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Casamance, il silenzio di un conflitto senza cronaca

Dopo un lungo percorso, Macky Sall, il presidente del Senegal, ha dato un nuovo impulso ai colloqui di pace nella regione e anche la comunità romana di Sant’Egidio si sta adoperando nel tentativo di mediare tra le due parti.

LA CASAMANCE – Dal 1982 in Senegal si perpetua un conflitto armato in una piccola regione sconosciuta al resto del mondo, posta come una lingua di terra divisa dal resto della nazione dall’enclave anglofona del Gambia. La Casamance inizialmente era un territorio portoghese, ceduto poi ai francesi, che però non l’hanno mai unito al resto delle loro colonie del Nord (Senegal), mantenendolo sempre un’estensione a parte della Guinea Conakry. È considerata il polmone verde del Senegal, grazie alle sue terre fertili e molto produttive, diversamente dalle terre sabbiose del Nord: la separazione non è solo fisica, ma anche culturale e religiosa e questa divisione ha portato nel Paese un conflitto che da trent’anni dà vita a una silenziosa guerra sfuggita agli occhi dei media occidentali. Le agenzie specializzate nel monitoraggio dei conflitti (International Crisis Group)  vi hanno sempre dedicato poca attenzione, perché considerano il conflitto casamancese a “bassa intensità” (Intensity Conflicts – Lic). Generalmente si tratta di operazioni contro “non-Stati” (entità diverse dallo Stato, o non riconosciute come tali) e sono classificate peacekeeping contro una specie di terrorismo interno. Le forze impiegate operano con equipaggiamenti tattici e finalità più modeste, ma troppo spesso in Africa situazioni del genere sono poi sfociate in genocidi o conflitti di grande portata.

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Fig.1 – Manifestazione per la pace in Mali e nella Casamance

LA NASCITA DEL MFDC – Per comprendere meglio le origini del conflitto occorre tornare indietro nel tempo, prima della data ufficiale d’inizio (1982). La spinta indipendentista di questa regione affonda le sue antiche radici nella strenua resistenza che i Diola (l’etnia maggioritaria della regione) opposero ai francesi, ribellandosi al regime coloniale. Il governatore della regione, il generale Van Vollenhoven, nel 1917 confessò: «Non abbiamo la padronanza della situazione in Casamance, vi siamo solo tollerati; bisogna che la Casamance non sia più una sorta di verruca nella colonia, visto che dovrebbe esserne un gioiello». Nel 1947 nacque il MFDC (Mouvement des Forces Démocratiques de la Casamance), fondato da Emile Badiane, Ibou Diallo e Yéro Kandé «come portavoce del popolo casamançais in lotta contro la colonizzazione», con l’obiettivo dell’indipendenza dal giogo coloniale e per il raggiungimento dell’autonomia dal passato. Nel 1954 il gruppo, dopo aver ottenuto l’indipendenza dalla Francia, smise di avere un’esistenza propria e fu assorbito nel Bloc Démocratique Sénégalais (BDS) di Léopold Sédar Senghor, il futuro presidente del Senegal, fautore del movimento della negritudine e sostenitore del panafricanismo. «Abbiamo spiegato alla popolazione che sarebbe stato contro i nostri interessi non essere integrati al Senegal. Il nostro disegno era quello di favorire una maggiore integrazione della Casamance all’interno del Senegal […] Mai, alcun responsabile, ha espresso la minima rivendicazione indipendentista […] Al contrario, se c’è qualcosa di cui i casamançais si sono sempre lamentati, è di non occupare, nelle istanze repubblicane, lo spazio meritato in virtù del peso economico e politico della loro regione». Alcuni dei membri più radicali del movimento lo mantennero però in vita, poiché fautori di una indipendenza totale, anche dal Senegal. L’ala dura si organizzò in una forza autonoma, il Mouvement Autonome de la Casamance (MAC). Questo movimento era troppo debole e non aveva grandi finanziamenti e per molti anni si dedicò solamente a fare proseliti e ad allacciare contatti con i Paesi confinanti come il Gambia e la Guinea, che diversamente dal Senegal erano interessati ai prodotti della fertile regione.

