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Eurosatory, un Caffè allo stand AIAD

Miscela Strategica – Nel corso di Eurosatory 2016 siamo stati accolti allo stand congiunto AIAD/Ministero della Difesa. Facciamo il punto sull’industria della difesa italiana in Europa e sul suo futuro con il dott. Carlo Festucci, segretario generale dell’AIAD

Dott. Festucci, perché Eurosatory è importante per le nostre industrie?

Come gli altri eventi del genere, Eurosatory è importante in quanto momento in cui ci si confronta, si verificano le capacità tecnologiche, si cerca di capire quali sono le evoluzioni del settore e, essendo anche un’occasione di incontro, è un’importante vetrina per la promozione della nostra industria. Io in realtà ritengo che l’importanza non sia degli eventi in quanto tali, ma piuttosto della preparazione che c’è in vista della partecipazione e dei rapporti quotidiani che si hanno con gli altri player presenti sul mercato. Quindi è importante esserci; se non ci fossimo daremmo un segnale sbagliato.

Parliamo di spese per la difesa. La notizia di questi mesi è che i Paesi europei hanno ricominciato a spendere, ma l’Italia fa eccezione. Le aziende estere rafforzeranno la propria posizione sul mercato grazie all’aumento delle commesse nazionali, quanto questo ha un impatto sulle nostre aziende?

A noi crea un danno, perché non avere risorse è un problema – e questo è evidente. Fa anche danno, però, non avere regole. Quindi noi associamo alla carenza di capacità finanziarie una carenza di tipo legislativo: quasi tutti i Governi hanno la capacità di fare accordi G2G (Government to Government), quasi tutti i Governi hanno capacità di sostegno finanziario alle esportazioni, mentre noi queste azioni non possiamo intraprenderle. E questo è un problema molto serio. In termini di capacità economica, è corretta la sua analisi: se gli altri Paesi aumentano le proprie spese per la difesa e l’Italia non lo fa, significa non incrementare le capacità tecnologiche del nostro settore. Settore che, tra l’altro, non è un militare puro, ma un dual-use, e che quindi ha un’alta ricaduta sul settore civile. Insomma, significa perdere capacità tecnologiche, e questo è inaccettabile, e dunque va in qualche modo sanato. A questo si aggiungono tutte le problematiche di carattere giuridico-legislativo.

Relativamente al G2G, la vendita degli Eurofighter al Kuwait è stata definita come il suo primo esempio….

Però non è stata una definizione corretta. Il G2G ha delle sue caratteristiche peculiari: un accordo Governo-Governo senza indire alcuna gara e in quel caso, invece, la gara c’è stata. Il Governo vende direttamente all’altro Governo, mentre in questo esempio il Governo ha fatto da supporto, ma il vero negoziatore dell’accordo è stata l’azienda. E soprattutto non c’è stato alcun sostegno a livello finanziario. Prendiamo l’esempio della vendita dei Rafale all’Egitto. I francesi hanno subito presentato l’accordo come tra Governi, il Governo francese ha prestato dei soldi a sostegno (anche se pare che la provenienza fosse saudita) – che vengono poi rimborsati dal Governo acquirente, che nel frattempo può però essere sostenuto – e questo sistema consente all’esecutivo di Parigi di concludere delle grosse operazioni. Qual è il problema vero? Che se il Governo francese fa un’operazione di questo tipo il Paese esulta; se noi dovessimo condurre un’operazione analoga ci sarebbero fortissime proteste.

Ma in realtà, almeno per quanto riguarda l’Africa, i francesi hanno il problema opposto, perché non ci sono più le risorse per finanziare grosse operazioni

Sì, però lo fanno con i soldi degli altri. Per loro l’importante è che la cosa venga fatta. E ancor di più che loro hanno la possibilità di farlo, mentre noi, come abbiamo già visto, non potremmo.

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Fig.1 – Il parlamentare Kuwaitiano Abdulhamed Dashti discute l’acquisizione del caccia Eurofighter Typhoon. L’istituzionalizzazione degli accordi G2G non è piĂą rimandabile per la nostra industria

Diverse grandi aziende ci confermano che le compensazioni acquisiscono un ruolo sempre più importante, e che senza praticamente non si vende più, almeno per ciò che riguarda i prodotti più complessi. In che misura questo rischia di far diminuire la nostra competitività? Se non arriva una nuova ondata di innovazione mentre trasmettiamo know-how agli altri, non rischiamo di rimanere, paradossalmente, indietro, perché non riusciamo a innovare? 

