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The Road to Mandalay: amore e emigrazione nel Grande Mekong

Recensioni del Caffè – Presentato a Venezia lo scorso settembre, The Road to Mandalay racconta i tragici flussi migratori nel Sud-est asiatico attraverso un’intensa e coinvolgente storia d’amore. Al centro dell’attenzione del regista Midi Z c’è soprattutto la situazione del suo Paese d’origine, il Myanmar, afflitto da povertà endemica e gravi conflitti etnici

IL MEDITERRANEO DEL SUD-EST ASIATICO – Mae Nam Khong. In tao-laotiano vuol dire la “Madre delle Acque”, il Grande Mekong. Quattromila chilometri di acque navigabili attraversano Cina, Myanmar, Cambogia, Laos, Thailandia e Vietnam. Il Mediterraneo del Sud-est asiatico, solcato ogni giorno da migliaia di migranti clandestini. Gli schiavi del XXI secolo. La regione del Grande Mekong detiene il triste primato della tratta di esseri umani. La Thailandia è la principale destinazione di uomini, donne e bambini molto spesso vittime di trafficanti senza scrupoli, indiscussi vincitori di una globalizzazione che, per una bizzarra eterogenesi dei fini, ci ha reso tutti prigionieri a casa nostra. Migliaia di vite schiavizzate nella rete di spietati intermediari del lavoro, specializzati in una “moderna” variante della divisione internazionale del lavoro. Servitù domestica, sfruttamento sessuale, lavoro forzato nei campi e nelle fabbriche. The Road to Mandalay del regista birmano Midi Z è una di queste storie. Una storia vera. Presentato alle Giornate degli Autori della 73esima Mostra del Cinema di Venezia e all’ultimo Toronto Film FestivalThe Road to Mandalay è un film “realistico”, doloroso, disperato nella sua compostezza. Un gruppo di giovani birmani parte in una notte d’estate dal fiume Ruak nella città di Tachileik, lungo la frontiera con la Thailandia. Un viaggio a più tappe. Ognuna segnata dall’esborso di denaro da distribuire alla filiera della corruzione. Poliziotti in testa. Tra i giovani “viaggiatori” ci sono Gou e Lianqing. Dolce e premuroso lui, decisa e coraggiosa lei. Per Gou è “amore” a prima vista. Arrivati a Bangkok tra i due nasce qualcosa di simile a una relazione, un affetto nutrito più dalla miseria quotidiana che da una affinità elettiva. Sono molto diversi fra loro, Gou e Lianqing. Soprattutto hanno obiettivi diversi.

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Fig. 1 – Il regista Midi Z (a sinistra) presenta il suo film al pubblico birmano in un cinema di Yangon, 7 novembre 2016

SPERANZE E ILLUSIONI – Dall’aspetto apparentemente fragile, con il suo zainetto pieno di conserve della mamma, Lianqing è una giovane donna estremamente tenace. Decisa a tutto. Bangkok è solo una tappa. Lei vuole andare lontano. Magari a Taiwan. Gou e Lianqing lavorano in fabbrica, fuori città. Non sono nessuno. Non sono persone. Solo un numero sulla divisa. “Da oggi tu non sei Lianqing. Sei il 369.” Isolamento, alienazione, estorsioni. Fragilità. I clandestini sono fragili in ogni parte del mondo. Alla mercé di tutti. Gou si aiuta con le anfetamine (necessarie a reggere i ritmi della fabbrica), Lianqing con i suoi sogni. Incrollabili. Le chiavi del suo paradiso hanno le fattezze di carte, documenti falsi. Gou asseconda Lianqing senza convinzione. Fosse per lui continuerebbe a lavorare in fabbrica, a mettere da parte quel milione di bath (circa venticinquemila euro) con cui aprire un negozio di vestiti in Myanmar. A che ti servono i documenti?” (Gou). “Potrei lavorare in città, avere un passaporto, andare a Taiwan.” (Lianqing). “Credi che lavorare a Taiwan sia meglio?” (Gou).  Truffata più volte con “finti” documenti falsi, Lianqing non si arrende fino a pensare (e a sognare, letteralmente, in una delle più suggestive scene del film) di vendere il suo corpo. Alla platea delle Giornate degli Autori di Venezia 73 le parole del regista Midi Z, accompagnato dagli attori, Ke-Xi Wu (Lianqing) e Ko Kai (Gou), rendono la trama di The Road to Mandalay ancora più crudamente reale. Racconta infatti il regista: “Se non avessi avuto la possibilità di studiare a Taiwan avrei fatto la fine dei personaggi del mio film […]. Lianqing cerca la sicurezza nei documenti. Gou nell’amore.”  È proprio questa differenza tra i due che darà alla trama del film una svolta tragica.

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Fig. 2 – Immigrati birmani in Thailandia festeggiano la visita di Aung San Suu Kyi a Bangkok, giugno 2016

MYANMAR: POVERTÀ E CONFLITTI ETNICI – La Thailandia è un vero e proprio magnete nella regione del Grande Mekong. Le frontiere ufficiali possono essere attraversate facilmente a piedi, in barca o a bordo di motorini, grazie alla connivenza altamente organizzata tra trafficanti e pubblici ufficiali. La maggior parte dei migranti viaggia in piccoli gruppi, quattro o cinque persone, vengono dai villaggi e sono senza documenti. Dai primi anni Novanta milioni di lavoratori (con una sostanziale parità di genere) sono emigrati in Thailandia a cercare occupazione, soprattutto nei settori, poco regolamentati, della pesca, dell’edilizia, del tessile. Il Myanmar è la principale fonte di provenienza. Tra i lavoratori stranieri, illegali e non, circa due milioni sono birmani. Decenni di giunta militare e di isolamento internazionale hanno causato effetti molto perniciosi sulla economia del Paese. La Birmania è ancora un Paese povero malgrado i progressi degli ultimi anni. Il 70% della popolazione vive di agricoltura, spesso di sussistenza. I birmani che arrivano in Thailandia si concentrano soprattutto nel nord e nel sud del Paese. Non ci sono solo motivazioni economiche.