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Fig.2 – Léopold Senghor, alla guida del Senegal dal 1960 al 1980

DAL 1960 AL 1982 – Il Senegal divenne indipendente il 4 aprile 1960 e il neo-eletto Presidente, Léopold Sédar Senghor, lavorò per l’effettiva integrazione tra le diverse etnie presenti sul territorio senegalese, consapevole del fatto che la convivenza forzata avrebbe potuto trasformarsi in una polveriera. Il suo contributo alla costruzione di un Paese pacifico, in cui i diversi gruppi etnici potessero convivere, fu grande e ne sono testimonianza, ancora oggi, i rapporti di cousinage tra le diverse etnie: Diola e Serere, per esempio, sono legati da un patrimonio culturale comune, fatto di riti tradizionali, ma qualcosa non funzionò con i rapporti della Casamance. Il grande polmone verde si sentiva isolato e abbandonato dalle Autorità statali. Una strada sola collegava la regione al resto dello Stato e un solo battello alla settimana collegava Dakar con Ziguinchor, la capitale casamancese. Inoltre non tutto il MFDC gradì l’assorbimento all’interno del BDS e l’errore maggiore di Senghor fu quello di aver perseguito una politica di accentramento per la quale tutte le risorse vennero dirottate su Dakar e la Casamance, il granaio del Senegal, venne sfruttato come serbatoio cui attingere liberamente senza niente in cambio, dando spazio così alle rivendicazioni dell’ala più intransigente del movimento casamancese.

IL 1982: L’ANNO DELLA ROTTURA – Nel dicembre 1982 gli esponenti del MFDC organizzarono una manifestazione per protestare contro l’arresto del loro leader, Augustin Diamacoune Senghor, detto l’Abbé Diamacoune. La manifestazione terminò in un bagno di sangue e i capi si diedero alla macchia, rifondando il MFDC in una nuova versione, secessionista e armata.  L’abbè Diamacoune era un abate e direttore del “Medio Seminario Nostra Signora di Ziguinchor” e fu la guida del MFDC nel dicembre 1982, quando scoppiò la lotta armata contro il Senegal. Mentre gli occhi del mondo erano rivolti verso le Falkland o verso l’invasione di Israele ai danni del Libano, la lotta per l’indipendenza della Casamance sfociò in una vera guerra.  Per tre decenni i ribelli capeggiati dall’Abate hanno tenuto sotto scacco le Forze armate senegalesi, i cui ufficiali sono tuttora addestrati nelle accademie militari francesi, e hanno dato vita a una lunga campagna di attacchi mirati, instaurando nella regione un’economia di guerra.
Il 30 dicembre 2004 l’Abate e il presidente senegalese Abdoulaye Wade, attraverso il suo ministro dell’Interno, Ousmane Ngom, firmarono un trattato di pace dopo tre decenni di scontri. Dopo la firma di questo accordo, nella regione regnò per un periodo la calma, disturbata da sporadici attacchi. Con la morte dell’abate, avvenuta nel 2006, il movimento non fu capace di mantenersi unito e si spaccò in diversi fronti, perché secondo molti il presidente Wade cercava solamente un accordo che gli desse lustro a livello internazionale e non ha mai lavorato a favore di una effettiva riconciliazione tra le parti. L’autoproclamata leadership di Mamadou Sane, detto Nkrumah, da tempo in esilio in Francia, non ha mai avuto un effetto riunificante del movimento, che si divise in due fazioni capeggiate dai militari Badiate e Sadiò. Soprattutto Salif Sadio, l’esponente più radicale, non accettò mai i trattati di pace e fin dall’inizio pose sotto la sua ala tutta la parte radicale del movimento.

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Fig.3 – Soldati senegalesi in azione

