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Rohingya, una crisi umanitaria nel cuore del Sud-est asiatico

5 domande e 5 risposte – Mentre l’Unione Europea sembra non aver ancora trovato una posizione comune su come far fronte agli sbarchi di migranti nel Mediterraneo, dall’altra parte del mondo si sta consumando una delle crisi umanitarie più gravi del nuovo secolo. Coinvolge l’etnia Rohingya e ha luogo nell’Oceano Indiano. 

1. DI COSA SI TRATTA? – Dallo scorso maggio, più di 3.000 migranti Rohingya del Myanmar – minoranza etnica di religione musulmana – hanno tentato di sbarcare sulle coste di Thailandia, Malesia e Indonesia a bordo di navi peschereccio. Si tratta del più grande esodo di massa dal conflitto in Vietnam degli anni Sessanta/Settanta, indotto dalla cruenta persecuzione religiosa praticata dal Governo di Naypyidaw nei confronti di tale popolazione. Il culmine di questa crisi umanitaria è stato toccato tre settimane fa, quando un barcone con a bordo 600 persone è rimasto incagliato per giorni sul Mare delle Andamane, a largo della Thailandia, a causa del rifiuto delle autorità di Bangkok di concedere il permesso di entrare nelle proprie acque territoriali. Allo stesso modo ha agito il Governo di Kuala Lumpur. Dall’inizio del 2015, circa 300 Rohingya hanno trovato la morte in mare nel tentativo di raggiungere i Paesi musulmani del Sud-est asiatico.

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Fig. 1 – Profughi Rohingya in un centro di accoglienza in Malesia

2. CHI SONO I ROHINGYA E QUAL È LA POSIZIONE DEL GOVERNO DEL MYANMAR? – Data la forte eco internazionale il Governo del Myanmar si è apprestato a riconoscere la crisi umanitaria in atto, declassando invero la vicenda da fuga di massa motivata da ragioni umanitarie a traffico di esseri umani gestito da alcune cellule criminali thailandesi. Peraltro, la presa in carico del problema stona con le decisioni assunte in precedenza dal Governo militare, giacché i Rohingya (un milione e centomila persone) non godono tuttora del diritto di cittadinanza e non sono mai stati riconosciuti come una delle 135 etnie ufficiali del Paese. I Rohingya – da molti ritenuti non birmani, ma bengalesi musulmani – sono insediati da quasi un secolo nello Stato di Rakhine – suddivisione amministrativa sulla costa occidentale del Paese – e contano per un terzo della sua popolazione totale. Ciononostante, dal 1982 i Rohingya sono trattati legalmente alla stregua di immigrati irregolari e gran parte di essi vive tuttora nei campi profughi allestiti dalle organizzazioni umanitarie. Secondo le Nazioni Unite, il popolo Rohingya del Myanmar è soggetto ad un vero e proprio regime di apartheid. Le autorità continuano infatti a limitare i flussi in uscita dai campi e a violare sistematicamente i loro diritti fondamentali. I primi e cruenti scontri tra musulmani e buddhisti risalgono al 2012, e sono stati fomentati dal Movimento 969, associazione per la protezione della razza Bamar (etnia maggioritaria del paese) e della religione buddhista, al cui vertice compare il monaco Ashin Wirathu. Da allora, secondo l’UNHCR, circa 140.000 Rohingya sono stati costretti ad abbandonare i villaggi d’origine. Si tratta della minoranza etnica più perseguitata al mondo.

3. PERCHÉ I PAESI COINVOLTI SONO RESTII A TROVARE UNA SOLUZIONE POLITICA ALLA QUESTIONE? – Finora ai migranti Rohingya sono stati offerti aiuto umanitario immediato e asilo politico temporaneo. Il 20 maggio i Ministri degli Esteri dei tre Paesi coinvolti hanno trovato un accordo preliminare circa la ripartizione in quote dei migranti Rohingya, relativamente però alla sola assistenza umanitaria. Il loro rimpatrio dovrebbe avvenire entro un anno con l’aiuto della comunità internazionale e nel rispetto degli standard minimi sui diritti umani. Oltre all’aumento dei controlli alle frontiere marittime, i tre Stati della regione hanno recentemente modificato le rispettive normative in materia di lotta all’immigrazione clandestina, adottando misure simili a quelle approvate nel 2013 dal Governo dell’Australia guidato da Tony Abbott (Operazione Secured Borders). Nella fattispecie, la legislazione indonesiana – entrata in vigore nel 2011 – è molto severa e prevede pene fino ad un massimo di cinque anni di carcere per chi tenta di entrare irregolarmente nel Paese.

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Fig. 2 – Il Presidente birmano Thein Sein

4. QUAL È STATA LA RISPOSTA DELL’ASEAN? – In tale contesto, l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN) non ha certamente dato grande prova di decisionismo. La delegazione del Myanmar non ha preso parte al Summit straordinario di Kuala Lumpur organizzato per ricercare una soluzione politica alla crisi umanitaria dei Rohingya, giustificando l’assenza con il fatto che la questione sia in capo al solo Bangladesh poiché Paese d’origine dei Rohingya. Solo tre dei dieci membri ASEAN sono parti contraenti della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 1951 che regola il trattamento dei rifugiati e dei richiedenti asilo. Nel 2012, l’Associazione approvò una dichiarazione con la quale intese affermare che il rispetto dei diritti umani fondamentali dovesse tener conto del contesto nazionale e regionale. Con ciò, in pratica, ai Paesi membri è permesso di chiudere un occhio davanti ad eventuali abusi perpetrati nei confronti di soggetti o minoranze religiose.

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Fig. 3 – La leader dell’opposizione birmana Aung San Suu Kyi

5. PERCHÉ AUNG SAN SUU KYI NON SI È ANCORA ESPRESSA SULLA VICENDA? – A questa drammatica vicenda umanitaria fa da contorno lo scalpore determinato dal silenzio quasi assordante del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Entro la fine di quest’anno si terranno in Myanmar le prime elezioni libere dall’avvio del processo democratico nel 2011, consultazioni che dovrebbero eleggere il nuovo Presidente dell’Unione. Nel pieno della campagna elettorale, il timore della leader storica della Lega nazionale per la democrazia (LND) è che la sua candidatura possa essere delegittimata nel caso in cui il suo movimento dovesse prendere una posizione netta in favore dei Rohingya. Il rischio è ben presente ed è molto probabile che l’emorragia di voti vada a premiare i movimenti ultra-nazionalisti, che non perdono occasione per dipingere il capo dell’opposizione all’attuale Governo di Thein Sein come la strenua “amica dei musulmani”. Recentemente, il Dalai Lama ha esortato la signora Suu Kyi ad uscire allo scoperto e farsi promotrice di un dialogo costruttivo tra i Bamar e le varie etnie minoritarie del paese.

Raimondo Neironi

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Un chicco in più

I Rohingya non sono il solo gruppo etnico ad essere perseguitato in Myanmar. Vi sono infatti altre due minoranze, appartenenti al ceppo sino-tibetano: una concentrata nello Stato settentrionale di Kachin, al confine con la Repubblica popolare cinese; l’altra, i Karen, insediata nella regione sud-orientale di Kayin.

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Raimondo Neironi
Raimondo Neironi

Dottorato di ricerca in Storia internazionale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Per il “Caffè”, mi occupo di tre temi: politica, economia e ambiente; e due aree del mondo: Sud-est asiatico e Australia.

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