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Fig. 3 – Una famiglia di profughi Rohingya in un ricovero di fortuna in Bangladesh, dicembre 2016

La questione etnica, con 135 minoranze, rende il Myanmar una delle realtà più frammentate (ed esplosive) del Sudest asiatico. L’etnia maggioritaria sono i birmani, i due terzi della popolazione; controllano tutto, potere militare ed economico. La Costituzione del 2008 ha lasciato invariata la predominanza del potere militare all’interno delle istituzioni (25% dei seggi parlamentari vanno automaticamente ai militari) e dell’economia. Il restante terzo della popolazione del Myanmar è rappresentato da una molteplicità di gruppi e sottogruppi etnici riconducibili prevalentemente alle etnie dei Chin – cattolici, concentrati nello Stato di Chin al confine con l’India, circa un milione e mezzo di cui 60mila rifugiati in India-, dei Kachin (un milione residente prevalentemente nella parte nord orientale del Paese ai confini con la Cina) e dei Karenni, circa trecentomila, nello Stato di Karen ai confini con la Thailanda. L’escalation di discriminazioni e violenze anti-musulmane (avallate dai militari) spingono migliaia di uomini e donne su imbarcazioni di fortuna dirette in Thailandia o in Malesia. Quest’ultima è la meta principale dei Rohingya, una delle etnie più perseguitate al mondo. Sono circa due milioni i Rohingya, concentrati prevalentemente nello Stato di Rakhine a ovest del Paese, dove la segregazione è istituzionalizzata, le infrastrutture di base sono inesistenti e il 60% della popolazione è malnutrita. Tra il 2014-2015 (dati UNCHR) 94mila persone hanno attraversato illegalmente la frontiera settentrionale lungo il confine con il Bangladesh, di queste la maggior parte è di etnia rohingya. Molti di loro prelevati e venduti come schiavi in Thailandia Ai Rohingya, considerati stranieri del Bangladesh, il Governo del Myanmar continua a negare la cittadinanza. Non votano, non possono lavorare fuori dai loro villaggi, non possono sposarsi o muoversi all’interno del Paese senza autorizzazione. Le tensioni inter-etniche e religiose restano irrisolte nella Birmania di Aung San Suu Kyi, icona mondiale della non violenza. Suo padre, il Generale Aung San si era impegnato ad assicurare a tutti i gruppi etnici gli stessi diritti dei birmani nonché “piena autonomia nella amministrazione interna delle regioni di confine.” Aung San è stato assassinato nel 1947 e con lui è stata sepolta anche la questione delle minoranze.

UN DRAMMA D’AMORE – Le prime elezioni libere nel 2015 hanno celebrato la vittoria del partito di Aung San Suu Kyi, la Lega Nazionale della Democrazia.  Ma nessun candidato musulmano è entrato in uno dei due rami del Parlamento, e due milioni e mezzo di musulmani hanno quindi zero rappresentanza politica. A fortiori, la Costituzione del 2008 non offre nessuna protezione alle minoranze, il che consente il proseguimento indisturbato della loro “birmanizzazione” supportata dalla presenza militare on the spot). Per certi aspetti, paradossali, il Myanmar di Aung San Suu Kyi è più violento di quando comandava la giunta militare con conseguente downgrading della attrattività del Paese per gli investitori esteri.

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Fig. 4 – Ke-Xi Wu, protagonista di “The Road to Mandalay”, alla prima veneziana della pellicola, settembre 2016

The Road to Mandalay ha il finale di un dramma d’amore in perfetto stile shakespeariano. Sorprendente, silenzioso, asciutto. E riassunto brevemente da Midi Z in questi termini: “Ho fatto un film basandomi su una storia vera del 1992. Nella realtà, i due giovani tornano in Birmania. Lui la uccide per impedirle di tornare in Thailandia.”

Mariangela Matonte

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

Al secolo Chao Te-Yin, Midi Z è nato in Myamar da genitori di origine cinese nel 1982. Si è trasferito poi giovanissimo a Taiwan, dove ha studiato design all’università e ha cominciato a dirigere i suoi primi lavori cinematografici. Nel 2011 ha rinunciato alla cittadinanza birmana per prendere quella taiwanese. [/box]

Foto di copertina di KX Studio Rilasciata su Flickr con licenza Attribution License

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Mariangela Matonte
Mariangela Matonte

Laurea in scienze politiche internazionali, scuola diplomatica MAE, analista politico, appassionata da sempre di relazioni internazionali e di politica. Molti viaggi, tante esperienze lavorative. Il tutto sempre con vocazione internazionale. Relazioni transatlantiche, Mediterraneo e Medio Oriente principali focus di interesse.

Curatrice del blog Geomovies, che si occupa del rapporto tra cinema e politica internazionale.

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