LA POSIZIONE STRATEGICA NEL SAHEL – In questo momento sono due i fattori importanti che obbligano il Senegal a cercare una soluzione alla crisi: la pressione islamica e il narcotraffico. Nell’ultimo decennio si è manifestata una tensione nei Paesi della banda saheliana tendente a rimettere in discussione gli equilibri e i sistemi di stabilità. La caduta del regime di Gheddafi ha portato, tra l’altro, delle gravi conseguenze nella regione: la dispersione dell’ingente patrimonio militare libico (in parte aiuti occidentali), ha incrementato l’instabilità nell’area del Sahel. Il Mali è un esempio di questa situazione, con una guerra dimenticata nel Nord del Paese che ha coinvolto una parte della popolazione Tuareg nel 2012, quando ritornarono diversi miliziani del Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad in precedenza al servizio di Gheddafi e con in dote nuove esperienze belliche e nuovi armamenti.  L’intervento francese ha bloccato sul nascere un possibile scenario di frammentazione del territorio, differentemente da quello che sta avvenendo in Siria, Libia e Repubblica Centrafricana. La paura odierna è che le frange estremiste creino una strategia di lungo periodo, scegliendo la via dell’infiltrazione regionale e della destabilizzazione, spostandosi in aree dove sono presenti altri movimenti affini e dove ci sono conflitti in corso. Il Senegal si è posto come uno dei principali ostacoli di tale strategia. La sua collocazione internazionale di stabile alleato dell’Occidente, la sua religione tollerante e la presenza di una minoranza cristiana integrata stabilmente nella società sono fattori che possono rendere il Senegal un possibile obiettivo e secondo i dirigenti dell’ONU il movimento indipendentista casamancese può essere un possibile alleato, anche se la matrice cristiana potrebbe essere un deterrente. Inoltre le milizie islamiste hanno fatto del narcotraffico uno dei principali strumenti di finanziamento e di destabilizzazione. Da tempo questo è il business più praticato in tutta l’area, particolarmente nel contesto a sud del Paese. La porosità dei confini e l’instabilità politico-istituzionale hanno di fatto creato una zona ampia che comprende il Sud del Senegal, la Guinea Bissau e la Guinea Conakry, fino a giungere alla Costa d’Avorio, recentemente indicata come uno dei terminali della rete regionale di cannabis costruita dai ribelli per auto-finanziarsi. La paura è che la Casamance sia diventata terra di passaggio e di appoggio per il narcotraffico grazie all’esistenza di vaste aree non controllate dalle Autorità locali.

LA SITUAZIONE ODIERNA – Da due anni nella regione, grazie alle politiche del nuovo presidente senegalese Macky Sall, è in atto una tregua tra i movimenti indipendentisti e lo Stato. Gli effetti collaterali della guerra civile sono stati devastanti: intere aree rurali sono state seminate con mine anti-uomo, villaggi e campi sono stati abbandonati e sanguinarie rappresaglie su entrambi i fronti delle forze hanno aperto profonde ferite, generando una forte richiesta di pacificazione nella maggioranza della popolazione. In questo momento è difficile capire la situazione reale, perché i movimenti guerriglieri si sono frammentati e alcuni gruppi si stanno dedicando al banditismo, perdendo di vista l’obiettivo dell’indipendenza. Nonostante i negoziati intrapresi nella regione siano ancora attivi, ci sono diversi piccoli gruppi armati dediti alle rapine e al narcotraffico. Gli ideali politici sono svaniti nei decenni e quello che rimane è solo la continua sopravvivenza e la ricerca di un sostentamento con gli unici mezzi conosciuti: le armi e il malaffare. Secondo la ONG APRAN (Associazione per la promozione del distretto rurale Nyassia), nel 2009 c’erano ancora 10.700 sfollati. Il numero di morti (civili, soldati e combattenti) è sconosciuta, ma sarebbero centinaia. I dati ufficiali, tuttavia, indicano che le mine poste dalla MFDC hanno causato 751 tra uccisi e mutilati. Ora, dopo i trattati, la popolazione spera in una pace vera e non in una semplice tregua, augurandosi che lo stallo tra le parti si possa sbloccare e che le parti in causa abbandonino i calcoli egoistici, mettendo da parte le divisioni settarie e le rivalità claniche che troppo spesso rallentano i processi di pace.

Marco Napoli

Foto: RTS1senegal

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Marco Napoli
Marco Napoli

Sono nato nel 1983 a Torino. Fotogiornalista e scrittore, mi occupo di reportage sociale e di guerra. Nel 2014, con il fotoreporter Ugo Lucio Borga, ho coperto il conflitto bellico che affligge la Repubblica Centrafricana e sempre nello stesso anno ho fondato la “eikònassociazione.com” con altri due fotoreporter torinesi. Ora vivo in Africa a contatto con il mondo che voglio raccontare e a cui voglio dare una voce.

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