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Un Caffè con Ezio Bonsignore

Miscela strategica – Apriamo il nostro speciale con l’intervista ad un ospite d’eccezione: Ezio Bonsignore, responsabile editoriale del World Defence Almanach e fondatore, con Giovanni Lazzari, di RID (Rivista Italiana Difesa). Discutiamo con un esperto del settore alcuni temi cari alla nostra nuova sezione dedicata alla Geostrategia. (Parte prima di tre)

 

 

 

Seguendo lo spirito del Caffè Geopolitico, questa sezione speciale si propone di spiegare ai “non addetti ai lavori” il mondo della geostrategia e degli affari militari, affascinante quanto poco conosciuto. Secondo Lei, perché è così poco conosciuto?

 

Se mi si passa la battutaccia: perché se non si è già interessati in partenza, in genere per aspetti della propria formazione culturale, si tratta di argomenti pallosissimi – pur se trattano di cose il cui impatto potenziale, sulla vita dei popoli e degli individui, non può certo essere visto come “noioso”. In più, dal punto di vista maschile, sono cose di nessuna utilità per intrattenere rapporti con delle giovani rappresentanti dell’altro sesso (Lei: “E di cosa si occupa?” Lui: “Mi interesso di geopolitica, con particolare riguardo all’ Asia sud-orientale”. Occhioni sgranati sul vuoto, e fine repentina della conversazione. Si provi invece a dire, “Mi occupo di cinema”, e si osservino le reazioni).

Più seriamente, sono tematiche molto complesse, e che richiedono un impegno non indifferente già solo per padroneggiare i principali concetti e per imparare a usare il linguaggio. Insomma, se ci si limita a collezionare i numeri di matricola degli aerei  militari, è un conto. Ma altrimenti, Mahan, Clausewitz, Haushofer, Spengler e soci bisogna pur conoscerli, e si tratta di “mattoni” formidabili – anche perché bisognerebbe sciropparseli nella lingua originale.

In più, in Italia scontiamo ancora i frutti di decenni di una propaganda dissennata, per cui chiunque si interessasse di problemi militari era ipso facto un fascista, un pericoloso nemico del popolo, quasi certamente un golpista. Il risultato è che in Italia non solo non esiste una cultura geopolitica e militare (intendo che “non esiste” a livello di condivisione dell’opinione pubblica; esistono invece beninteso molti validi studiosi e analisti), ma non esiste neppure – cosa molto più grave – la percezione del fatto che interessarsi di questi aspetti costituisce non solo un diritto, ma anzi un preciso dovere dei cittadini nei loro rapporti con lo Stato, esattamente come lo è interessarsi di educazione, sanità pubblica o sistema pensionistico.

Argomenti relativi alla difesa del Paese vengono portati all’attenzione dell’opinione pubblica solo quando risulta utile manipolarli in vista di obiettivi politici. I risultati sono devastanti, come stiamo vedendo con la polemica relativa all’ F-35.

 

 

La stampa specializzata si concentra sulla qualità dei contenuti, risultando però ostica al lettore medio. Noi ci sforziamo di spiegare i contenuti in modo semplice, seppur rigoroso. Dal suo punto di vista siamo complementari o avversari? Perché?

 

Sono proprio diverse le condizioni di lavoro. Come facilmente intuibile, una rivista mira ad acquisire il maggior numero di lettori possibile, e poi a sostenerlo nel tempo. Il Direttore e il Redattore Capo, se conoscono il loro mestiere, decideranno quindi il “taglio” ed i livelli di contenuto degli articoli cercando di mantenere un delicato equilibrio tra la divulgazione (che attrae lettori desiderosi di imparare) e l’analisi più o meno approfondita (che soddisfa i lettori già “maturi”).

Paradossalmente, si può finire per essere vittime del proprio successo. Una rivista che faccia un eccellente lavoro di divulgazione, portando progressivamente i suoi lettori ad approfondire tematiche anche piuttosto ostiche, sarà poi costretta a continuare a pubblicare articoli di alto livello, dando sempre meno spazio alla divulgazione – e, quindi, perdendo la capacità di acquisire nuovi lettori. Bisogna quindi puntare ad un certo ricambio naturale, ma come detto si tratta di un equilibrio delicato.

I siti in rete godono di una molto maggiore flessibilità da questo punto di vista, perché l’atteggiamento dei lettori/frequentatori è diverso. Chi trova in rete un articolo di cui non capisce nulla, o al contrario giudica di una puerilità disarmante, non per questo si irrita, o ritiene di aver buttato i suoi soldi. Non conclude “questo sito non lo visito più”, come concluderebbe “questa rivista non la compro più”; semplicemente, passa ad altro.

Ma comunque, alla fin fine quello che conta sono i risultati economici. E quindi, riviste e siti in rete non sono “avversari” – sino al momento in cui i secondi iniziano a raccogliere pubblicità.

 

 

Gli investimenti per la difesa sono tra i piĂą criticati dall'opinione pubblica
Gli investimenti per la difesa sono tra i piĂą criticati dall’opinione pubblica

Parliamo di politiche della difesa. L’Europa taglia ancora i fondi agli strumenti militari e manca di una visione strategica condivisa. Spesso si dice che non ci siano più nemici da combattere. Eppure il riarmo asiatico e la primavera araba sembrano suggerire il contrario. Lei cosa ne pensa?

