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Primavera araba, un terremoto geopolitico (I)

Una chiacchierata a 360 gradi con Alberto Negri, giornalista del Sole 24 Ore, sulla Primavera araba e i suoi effetti, approfondendo la forte instabilità che colpisce tutti i Paesi coinvolti da questo fenomeno. Una situazione in grado di condizionare pesantemente lo scenario geopolitico del Mediterraneo e del Medio Oriente, e non solo. In questa prima parte, ecco un’analisi dello stato di salute dei principali Paesi interessati: Tunisia, Egitto, Libia, Siria

 

La primavera araba, due anni dopo. Come definirla?

 

Innanzitutto, va detto chiaramente che la Primavera araba è stata un vero e proprio terremoto geopolitico di tutta la regione meridionale del Medio Oriente. Il nome Primavera araba nasce inizialmente per la contrapposizione tra i vecchi dittatori e le piazze piene di giovani manifestanti che invocano un cambiamento, che in verità è avvenuto: sono infatti caduti dei regimi che duravano da più di trent’anni.

 

Proviamo a fare una panoramica dei vari Paesi coinvolti e dell’evoluzione in questi due anni. Andiamo con ordine, e partiamo dalla Tunisia.

 

I primi due Paesi coinvolti, Tunisia ed Egitto, presentano caratteristiche non dissimili, con manifestazioni di piazza e caduta del potente di turno, Ben Ali prima e Mubarak poi, ed una evoluzione con conflitti interni piuttosto pesanti che stanno tormentando la nostra sponda meridionale, con transizioni attualmente neppure avviate verso un canale comprensibile. In Tunisia, l’assassinio del 7 febbraio scorso di Chokri Belaid, leader del fronte laico dell’opposizione, è il primo omicidio politico in 70 anni di vita di un Paese che vive una fortissima contrapposizione tra il Governo guidato dai partiti laici e opposizioni. Anche se rispetto ad altri casi si è avuta una transizione non particolarmente violenta, si sono scavati solchi profondi nella politica e nella società tunisina. In Tunisia è faticosamente in piedi un Governo che avrebbe il compito di condurre alla fine dei lavori l’Assemblea Costituente, per poi indire nuove elezioni a ottobre-novembre, ma le possibilità di realizzazione di questo programma appaiono francamente scarse. Una questione centrale è quella relativa alle spinte di radicalismo islamico all’interno della Tunisia, sempre più preoccupanti. Al di là dell’omicidio Belaid, veniamo da mesi di fortissima instabilità, con un ordinamento pubblico non sotto controllo. I salafiti hanno occupato l’80% delle moschee, hanno assaltato scuole e ambasciata americana, occupato una università per tre mesi, e i predicatori islamici percorrono il Paese con parole d’ordine contrarie ad una convivenza pacifica. Il punto chiave è il principio dei vasi comunicanti tra radicalismo islamico esterno e interno. Per fare un esempio, a Tunisi vengono celebrati quotidianamente funerali di persone morte nella guerra civile siriana. Ad Aleppo sono morti oltre 140 tunisini. I radicali islamici nel Paese stanno crescendo, così come in tutto il Medio Oriente, ed intendono “stabilizzare” la regione, secondo il loro punto di vista. Non vi sono garanzie relative alla possibilità di fermare le istanze radicali da parte del Governo tunisino, ricattato di fatto dai gruppi islamici estremisti. Va però aggiunto che di recente ho avuto una conversazione con il leader di Ennhada Rashid Ghannouchi, il quale mi ha confermato che non verrà introdotta la sharia nella Costituzione e l’articolo 1, il principale, sarà modellato su quello della carta costituzionale del 1959 varata da Bourghiba: “La Tunisia è un Paese musulmano di lingua araba”. Questo rappresenta un segnale incoraggiante per evitare altre divisioni interne.

