Paolo Napol

Laureato in giurisprudenza all’Università Bocconi, con una major in diritto internazionale e il pallino fisso della diplomazia. Ho studiato in Olanda, dove i venti della Corte Penale Internazionale mi hanno trascinato, tra crimini di guerra e contro l’umanità, nelle vicende dei conflitti africani e dell’ex Yugoslavia. In seguito, mi sono occupato delle missioni di pace delle Nazioni Unite e dei tribunali misti di Sierra Leone, Cambogia, Timor-Est, Kosovo e Libano. Non disdegnando affatto il Vecchio continente, ho anche scritto per Youth for Europe, un progetto finanziato dal Parlamento europeo e realizzato dall’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI), dove nel 2013 ho conseguito il master in diplomacy. Con il corpo sono attualmente a Milano, ma con la testa mi trovo ancora in Marocco, tra un banjo scordato e una tajine di agnello alle prugne.

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