L’innovazione in realtà non è legata alle compensazioni, ma piuttosto a quello che dicevamo prima: alla capacità di sviluppo, di ricerca e di innovazione tecnologica, che è direttamente collegata alla capacità di investimenti che il nostro Paese ha. A parte in alcuni Paesi, quello che di solito si chiede con le compensazioni è di fare investimenti in loco – cosa che le nostre aziende fanno. Qual è il problema? Che nessuno dà l’innovazione tecnologica di più alto livello. Bisogna fare un’operazione che consenta di dare comunque un’innovazione tecnologica al Paese che acquista, ma mantenendo una capacità di sviluppo tecnologico superiore a quella che viene data. Io non credo che questo rappresenti un problema. Secondo me il problema vero è un altro, e cioè avere una capacità di sviluppo tecnologico che prescinde da questo.

Le aziende dell’Europa dell’Est e del Nord avanzano e si ingrandiscono. Anzi, spesso sono loro a fornire ai Governi un bargaining chip in sede NATO e simili. Per l’Italia queste aziende rappresentano una minaccia, o piuttosto un’opportunità di partnership?

Innanzitutto dobbiamo ricordarci che le nostre attività sono regolate dalla legge 185, secondo la quale noi partecipiamo a gare e ci relazioniamo con altri Paesi in base alle scelte del nostro Governo.
Quindi nei Paesi dell’Est c’è qualche problema – penso alla Russia, ancora sotto embargo a seguito dell’annessione della Crimea. Il problema di fondo è che in tutte le situazioni ci sono opportunità e problematiche. Il fulcro sta nel come si affrontano le cose. Se per esempio non ci sono questioni che creino rischi per il nostro comparto industriale, la possibilità di partecipare è anche occasione per migliorare le nostre capacità tecnologiche e come modo per acquisire nuove competenze. Diverso è se la cooperazione origina un decremento delle stesse capacità e competenze. Quindi, in sostanza, la bontà della cosa deve essere valutata caso per caso e in base alle motivazioni che l’hanno originata. Certo, la domanda mi sembra un po’ particolare….

Ne spiego subito il motivo. Potremmo partire da un esempio; ho letto di recente che l’AIAD ha avviato una partnership con la sua omologa finlandese. In cosa consiste questa collaborazione?

Intanto è una possibilità di scambio di opinioni e di capacità. Attraverso questo accordo di cooperazione abbiamo messo le nostre federate in condizione di andare lì e comprendere come funziona il mercato finlandese. Del resto questa non è una cosa che l’AIAD fa solo con i finlandesi. Abbiamo rapporti di collaborazione con i colombiani, con i canadesi, con i messicani, con gli israeliani, solo per fare qualche esempio. All’inizio mi ha chiesto quanto fosse importante Eurosatory. Personalmente ritengo sia molto importante. Tutti i meeting B2B (Business to Business) noi li facciamo facendo incontrare le aziende italiane con quelle di ciascuna delle altre nazioni partecipanti. Questo può aprire delle nuove strade alle nostre aziende, sia in termini di investimenti che per ciò che riguarda la possibilità di proporre delle commesse delle quali, se noi non facessimo questo lavoro, probabilmente non sarebbero nemmeno a conoscenza. Cito un solo esempio per chiarire meglio. Siamo andati in Egitto. Per noi è stata quasi una débacle –perché nel frattempo i francesi vendevano Rafale – abbiamo portato una nostra azienda, che in altre circostanze probabilmente non sarebbe mai riuscita a fare affari in Egitto, ma che partecipando a queste missioni ha finalizzato un contratto che è andato molto bene. La stessa cosa è successa in Messico con un’altra federata – la Covert Technology –, un’azienda piccola, che addirittura ho messo in contatto telefonico con il Capo di Stato maggiore dell’esercito e il ministro della Difesa e hanno firmato un contratto. Tutte queste nostre attività di cooperazione sono mirate a far sì che le nostre federate – chiaramente quelle piccole e medie – possano avere un quadro di riferimento e poter parlare con chi di dovere, ampliando le loro capacità contrattualistiche. Per noi l’obiettivo di queste partnership è che le piccole e medie aziende italiane possano sviluppare una capacità di mercato ampia – che consenta loro di non dover stare necessariamente sotto l’ala delle aziende italiane più grandi – e basata sulle loro capacità – e non derivata dal fatto che sono partner di qualcuno. Quindi il fine ultimo è evitare che loro abbiano un committente unico e che quindi non riescano a fatturare se questo non fa ordini. Inoltre, le suggerisco di spostare un attimo l’attenzione su altri mercati – perché è vero che abbiamo delle partnership con Finlandia, Svezia e altri Paesi, ma questi hanno delle loro peculiarità. Prendiamo l’esempio della Colombia. Se noi facciamo un accordo di sviluppo per un prodotto in Colombia, abbiamo non solo stipulato un accordo che produce reddito, ma abbiamo ampliato il nostro mercato, perché in partnership con i colombiani possiamo avere accesso al mercato dell’America Latina. Oppure in Canada, se facciamo una partnership e magari arriviamo allo sviluppo congiunto di un prodotto, in realtà apriamo un mercato; stessa cosa in Qatar, o negli Emirati. Insomma, stringendo accordi con i singoli Stati apriamo delle capacità di mercato in quell’area geografica; quindi non è solo un fatto commerciale, ma anche di carattere strategico, politico. Ecco perché, ancora una volta, sarebbe importante  avere gli accordi G2G, quelli veri, perché a quel punto sarebbero accordi di Governo.