 

Alberto Negri
Alberto Negri

Veniamo all’Egitto, dove il Governo Morsi appare ancora più impotente…

 

Per quanto riguarda l’Egitto, i segnali di violenza endemica nel Paese si fanno ogni giorno più profondi e acuti. Il Governo centrale non detiene più il controllo di vaste aree del Paese. Il Sinai è ormai in mano a tribù e gruppi jihadisti, spesso legati ai vicini di Hamas, che controllano Gaza. Il Canale di Suez è costellato di scontri, e lo stesso Cairo sfugge ormai al controllo della polizia. Sono stato di recente a Piazza Tahrir: non è decisamente un posto in cui si possa passare la sera. Il peggioramento è radicale. La polizia, in sciopero da settimane, ha praticamente rinunciato a mantenere l’ordine. Al posto della polizia vi è dunque l’esercito, e le milizie private sono di fatto legalizzate. Siamo davanti ad una fortissima impasse istituzionale: la data delle elezioni è stata annullata dalla Corte di Giustizia, e giorno dopo giorno si rende sempre più evidente come il Presidente Morsi non sia in grado di controllare la situazione. I Fratelli musulmani hanno vinto le elezioni ma non sono capaci di costituire una alternativa credibile al potere che hanno sostituito. I rumors ricorrenti in ambito diplomatico parlano chiaramente di guerra civile alle porte.

 

La Libia post Gheddafi e post intervento Nato dà invece l’idea di un Paese completamente abbandonato a se stesso.

 

Innanzitutto va sottolineato che quanto accaduto in Libia presenta dinamiche completamente diverse da quelle descritte in precedenza. In Libia vi è stata una guerra che ha visto l’intervento decisivo della Nato, un passaggio che spesso si rischia di dimenticare: Gheddafi non è stato spodestato dai manifestanti, ma dai bombardamenti Nato. Da lì è poi esplosa una guerra civile sanguinaria. Certo ora la Libia desta preoccupazioni sempre maggiori. Le tribù a inizio marzo hanno interrotto le forniture di gas all’Italia, e le dispute territoriali sulle risorse sono sempre più aspre. A Bengasi non vi è più neanche uno straniero. A Tripoli l’instabilità è fortissima, vi è stato un attentato contro il Presidente ad interim, il Parlamento è assediato da gruppi armati. La stabilizzazione post Gheddafi non è avvenuta per nulla. E questo è il risultato di un intervento militare dall’alto a favore dei ribelli, senza però un impegno congiunto dell’Occidente, Ue e Usa, insieme agli altri Paesi arabi, a favore della stabilità interna e delle frontiere. E anche questo ha contribuito a provocare un vero e proprio terremoto geopolitico.

 

Il vero nodo irrisolto, e lo scenario maggiormente drammatico, è però quello siriano.

 

Per quanto riguarda la Siria, bisogna parlare di calcoli sbagliati: si sono accomunati fenomeni diversi, che solo in apparenza sembravano simili. Pareva che dopo Gheddafi toccasse automaticamente ad Assad, ma la situazione è completamente diversa: il caso siriano è quello di un conflitto interno che si sta ormai espandendo su scala regionale e mondiale. In ambito regionale, è evidente il coinvolgimento di attori quali Turchia, Libano ed Iraq. Soprattutto in quest’ultimo caso, è evidente il paradosso di un conflitto che rimette in discussione tutti gli aspetti geopolitici regionali. L’Iraq invaso dagli Stati Uniti, ritiratisi dal Paese solo nel 2011, non è infatti alleato dell’Occidente contro Assad, bensì è schierato con il regime di Damasco. La Turchia, in una posizione strategica anche per la Nato, al contrario è completamente a favore dei ribelli sin dall’inizio, puntando ad una caduta immediata di Assad. Un calcolo evidentemente sbagliato, dato che due anni dopo non solo è ancora lì, ma se si vuole salvare qualcosa del Paese, inevitabilmente bisognerà trattare con il regime.

 

(1. Continua. Leggi qui la seconda parte)

 

Alberto Rossi

 

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Alberto Rossi
Alberto Rossi

Classe 1984, mi sono laureato nel 2009 in Scienze delle Relazioni Internazionali e dell’Integrazione Europea all’Università Cattolica di Milano (Facoltà di Scienze Politiche). La mia tesi sulla Seconda Intifada è stata svolta “sul campo” tra Israele e Territori Palestinesi vivendo a Gerusalemme, città in cui sono stato più volte e che porto nel cuore. Ho lavorato dal 2009 al 2018 in Fondazione Italia Cina, dove sono stato Responsabile Marketing e analista del CeSIF (Centro Studi per l’Impresa della Fondazione Italia Cina). Tra le mie passioni, il calcio, i libri di Giovannino Guareschi, i giochi di magia, il teatro, la radio.

Co-fondatore del Caffè Geopolitico e Presidente fino al 2018. Eletto Sindaco di Seregno (MB) a giugno 2018, ha cessato i suoi incarichi nell’associazione.

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