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Il Grande Gioco dell’Oceania

Miscela strategica – Il Pacifico meridionale è ormai un fronte di scontro tra Cina, Stati Uniti e Australia: il controllo delle rotte che uniscono l’Asia al Sudamerica e l’accesso a ingenti risorse minerarie rendono l’Oceania una regione strategica per gli equilibri mondiali. Il tutto senza contare che gli Stati insulari dell’area, per quanto piccoli, hanno pur sempre diritto di voto nelle Organizzazioni internazionali.

 

ROTTE E DIRETTRICI DEL PACIFICO MERIDIONALE – Riflettere sul contesto geopolitico del Pacifico meridionale impone innanzitutto una definizione della regione. Generalmente, gli esperti distinguono tre diverse aree, ossia il Pacifico centro-meridionale (tra l’Isola di Pasqua e le Fiji); il Pacifico sud-orientale (di fatto la costa ovest dell’America del Sud); il Pacifico sud-occidentale, comprendente i maggiori attori statali (Australia, Fiji, Indonesia, Nuova Zelanda, Papua Nuova Guinea). Queste sottoregioni sono attraversate da importanti direttrici di comunicazione, che rendono comprensibile la strategicitĂ  del Pacifico meridionale. La prima di esse, in direzione nord-sud, è la cosiddetta “Western Route”, che unisce i Paesi asiatici ad Australia e Nuova Zelanda tramite Singapore e Indonesia. La seconda è la linea “Northwest/Southeast“, che collega l’Asia al Sudamerica attraverso le aree del Pacifico centro-meridionale e sud-orientale. Infine, la “Eastern Route”, una via lungo tutta la costa occidentale del continente americano nella sua interezza. Recentemente, alcuni analisti hanno cominciato a porre l’attenzione anche sulla rotta “SW-SE”, lungo la quale transitano i collegamenti da Australia e Nuova Zelanda verso l’America meridionale.

 

Schema delle rotte che transitato dal Pacifico meridionale: la "Western Route" (rosso), la "Eastern Route" (giallo), la Transpacifica (blu) e la "SW-SE Route" (verde)
Schema delle rotte che transitato dal Pacifico meridionale: la “Western Route” (rosso), la “Eastern Route” (giallo), la “Northwest/Southeast” (blu) e la “SW-SE Route” (verde)

L’APPROCCIO CINESE – Per lungo periodo, il Pacifico meridionale è stato ritenuto di importanza minore nello scacchiere globale: l’opinione pubblica internazionale non riteneva strategicamente rilevanti i piccoli Stati insulari dell’area, accettando implicitamente che l’ordine della zona competesse all’Australia, la quale agiva spesso per procura degli Stati Uniti. Al di là degli anni Ottanta, quando URSS, Cina e Libia, con ottiche e obiettivi diversi, tentarono di penetrare in Oceania per insidiare la supremazia statunitense, per tutta la seconda metà del Novecento il quadrante è stato tralasciato dagli analisti di gran parte del mondo. Da un decennio, però, il Pacifico meridionale sta vivendo nuove dinamiche, divenendo un campo di confronto tra Cina e Stati Uniti: controllare la regione significa disporre di un accesso privilegiato sia a rotte aeronavali primarie, sia a importanti risorse minerarie. Lo scopo di Pechino è garantire la sicurezza dei propri trasporti, considerate le difficoltà che il Paese deve affrontare per difendere e ampliare l’accesso al mare, tra contrasti internazionali e necessità di evitare i chokepoint naturali. La penetrazione cinese sta avvenendo tramite l’impiego delle tecniche tipiche del soft power, proporzionate ai contesti nei quali ci si trova ad agire. Per esempio, nelle Vanuatu, la Repubblica Popolare si è garantita il disconoscimento di Taiwan e l’uso dell’approdo di Port Vila in cambio della costruzione di alcune infrastrutture. Nelle Tonga, la Cina è entrata progressivamente – non senza difficoltà – attraverso aiuti militari e prestiti agevolati allo Stato, una politica analoga a quella adottata nelle Fiji, con l’amicizia al Governo autoritario di Bainimarama concretatasi nell’ingresso delle banche del Dragone in diretta concorrenza con gli istituti di credito australiani e neozelandesi. I Paesi del Pacifico meridionale (escluse Australia e Nuova Zelanda) nel 2011 hanno esportato in Cina beni per 1,2 miliardi di dollari e importato merci del valore di $900 milioni. Pechino ha investito largamente nella ricerca mineraria (si veda il progetto Ramu Nickel in Papua Nuova Guinea, da $1,5 miliardi) e nel settore delle telecomunicazioni, sebbene il gap sia ancora considerevole rispetto all’Australia. Da un punto di vista diplomatico, la Cina mantiene rapporti con tutti i Paesi del Pacifico che abbiano accettato di sostenerla nella disputa con Taiwan, pur non avendo al momento alcun interesse a espandere il proprio controllo militare sugli Stati insulari, nonostante, soprattutto con Fiji, Papua Nuova Guinea e Tonga, via sia una stretta collaborazione. Niente a che vedere, pertanto, con la presenza dell’Australia, che oltre a varie missioni nella regione (Timor Est, Bougainville, Isole Salomone), ha attivi vasti programmi di assistenza militare.