Fig.2 - Il veicolo da combattimento finlandese Patria AMV equipaggiato con torretta italiana OTO MELARA HITFIST.
Fig.2 – Il veicolo da combattimento finlandese Patria AMV equipaggiato con torretta italiana OTO MELARA HITFIST.

Assolutamente. Tra l’altro siamo proprio entrati nel merito di alcuni temi focali, come ad esempio la mancanza di visione di insieme da parte delle federazioni nazionali, che spesso non sanno che stanno andando nella stessa direzione delle altre, ma sue due rette parallele. Quindi magari, banalmente, parlandosi, troverebbero delle posizioni comuni e risparmierebbero ingenti quantitĂ  di denaro, ad esempio quando si può condurre una ricerca e sviluppo comune…

Ormai i programmi nazionali non esistono più. Esistono quelli internazionali, che si sviluppano tra più Paesi. E non solo; ormai nessun Paese ha abbastanza risorse finanziare per realizzare da solo  programmi per la difesa o duali, e se li facesse da solo avrebbe poco mercato. Quindi ormai si cerca sempre di più di fare insieme mettendo a fattor comune le risorse e cercando di efficientare al meglio la capacità di esportazione.

In futuro vede un mercato della difesa piĂą liberale? Quali sono i macro-trend che vede come piĂą probabili?

Io non amo fare previsioni che potrebbero rivelarsi scorrette, piuttosto preferisco valutare di volta in volta. Certo, è indubbio che il mercato si sta evolvendo. Abbiamo recentemente stretto accordi con il Qatar – cosa che fino a cinque anni fa, ma probabilmente anche fino all’anno scorso, era impensabile –, abbiamo venduto gli Eurofighter in Quwait, però è difficile dire quali saranno le evoluzioni del mercato. Piuttosto, quello che trovo singolare è che noi abbiamo quasi vergogna di parlare delle nostre industrie della difesa, e questo è sbagliato. La nostra industria è una grande industria tecnologica, è un’industria dual-use e che non vende armi al primo bombarolo che passa, e purtroppo c’è una mentalità sbagliata. Il 5 luglio, a margine dell’Assemblea dei soci AIAD, presenteremo uno studio realizzato da Prometeia, e quindi una struttura terza, su quanto conviene investire nel settore della difesa. In questo studio viene dimostrato che, se uno investe, si raddoppiano le risorse. Quindi, se fosse vero quest’assunto, potremmo immaginare che investire nella difesa significa dare risorse e avere uno sviluppo tecnologico significativo. La cosa che posso dire è questa: le nostre aziende hanno dimostrato di avere grande capacità tecnologica e nonostante tutti i vincoli alle esportazioni abbiamo una loro ripresa particolarmente significativa. Questo vuol dire che gli altri Paesi apprezzano i nostri prodotti. Dunque la mia impressione è che nei prossimi dieci anni l’industria della difesa andrà avanti, sarà sempre più competitiva. L’operazione di creazione della one company da parte di Leonardo-Finmeccanica va in questa direzione, mirata a rendere l’azienda sempre più efficiente. Del resto Leonardo-Finmeccanica è il driver della nostra industria, e insieme a Fincantieri – questa nel settore navale, la prima nelle tecnologie aerospaziali ed elettroniche –, è la grande azienda che traina tutto il settore. Secondo me, per come è stata strutturata Leonardo-Finmeccanica e per come si comporta Fincantieri, questo ruolo di driver sarà sempre più efficace. Io penso che in un orizzonte temporale decennale la nostra industria sarà competitiva sotto tutti i punti di vista. Affinché questo continui a essere vero, però, non si può continuare a tagliare gli investimenti per l’industria della difesa. Non bisogna penalizzarla, ma anzi metterla in condizioni di parità con almeno alcuni degli altri Paesi europei. Quindi con delle legislazioni che siano quantomeno uguali alle altre, con delle leggi che consentano di essere in qualche modo competitivi sui mercati internazionali. Io penso che, facendo questo, visto che il nostro è un grande settore, darà un grande sviluppo al nostro Paese.

