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L’Iraq e i cambiamenti della strategia USA

In 3 sorsi – La strategia politica e militare USA in Iraq ha subito molti cambiamenti negli ultimi anni, sia a causa di eventi che hanno reso necessaria una modifica dell’approccio nella regione, sia come effetto della successione delle élite politiche al Governo. Di seguito verrà analizzata l’evoluzione dell’approccio degli Stati Uniti in Iraq, tenendo in considerazione le conseguenze che le elezioni presidenziali del 2016 avranno sullo scenario iracheno

1. PERCHÈ L’IRAQ? – Dopo l’attentato alle Torri Gemelle la strategia politico-militare USA nella regione mediorientale, e specialmente in Iraq, è cambiata. Il Presidente Bush, con la sua war on terror, ha deciso di non agire più per mantenere lo status quo, ma di cambiare lo stato delle cose per esportare la democrazia e mettere in sicurezza l’Iraq. Questo è l’unico Stato del Medioriente abbastanza fragile (a causa della guerra contro l’Iran negli anni Ottanta, della Guerra del Golfo nei primi anni Novanta e delle sanzioni che ne sono derivate) da consentire l’invasione statunitense, l’instaurazione di un Governo democratico e la trasformazione dell’Iraq in un pivot regionale che avrebbe fornito vicinanza strategica alla Siria e al grande nemico stratunitense, l’Iran.
Con l’invasione nel 2003 iniziò la 
guerra preventiva al terrorismo. La strategia USA fu multidirezionale: furono smantellate le Iraqi Security Forces (le forze di sicurezza irachene, ISF) perché considerate troppo vicine a Saddam, venne impiantato un sistema economico capitalista e venne rivoluzionata la politica interna. L’intervento USA in Iraq, quindi, fu finalizzato sia ad aumentare la propria sfera d’influenza nella regione, sia a difendere i propri interessi nazionali. Ovviamente tra questi c’è anche l’approvvigionamento di petrolio, ma ridurre la presenza americana nella regione a questo sarebbe una visione troppo semplicistica, nonostante in molti, tra l’opinione pubblica contraria all’invasione nello Stato iracheno, la ritengano la variabile fondamentale.

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Fig. 1 – Un convoglio di mezzi statunitensi in Iraq durante l’operazione Desert Storm nel 1991

2. IL PROGRESSIVO RITIRO USA – Nel 2003 l’amministrazione USA inserì l’Iraq nel cosiddetto “asse del male” (un ipotetico complotto di nazioni favorevoli al terrorismo internazionale e impegnate nello sviluppo di armi di distruzione di massa), insieme a Iran e Corea del Nord. La difesa degli interessi americani fu quindi confermata come causa principale della Seconda guerra del Golfo. Infatti, come spiegò l’allora Presidente USA, George W. Bush, l’operazione militare in Iraq era finalizzata ad assicurare che i cittadini degli Stati Uniti non vivessero alla mercé di uno Stato canaglia che minaccia la pace internazionale. Con il passare del tempo, e con l’inasprirsi dell’opposizione dell’opinione pubblica statunitense e mondiale, la Casa Bianca decise di ritirare gradualmente i soldati dal suolo iracheno. Il Presidente Bush, in un discorso a Washington, annunciò la nuova fase della strategia chiamata “ritorno nel successo“: a novembre 2008 un battaglione di circa mille marine venne rimpatriato dall’Iraq e successivamente furono ritirati altri 3.400 soldati dell’esercito e circa 3.500 militari impegnati in servizi di sostegno. Con il passare degli anni vennero ritirati quasi 145.000 soldati. Anche i costi della guerra furono uno dei motivi della lenta diminuzione della presenza militare: si stima, infatti, che il costo complessivo di cinque anni di guerra in Iraq abbia superato i 500 miliardi di dollari. Il sempre più flebile intervento americano in Iraq raggiunge il suo minimo con l’elezione del presidente Obama: il suo obiettivo  è sempre stato il ritiro delle truppe dal Medioriente, ma gli USA non sono mai riusciti a lasciare del tutto la regione irachena, specialmente a causa dell’espansione del sedicente Stato Islamico.