 

Il commodoro Frank Bainimarama, Primo Ministro delle Fiji, autore di due colpi di Stato (2000 e 2006).
Il commodoro Frank Bainimarama, Primo Ministro delle Fiji, autore di due colpi di Stato (2000 e 2006)

IL DIBATTITO TRA AUSTRALIA E STATI UNITI – Gli USA non gradiscono la presenza cinese, tanto che, col mutare del sentimento dell’opinione pubblica in Australia circa l’alto numero di soldati inviati all’estero e gli interventi per conto degli americani, Obama ha reagito riorganizzando la presenza militare statunitense nel Paese. Similmente, Canberra ha spostato la maggior parte delle proprie forze aeronavali lungo la costa settentrionale, tenendo conto che le acque dell’Oceano Indiano, colonna di proiezione per Nuova Delhi, sono un altro fronte di tensione. Alla fine del 2012, durante il Pacific Islands Forum, Hillary Clinton annunciò un investimento da $32 milioni per lo sviluppo economico nella regione. Tuttavia, l’allora Segretario di Stato andò oltre, affermando che gli stessi Stati Uniti fossero un Paese del Pacifico e che, pertanto, vi fosse un legame indissolubile con l’Oceania: un messaggio diretto alla Cina. Proseguendo con la politica dell’Amministrazione Obama di spostamento delle capacità di proiezione politico-militare verso il Pacifico, Washington ha interesse verso un incremento dell’attenzione per il valore geostrategico del quadrante a livello sistemico, prescindendo, quindi, dall’approccio adottato sinora dalla comunità internazionale, basato sulla gestione in modo singolo di ogni crisi degli ultimi venti anni (insurrezione di Bougainville, 1989-1998; disordini nelle Isole Salomone, 1999 e 2006; colpi di Stato alle Fiji, 2000 e 2006; rivolte nelle Tonga, 2006). Hillary Clinton dichiarò nel 2012 che il Pacifico fosse «abbastanza grande per USA e Cina», evitando quindi di rivolgersi alla principale controparte con toni accesi, pur essendo un dato di fatto che l’Oceania sia un tassello del “Pivot to Asia”. Stati Uniti e Australia sono impensieriti dall’avanzata di Pechino nella regione, poiché nel lungo periodo essa potrebbe condurre a un sovvertimento dell’ordine vigente, un aspetto affrontato anche nel documento del 2013 sulla National Security Strategy del Governo di Canberra, laddove ci si riferisce direttamente alla necessità di prevedere il «rischio che un altro Stato tenti di influenzare l’Australia o i suoi partener regionali e globali tramite la pressione economica, politica o militare». Nonostante non si citi la Cina, il riferimento è palese. Una posizione analoga si trova nel Libro Bianco della Difesa australiana, nel quale, ancora nel 2013, si descrive la gestione della «sfida [del]la portata crescente dei Paesi asiatici, [che] garantisce ai nostri vicini la possibilità di stringere rapporti con un numero crescente di attori esterni», come una priorità di Canberra. La presenza del Dragone non è del tutto osteggiata, però è evidente che per l’Australia si tratti di una minaccia geostrategica rilevante, al punto che il Libro Bianco invita ad assicurarsi che «nessuna potenza con intenzioni ostili si stabilisca in aree vicine».

 

Soldati australiani durante un'esercitazione
Soldati australiani durante un’esercitazione

CONCLUSIONI E PROSPETTIVE – Senza dubbio il Pacifico meridionale è ancora una regione a netto predominio statunitense e australiano. Nonostante ciò, in una prospettiva di lungo periodo, gli equilibri potrebbero mutare, cosicché tra Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti il dibattito è acceso sia da un punto di vista previsionale, sia riguardo a eventuali progetti di cambiamento dei rapporti nel Pacifico. Per esempio, secondo alcuni esperti, considerata la sempre maggiore influenza di Cina e Indonesia, potrebbe essere utile cominciare a considerare il Pacifico centro-meridionale all’interno del sistema asiatico, integrandolo nell’Associazione delle Nazioni del Sudest (ASEAN). Una seconda proposta, invece, riguarda un accordo tra Washington e Pechino per una sorta di concertazione nell’amministrazione dell’Oceania. Altri analisti, infine, propendono per il mantenimento della posizione australiana-statunitense, ritenendo probabile che la Cina possa cominciare a costruire installazioni militari nel Pacifico meridionale entro venti anni e a sostenere i movimenti nazionalistici che osteggiano la presenza occidentale, cosicché si renderebbe necessario per USA e Australia evitare a oggi rotture troppo brusche con Paesi tuttora formalmente nella loro sfera d’influenza. Il cambiamento delle dinamiche nel Pacifico meridionale è inarrestabile: gli attori più influenti della regione dovrebbero tentare di cooperare, affinché gli attriti geopolitici non si ripercuotano né su popolazioni già in difficoltà, né sulla sicurezza di fondamentali linee di comunicazione. Purtroppo, la Cina è assai riluttante a collaborare a meccanismi condivisi di sostegno allo sviluppo dell’Oceania, soprattutto per i rigidi vincoli di trasparenza imposti dalle organizzazioni internazionali già attive nell’area. Il Pacifico meridionale è strategico per alcuni tra i maggiori attori del mondo, ma senza una camera di compensazione che regoli le ingerenze e gli interventi dei Paesi coinvolti, armonizzandoli per il benessere regionale, l’attrito dei singoli interessi potrebbe concretarsi in una tensione perenne e foriera di conflitto.

 

Beniamino Franceschini

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Beniamino Franceschini

Classe 1986, vivo sulla Costa degli Etruschi, in Toscana. Laureato in Studi Internazionali all’UniversitĂ  di Pisa, sono specializzato in geopolitica e marketing elettorale. Mi occupo come libero professionista di analisi politica (con focus sull’Africa subsahariana), formazione e consulenza aziendale. Sono vicepresidente del Caffè Geopolitico e coordinatore del desk Africa. Ho un gatto bianco e rosso chiamato Garibaldi.

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