Fig.3 - Il convegno a margine dell'Assemblea generale AIAD ha fatto il punto su avanzamento e prospettive dell'industria nazionale del settore.
Fig.3 – Il convegno a margine dell’Assemblea generale AIAD ha fatto il punto su avanzamento e prospettive dell’industria nazionale del settore.

Una curiosità, più che una domanda vera e propria. Che opinione ha del registro europeo per le industrie della difesa?     

Credo che questa rientri tra le tante cose europee che servono a poco. Una volta che le cose si fanno, poi si deve fare in modo che funzionino. E a me non risulta che questo registro funzioni. E se non funziona è come non averlo, quindi non ne posso avere una buona opinione.

Noi sappiamo che nelle condizioni attuali è difficile mappare la difesa su base continentale. Quindi in realtà non si riesce ad avere un quadro chiaro…

Sapete come la penso, ce lo siamo detti a Londra, nei fatti non esiste un’industria europea della difesa. E dunque è inutile prendere delle iniziative o iniziare delle attività che hanno un finto cappello europeo quando poi ogni Paese fa quello che vuole. O l’Europa diventa una cosa seria anche da questo punto di vista, che significa un’unica forza armata impiegata per la difesa europea, una struttura di controllo delle esportazioni che sia comune a tutti i Paesi membri, una struttura di controllo degli investimenti affinché questi siano paritari, che l’EDA e l’OCCAR funzionino. Insomma, se non è così possiamo introdurre le cose più disparate, ma non servirà a niente. Il giorno in cui ci sarà l’Europa, forse ci sarà anche l’Europa della difesa.

Marco Giulio Barone

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La Federazione AIAD (Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la sicurezza) rappresenta la stragrande maggioranza delle imprese italiane che operano nel settore (oltre un centinaio) presso organi e istituzioni nazionali e internazionali, NATO inclusa. La sua principale attivitĂ  è tutelare l’industria italiana e coordinarne le attivitĂ  di ricerca e sviluppo. L’AIAD si pone spesso come interlocutore privilegiato nei confronti dei ministeri Affari Esteri, Sviluppo Economico, UniversitĂ  e Ricerca Scientifica e degli enti (ad es. ENAC, ASI, CNR)  che si avvalgono dei prodotti e servizi delle aziende federate.

Questa intervista fa parte dello speciale Eurosatory. Vi suggeriamo di consultare la pagina dedicata per approfondire i temi del salone attraverso contributi e interviste. [/box]

 

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Marco Giulio Barone è analista politico-militare. Dopo la laurea in Scienze Internazionali conseguita all’Università di Torino, completa la formazione negli Stati Uniti presso l’Hudson Institute’s Centre for Political-Military analysis. A vario titolo, ha esperienze di studio e lavoro anche in Gran Bretagna, Belgio, Norvegia e Israele. Lavora attualmente come analista per conto di aziende estere e contribuisce alle riviste specializzate del gruppo editoriale tedesco Monch Publishing. Collabora con Il Caffè Geopolitico dal 2013, principalmente in qualità di analista e coordinatore editoriale.

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