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Fig. 2 – Soldati statunitensi del 3° Reggimento di Cavalleria Corazzata in Iraq nel 2011

3. I CAMBIAMENTI – L’approccio alla questione Iraq si è modificato e si modificherà, inevitabilmente, in futuro, a causa di variabili sia interne che esterne agli States. Una delle più importanti è la presenza iraniana in Iraq. Dal 2003 l’Iran ha cominciato a espandere e rafforzare la propria sfera d’influenza sugli iracheni sciiti, che sono circa il 50% della popolazione. L’influenza iraniana in Iraq ha rappresentato quindi il problema strategico USA principale, poiché gli statunitensi si ritrovarono a dover operare su un territorio contro due protagonisti dell’”asse del male”. Se in un primo periodo, quindi, gli USA hanno cercato di ostacolare lo Stato persiano nell’intervenire nella regione, c’è chi ritiene che adesso gli USA e gli iraniani stiano perfino collaborando nel panorama politico del Medioriente. Gli iraniani hanno dato un contributo fondamentale per arginare le forze di ISIS e per difendere la minoranza sciita che permette all’Iran di avere ancora un minimo controllo sulla regione, mentre i soldati USA si sono limitati all’addestramento delle forze regolari irachene, inviando altri 500 consiglieri militari sul territorio. Intanto la Casa Bianca si trova anche a dover fare i conti con le elezioni presidenziali imminenti e con i cambiamenti che ne conseguiranno. I repubblicani, infatti, hanno ribadito più volte la volontà di aumentare la presenza degli Stati Uniti in tutto il Medioriente e specialmente in Iraq, vanificando gli sforzi di Obama di creare una politica estera più moderata. Anche con Hillary Clinton alla Casa Bianca l’interventismo potrebbe consolidarsi, specialmente dato che solo una piccola parte dei democratici è inclinata verso il non interventismo. Il magnate Donald Trump, repubblicano, ha affermato che dovrebbero essere inviate più truppe in Iraq per combattere l’ISIS, ormai protagonista di ogni dibattito politico pre-elezioni. Jeb Bush, invece, continua a giustificare l’operato del fratello ed ex- Presidente, affermando che se anche lui stesso fosse venuto al corrente dell’uso di armi chimiche in Iraq avrebbe proceduto all’invasione. Tutto sembra escludere quindi che anche il candidato repubblicano Bush sia per una politica estera fondata sulla moderazione e sulla diplomazia. L’unico candidato repubblicano che sembra avere una posizione diversa è il Senatore del Kentucky Rand Paul, il quale afferma di essere contrario ad agire in altri territori per eliminare dittatori secolari, perché questo non fa altro che generare ulteriore caos. Sembra quindi che l’approccio al problema Iraq sia in continuo mutamento e che si stia ritornando alla politica estera aggressiva che ha caratterizzato gli Stati Uniti per anni e che ha contribuito all’instabilità regionale del Medio Oriente.

Giulia Mizzon

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Un chicco in più

La strategia “ritorno nel successo” del Presidente Bush si caratterizza per un graduale ritiro di soldati dal Medioriente, ma unito all’invio di 4.500 soldati in Afghanistan. La riduzione del numero di militari fu raccomandata dal generale Petraeus, comandante delle truppe americane in Iraq. [/box]

Foto: DVIDSHUB

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Giulia Mizzon
Giulia Mizzon

Nata a Imperia nel 1992, laurea magistrale in Politiche Europee e Internazionali all’Università Cattolica di Milano. Affascinata dalle dinamiche della politica internazionale, frequento un Master in International Relations all’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali. Confesso di essere un’amante degli States, sempre presenti nei miei programmi futuri, e una lettrice accanita di qualsiasi cosa mi capiti sottomano.

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