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Sea control e sea denial: il controllo del mare oggi (II)

Quando si parla di possibili campagne militari future, Iran e Cina sono sempre in testa alla lista dei possibili avversari del mondo occidentale. Vediamo quindi come Teheran e Pechino intendono controllare il loro fronte marittimo: ‘sea denial’ o ‘sea control’?

 

(Rileggi qui la prima parte dell’analisi)

 

IL CASO IRANIANO – Il caso iraniano è considerato oggi quello che piĂą si adatta a spiegare l’impostazione dottrinale sul sea denial. La chiave di tutto è lo stretto di Hormuz, unito alla configurazione morfologica della costa iraniana. La scarsitĂ  di risorse finanziarie e tecnologiche viene in parte compensata dai vantaggi geografici. Sembra strategia d’altri tempi, quando satelliti e armi stand alone non esistevano, ma non lo è. Le forze navali iraniane dispongono di pochissime unitĂ  maggiori di superficie, oltretutto antiquate. Esistono però sciami di unitĂ  piccole e veloci equipaggiate con armamento missilistico. La zona costiera ed eventualmente Hormuz potrebbero in teoria essere sottoposte ad attacchi di saturazione. Lo stretto e la costa possono inoltre essere minati allo scopo di intralciare il traffico commerciale e militare in transito. A dispetto dell’incapacitĂ  di controllare con la forza quei bracci di mare, Teheran mira a interdirne l’uso anche ad altri. In effetti i “nuovi ritrovati” iraniani meritano una discreta considerazione: per esempio i minisommergibili, in gergo “midget”. Si tratta di battelli primitivi e male armati, tecnologicamente poco avanzati, ma in ambiente litoraneo, caratterizzato da profonditĂ  minime e orografia frastagliata, la difficoltĂ  di individuazione li rende una spina nel fianco per qualunque oppositore. Poca menzione meritano invece l’aviazione e le batterie missilistiche costiere, di solito tra i punti di forza di una postura strategica “anti-access” tridimensionale. In caso di scontro con gli USA e/o i Paesi del Golfo, l’aeronautica iraniana sopravvivrebbe molto poco: troppo arretrata e poco efficiente per affrontare il top tecnologico e addestrativo che vantano gli avversari. Per quanto riguarda le batterie costiere, è impensabile che una marina maggiore porti le proprie unitĂ  entro il loro raggio di azione prima di averle annichilite dall’alto. Al contrario dei missili balistici cinesi, che vedremo dopo, quelli iraniani sono missili antinave montati su autocarri, con portata relativamente limitata e quindi facile preda dell’aviazione navale avversaria.

 

IL TERMOMETRO DEL SUCCESSO – Il sea denial iraniano è dunque una tigre di carta e non sarebbe in grado di sconfiggere gli avversari che attualmente Teheran ha di fronte. Ma tecnicamente (leggasi anche politicamente) la tattica del sea denial potrebbe anche avere successo. Mine, sottomarini e unitĂ  sottili rappresentano un’insidia sufficiente a fare in modo che il costo che un eventuale avversario dovrebbe sostenere per contrastare le forze iraniane surclasserebbe di misura quanto speso da Teheran per porre in essere tali forze. Allora è un successo o un insuccesso? Questo dipende dagli obiettivi politici. Se valesse la pena colpire l’Iran a qualunque costo, le sue forze armate non sarebbero in grado di difenderlo opportunamente. Se invece si intentasse un attacco punitivo limitato o una rappresaglia armata è probabile che il dispositivo iraniano potrebbe vantare il successo di rendere l’azione poco consigliabile militarmente a causa delle possibili perdite elevate, nonchĂ© economicamente non conveniente. Le vie di mezzo tra le due opzioni rappresentano sicuramente un interessante esercizio per analisti e appassionati.

 

IL CASO CINESE – Il caso cinese è ancora più complesso. Nonostante la Cina sia da anni un osservato speciale, la sua strategia marittima non è del tutto chiara. Qualcuno suggerisce perché non è completa (in fieri), ma nessuno ci metterebbe la mano sul fuoco. Per decenni l’approccio cinese alla guerra navale è stato limitato alla difesa delle proprie coste. Hanno quindi prevalso, nella marina, unità sottili e da attacco veloce. A differenza dell’Iran, però, il concetto di sea denial è qui molto difficile da applicare. Sebbene i mezzi da interdizione marittima surclassino per numero e qualità i relativamente pochi dedicati alle altre missioni (per esempio la proiezione di potenza o la difesa aerea), sembra che la marina cinese voglia controllare a tutti gli effetti la vasta porzione di oceano antistante alla propria costa, non semplicemente interdirlo. In effetti la postura strategica cinese è sempre più completa.  L’aviazione ha notevolmente migliorato le proprie capacità e le unità maggiori di superficie stanno progressivamente raggiungendo standard

UnitĂ  lanciamissili d’assalto (FAC) classe Houbei (Cina).

tecnologici vicini a quelli occidentali, almeno in teoria. La notizia che la Cina si sia dotata di una portaerei ha fatto propendere diversi analisti verso l’ipotesi che essa voglia proiettare potenza nei prossimi decenni. Al momento attuale, però, potrebbe non essere così. Se è vero che Pechino continua a finanziarie la costruzione di unitĂ  con capacitĂ  oceaniche, è vero anche che lo sviluppo di sistemi missilistici antinave lanciati da terra non si ferma (si veda il misterioso DF-21D “carrier killer”), così come lo sforzo per mettere in cantiere una classe di sommergibili a elevate prestazioni. Gli investimenti in entrambi i sensi fanno quindi supporre che missili e sommergibili servano piĂą da deterrente che da assetto anti-access vero e proprio. Veniamo al ruolo della portaerei. Abituati a vedere le grandi unitĂ  americane dislocate al largo delle coste ostili per proiettare potenza, abbiamo dimenticato il ruolo di base che un’unitĂ  portaeromobili, soprattutto se di dimensioni limitate, ricopre all’interno di una flotta: estendere la copertura aerea ed effettuare interdizione antinave e antisommergibile. Un ruolo da Battaglia di Midway piĂą che da Guerra del Golfo, insomma. La Cina si sta probabilmente muovendo in questa direzione, impostando il proprio dispositivo con attenzione al sea control piuttosto che alla proiezione. Senza escludere, però, interventi nel Mar Cinese Meridionale o nello stretto di Malacca. C’è infine un’ultima ipotesi che riguarda la portaerei “Liaoling”: i cinesi, che non hanno tradizione propria in materia di aviazione navale, la starebbero utilizzando come una grossa piattaforma di prova per studiare tattiche e dottrine “customizzate” alle loro necessitĂ . Tuttavia è doveroso specificare che solo il tempo e gli studi futuri valideranno del tutto o smentiranno queste affascinanti ipotesi.

 

Marco Giulio Barone

 

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Marco Giulio Barone è analista politico-militare. Dopo la laurea in Scienze Internazionali conseguita all’Università di Torino, completa la formazione negli Stati Uniti presso l’Hudson Institute’s Centre for Political-Military analysis. A vario titolo, ha esperienze di studio e lavoro anche in Gran Bretagna, Belgio, Norvegia e Israele. Lavora attualmente come analista per conto di aziende estere e contribuisce alle riviste specializzate del gruppo editoriale tedesco Monch Publishing. Collabora con Il Caffè Geopolitico dal 2013, principalmente in qualità di analista e coordinatore editoriale.

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