 

Un momento: non è che sia l’ Europa a tagliare i fondi agli strumenti militari, visto che appunto non esiste una “visione strategica condivisa” e, a priori, neppure un Ministero della Difesa comune. Sono i Paesi europei a farlo, ciascuno individualmente e senza alcuna considerazione non dirò per una qualche politica comune, ma nemmeno per gli impatti diretti e indiretti sui rapporti di alleanza. Questa precisazione potrà magari sembrare una pedante pignoleria, ma in realtà è una delle radici del problema. La somma degli investimenti complessivi dei Paesi europei non è affatto trascurabile, ma si perde in un’infinità di duplicazioni, sovrapposizioni e costi di produzione iperbolici date le serie ridottissime e la conseguente impossibilità di sfruttare le economie di scala. Una Difesa europea comune, o anche solo armonizzata, sarebbe in grado di utilizzare esattamente le stesse somme in modo molto più efficiente.

Per venire alla domanda: gli investimenti che un dato paese, o gruppo di paesi, ritiene opportuno effettuare per l’equipaggiamento, addestramento e mantenimento delle proprie FFAA (Forze Armate) vanno ovviamente valutati – insufficienti, adeguati, eccessivi – in funzione delle politiche complessive di difesa e sicurezza formulate dalle autorità responsabili, e dei ruoli e missioni per le FFAA che ne discendono, nonché naturalmente delle reali possibilità e priorità economiche. Questo è l’unico metro reale di valutazione, e non certo il rispetto di bizzarri parametri (come il famoso 2% del PIL richiesto dalla NATO) stabiliti arbitrariamente dall’esterno. Si può beninteso anche mettere in discussione le politiche stesse, ma questo sposta il discorso su un piano diverso.

 

Da questo punto di vista, la percezione che i Paesi europei stiano spendendo “troppo poco” per le loro FFAA nasce essenzialmente da un problema semantico di “correttezza politica”, per cui oggi si parla sempre obbligatoriamente di “difesa” quando in realtà si dovrebbe dire “guerra” – cioè l’uso deliberato della forza non solo come reazione ad una minaccia o ad una aggressione, ma anche come libera scelta per il perseguimento di obiettivi propri.

I ridotti bilanci della difesa dei paesi europei, e le FFAA in contrazione che ne derivano, sono ancora bene adeguati ad assicurare la nostra difesa, visti i bassissimi  livelli di minaccia attuali o prevedibili per il prossimo futuro. E’ bensì vero che le FFAA vanno preparate, e tenute pronte appunto in tempo di pace, piuttosto che cercare di correre ai ripari quando si ha l’acqua alla gola; ma è anche vero che non è assolutamente concepibile che una minaccia tanto seria da poter davvero impensierire le nostre difese, potrebbe materializzarsi senza darci parecchi anni di tempo per prepararci adeguatamente.

 

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Il punto è invece che gli stanziamenti attuali non sono affatto adeguati a sostenere i sempre piĂą frequenti casi di interventi armati e proiezione di potenza in giro per il mondo, da soli o piĂą frequentemente come ausiliari degli Stati Uniti, con lo strumento militare che di fatto tende a sostituirsi alla diplomazia come fattore principale per la politica estera e per la tutela dei propri interessi. Lo strumento militare, che per tutto il lungo periodo della Guerra Fredda era rimasto focalizzato sull’unico obiettivo prioritario della difesa dell’Europa Occidentale (peraltro sempre nel quadro del deterrente nucleare reciproco, e quindi mirando a impedire un conflitto piuttosto che preparandosi a combatterlo e vincerlo) è tornato ad essere un mezzo per “proseguire la politica con altri mezzi”, come diceva Clausewitz, e anzi di fatto tende a sostituirsi alla diplomazia come fattore principale per la politica estera. Questo vale soprattutto per Francia e Gran Bretagna, e in via subordinata anche per noi, mentre la Germania non ha ambizioni neocolonialiste di questo tipo – semmai, ne ha altre – e sta quindi tranquillamente gestendo una radicale riforma (in basso) delle proprie FFAA, senza particolari patemi d’animo.

Naturalmente, questa “riscoperta” della forza militare come strumento politico comporta dei costi non indifferenti – che però i Paesi europei, per tutta una serie di ragioni economiche e sociali, non sono più in grado di sostenere.

Nei termini geopolitici in cui è stata posta la domanda, la progressiva contrazione delle capacità militari dell’Europa riflette quindi il parallelo declino dell’importanza e del “peso” complessivo del nostro continente su scala globale, e ne è al tempo stesso causa ed effetto. Abbiamo, e sempre più avremo, uno strumento militare relativamente modesto, perché non siamo comunque più in grado di utilizzarlo per far valere i nostri interessi e le nostre idee nei confronti del resto del mondo – e, beninteso, non siamo più in grado di farlo, proprio perché tra gli altri motivi il nostro strumento militare è insufficiente per sostenere le nostre ambizioni.

 

(I. continua. Leggi qui la seconda e la terza parte)

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Marco Giulio Barone
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Marco Giulio Barone è analista politico-militare. Dopo la laurea in Scienze Internazionali conseguita all’Università di Torino, completa la formazione negli Stati Uniti presso l’Hudson Institute’s Centre for Political-Military analysis. A vario titolo, ha esperienze di studio e lavoro anche in Gran Bretagna, Belgio, Norvegia e Israele. Lavora attualmente come analista per conto di aziende estere e contribuisce alle riviste specializzate del gruppo editoriale tedesco Monch Publishing. Collabora con Il Caffè Geopolitico dal 2013, principalmente in qualità di analista e coordinatore editoriale.

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